Hume PageHume Page

Politica

Veltroni e le certezze sulla sicurezza

22 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

“È un dato di fatto che gli italiani, dopo anni di governo di destra, si sentono più insicuri”.

“Credo di poter dire che mai la percezione di insicurezza su tutti i fronti sia stata così alta, anche in Italia”.

Sono due fra le molte affermazioni perentorie che si possono leggere in un recente intervento di Walter Veltroni sul Corriere della Sera.

All’articolo di Veltroni ha replicato Maurizio Belpietro su La Verità, opponendogli i dati del consueto Rapporto di Ferragosto del Viminale, da cui risulta che nei primi 7 mesi del 2025, rispetto al corrispondente periodo del 2024, sono diminuiti i reati totali (-9%), le violenze sessuali (-17.3%), le rapine (-6.7%), i furti (-7.7%), mentre sono aumentati leggermente gli omicidi (+3.4%).

Sono due esempi perfetti di come non si dovrebbe parlare di sicurezza. Veltroni presenta come “dato di fatto” una sua personale sensazione di aumento dell’insicurezza percepita, che nessuna indagine demoscopica ha finora confermato. Le poche indagini rigorose finora pubblicate, anzi, mostrano semmai il contrario. L’ultima ricerca di questo tipo dell’Istat, pubblicata meno di un anno fa e relativa ai primi mesi del governo Meloni, titola “Migliora la percezione di sicurezza dei cittadini”. Nulla esclude che indagini più recenti rovescino il giudizio, e diano ragione al pessimismo veltroniano, ma il punto è che per ora sappiamo solo che l’ultima rilevazione ufficiale ha registrato un aumento e non una diminuzione della percezione di sicurezza. Quanto poi alla affermazione che “mai” la percezione di insicurezza sarebbe stata così alta, ci soccorrono le indagini annuali dell’istituto Demos&Pi, che rivelano che il picco dell’insicurezza fu toccato nel 2012 (regnante Monti), con il 50% di cittadini preoccupati per la criminalità, mentre nel 2023 (ultima indagine disponibile, e primo anno del regno Meloni) l’insicurezza era al 33%”, ossia molto più bassa e, ironia della sorte, vicinissima al minimo storico (32%) toccato nel 2009, regnante Berlusconi. Anche qui non sappiamo ancora che cosa sia successo poi, ossia nel 2024 e nel 2025, ma supporre – e affermare perentoriamente – che si sia superato il picco del 2012 appare quantomeno avventuroso.

Meglio allora rivolgersi al Viminale e ai dati (rassicuranti) riportati da Belpietro?

Peggio che mai. Ci sono ottime ragioni per prendere con scetticismo anche i dati del rapporto di Ferragosto del Viminale, non solo le percezioni di Veltroni.

Innanzitutto, il rapporto ha un chiaro intento propagandistico. Il suo scopo (più che legittimo) è chiaramente quello di mettere in evidenza l’attivismo e i successi delle Forze dell’ordine.

In secondo luogo, i suoi dati sono pochissimo informativi, sia perché si limitano a rilevare le tendenze dell’ultimo anno (primi 7 mesi del 2025 contro primi 7 mesi del 2024), sia perché riguardano un piccolo e selezionato numero di reati, sia perché – inevitabilmente – sottostimano il numero di delitti del periodo più recente (per normali ritardi nella trasmissione dei dati). Presumibilmente, l’unico dato affidabile è quello degli omicidi, che sono quasi del tutto privi di “numero oscuro” (casi non denunciati) e difficilmente sono registrati e comunicati con grande ritardo, ma che – malauguratamente – risultano invece in aumento: +3.4%.

Che fare, dunque?

Per quanto riguarda la percezione di insicurezza, aspettiamo che l’Istat pubblichi i risultati della indagine multiscopo, condotta nei mesi scorsi. Per quanto riguarda la realtà, è essenziale usare dati consolidati, ossia non soggetti ad eccessive revisioni, prendere in considerazione un periodo di almeno 4-5 anni, scegliere in modo non furbesco l’anno di appoggio, rispetto al quale calcolare le variazioni. In concreto, questo significa ignorare gli anni 2020-2021, anomali causa Covid, e puntare su due confronti cruciali: 2022 contro 2019 (era Conte-Draghi) e 2023 su 2022 (primo anno dell’era Meloni).

Ed ecco i risultati: su 33 categorie di delitti considerate nelle statistiche ufficiali, 18 hanno avuto il medesimo andamento (aumento o diminuzione) nell’era Meloni e nell’era Conte, 6 sono aumentati nell’era Meloni e diminuiti nell’era Conte-Draghi, 8 sono aumentati nell’era Conte-Draghi e diminuiti nell’era Meloni. Riguardo al numero totale di delitti, il bilancio non è favorevole per nessuno: i furti sono aumentati nel 2022-2023 e diminuiti nel 2019-2022 (forse anche per gli strascichi della pandemia), ma l’insieme degli altri delitti è aumentato in entrambi i periodi a un ritmo simile (circa 2% l’anno).

Se poi ci rivolgiamo ai delitti di maggiore allarme sociale, il punto debole dell’era Conte-Draghi sono le violenze sessuali, aumentate del 28.8% in tre anni, mentre quello dell’era Meloni è l’aumento di alcuni crimini violenti commessi da minori, come le rapine e le lesioni dolose (un dato che risulta chiaramente da altre fonti ufficiali, inspiegabilmente trascurate).

Come si vede, appena si mette mano ai dati, ogni certezza ideologica vacilla.

[articolo uscito sulla Ragione il 19 agosto 2025]

Percezione o realtà? – La crescita della violenza giovanile

18 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Pochi giorni fa, in Italia, quattro bambini rom di 11-13 anni (quindi non imputabili) hanno rubato e svaligiato l’auto di un turista francese, e con l’auto rubata hanno investito e ucciso una donna. In Francia, un paio di settimane fa, per limitare aggressioni e spaccio, una quindicina di città hanno imposto il “coprifuoco” per i ragazzini, che non potranno più girare di notte non accompagnati da adulti. E non passa giorno senza che le cronache riferiscano di risse fra baby-gang, assalti alle forze dell’ordine, accoltellamenti fra minorenni.

E tuttavia la domanda è: sono i media che alimentano la percezione di un aumento della violenza minorile, o c’è qualcosa di reale?

Su questo le opinioni si dividono, non solo oggi. Tipicamente, i conservatori tendono a pensare che la criminalità minorile sia realmente in aumento. Mentre i progressisti, ogni volta che se ne presenta l’occasione, chiamano in causa i media e il loro potere di suggestione e di amplificazione dei fenomeni criminali.

Chi ha ragione?

A prima vista, la versione progressista ha molte frecce al suo arco. Decenni di studi sul cosiddetto “crime drop” (il crollo degli omicidi avvenuto nei paesi occidentali dopo la caduta del muro di Berlino) hanno abituato i sociologi a pensare che il problema fondamentale sia di individuare le cause che, nel ventennio 1990-2010, hanno permesso questo spettacolare progresso della convivenza umana. Le ragioni individuate sono più di una decina, ma la lista è controversa, e nessuno è finora stato in grado di indicare con sicurezza quelle giuste (forse anche perché la maggior parte degli studi empirici lavorano su dati americani). In breve, molti studiosi sono ancora fermi a una domanda superata, o perlomeno inattuale: perché il crimine diminuisce?

Ma c’è anche un altro ostacolo che rende difficile mettere a fuoco il problema della violenza giovanile: il successo dei libri di due formidabili psicologi sociali americani, Jean Twenge e Jonathan Haidt. In due importanti e documentatissimi volumi come Iperconnessi (Einaudi 2018) e La generazione ansiosa(Rizzoli 2024) tutta l’attenzione viene posta sugli effetti psicologici negativi degli smartphone e dei social, ma tali effetti sono concettualizzati  esclusivamente come “disturbi internalizzanti”, ossia come squilibri che si rivolgono verso l’interno dell’individuo, generando ansia, depressione, senso di solitudine, disturbi alimentari, comportamenti autolesionistici, fino al suicidio (tentato o reale). Nessuna attenzione viene riservata all’altra grande classe di disturbi, i cosiddetti “disturbi esternalizzanti”, nei quali il disagio anziché essere rivolto all’interno del soggetto viene riversato all’esterno, verso gli altri, in forme che possono variare dalla semplice sindrome ADHD (iperattività e deficit di attenzione) fino ai comportamenti più antisociali, come le aggressioni fisiche, le violenze sessuali e gli omicidi.

Detto in altre parole: tipicamente, i sociologi si attardano ancora sulle ragioni della diminuzione della violenza (un fenomeno del passato), gli psicologi sociali analizzano l’impatto di internet sui giovani ignorando i disturbi esternalizzanti, che della violenza possono essere il veicolo. Così nessuno scienziato sociale pare porsi seriamente la domanda fondamentale: l’indigestione da internet delle nuove generazioni può contribuire ad aumentare i comportamenti violenti?

È toccato a una scrittrice, Susanna Tamaro, provare a rispondere, basandosi sugli studi dei neuro-scienziati: “l’uso eccessivo dello smartphone riduce, specie nei bambini e negli adolescenti, il volume cerebrale, soprattutto nelle regioni subcorticali, quelle regioni che aiutano a regolare il comportamento e controllare le emozioni”. Di qui un possibile aumento della violenza minorile, legato alla diminuzione della capacità di auto-controllo.

Ma questo aumento della violenza minorile è reale, o puramente ipotetico? E se è reale, i suoi tempi sono quelli che in tutto l’occidente hanno governato l’esplosione dei disturbi internalizzanti, a partire da ansia e depressione, o sono tempi diversi? Detto in altre parole: il decollo di internet e dei social media, avvenuto una dozzina di anni fa, c’entra oppure no?

I dati finora disponibili, purtroppo, non consentono di dare una risposta rigorosa a tutti gli interrogativi precedenti. Però qualcosa possiamo dire.

Primo, negli Stati Uniti, a dispetto di una diminuzione della maggior parte degli altri reati, gli omicidi commessi da minorenni sono letteralmente esplosi (+65%) fra il 2016 e il 2022 (ultimo dato reperibile). E sono in aumento pure i delitti commessi da minori con armi da fuoco o altre armi.

Secondo, in Italia fra il 2019 (ultimo anno pre-Covid) e oggi (ultimi dati disponibili, per lo più relativi al 2023) i reati di aggressione commessi da minorenni sono tutti in aumento, almeno a giudicare da quelli per cui si hanno dati aggiornati al 2023 o al 2024. In ordine di velocità di crescita: minaccia (+13.7%), lesioni dolose (+35.1%), violenza sessuale (+38.8%), percosse (+40.0%), rissa (+57.5%), rapina (+78.4%), omicidio (+84.2%). Come si vede, il primo posto di questa triste classifica è occupato dagli omicidi, esattamente come negli Stati Uniti.

A quanto pare, questa volta, sono i conservatori a vederci giusto.

[articolo inviato al Messaggero il 15 agosto 2025]

Tre domande su Israele

13 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Dopo una lunga stagione di incertezze, ora anche il governo italiano pare essersi deciso a prendere posizione contro il piano di occupazione di Gaza City annunciato da Netanyahu, ma osteggiato dall’esercito israeliano. A differenza di altri paesi, tuttavia, l’Italia non ha sospeso gli accordi di cooperazione con Israele, non ha riconosciuto lo Stato palestinese, né ha annunciato di volerlo fare a breve termine (come invece ha fatto la Francia).

Le ragioni della svolta si comprendono facilmente: i media occidentali e l’opinione pubblica sono schierati senza incertezze con i Palestinesi, visti come vittime innocenti della crudeltà di Netanyahu. In questa situazione, per qualsiasi governo europeo occidentale, non condannare la nuova operazione militare israeliana equivarrebbe a un suicidio politico (una situazione simile, mutatis mutandis, a quella del 1992, quando era impossibile non stare con Mani Pulite contro i politici corrotti). Di qui la corsa a schierarsi con i deboli (palestinesi) contro i forti (israeliani).

Se sul piano comunicativo il gioco è chiaro, e fin troppo scoperto, non così sul piano politico-militare. Chi, come la maggior parte dei governi europei, sostiene il riconoscimento dello stato di Palestina e la soluzione “due popoli, due Stati”, si guarda bene dal rispondere ad alcune domande cruciali.

Prima domanda: qual è il governo che i paesi europei vorrebbero riconoscere? È il governo di Gaza, anti-democratico e in mano ai terroristi? O è la debole e corrotta Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che governa una piccola porzione della Cisgiordania? O il riconoscimento è una finzione, che non si rivolge a nessun governo, e serve semplicemente a rabbonire le sensibili opinioni pubbliche europee?

Seconda domanda: qual è il territorio su cui dovrebbe sorgere il nuovo Stato Palestinese? Se è Gaza, è una presa in giro, visto che la Striscia è un cumulo di macerie. Se è la Cisgiordania, c’è un piccolo inconveniente: per cederla interamente ai Palestinesi occorrerebbe sgomberarla da centinaia di migliaia di coloni e soldati israeliani, che controllano interamente la zona C (59% del territorio), hanno il controllo militare della zona B (24% del territorio), e con innumerevoli posti di blocco sorvegliano tutti gli spostamenti fra le oltre 200 aree separate che costituiscono le zone A e B in cui vivono la maggior parte dei Palestinesi.

Terza domanda: esiste un percorso politico-diplomatico-militare che ha ragionevoli possibilità di imporre la soluzione dei due Stati?

Quel che voglio dire è che è troppo comodo lavarsi la coscienza con l’atto puramente simbolico di riconoscere lo Stato palestinese, senza specificare quali sono i territori che gli israeliani dovrebbero sgomberare, qual è l’autorità di governo che siamo disposti a riconoscere, qual è il processo che può condurre alla meta.

Da questo punto di vista, l’Europa non è certo senza peccato. Dov’eravamo quando, specie sotto Netanyahu, i governi israeliani permettevano la frantumazione della Cisgiordania in innumerevoli enclave? Che cosa abbiamo fatto per impedire gli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania, una terra che l’Onu fin dal 1947 aveva assegnato ai Palestinesi? Come abbiamo fatto a chiudere gli occhi di fronte all’uso che, per ben due decenni, Hamas ha fatto dei miliardi di aiuti concessi dall’Europa?

Sono tutti interrogativi cui nessun governo europeo, finora, ha avuto il coraggio di rispondere. Perché se provasse a farlo, dovrebbe scoprire che il male è stato fatto ben prima dell’invasione di Gaza, e in quel male anche noi abbiamo avuto una parte. Oggi ci commuoviamo per le sofferenze del popolo palestinese e invochiamo una soluzione – due popoli, due Stati – che con la nostra indifferenza passata abbiamo contribuito a rendere (quasi) impossibile.

[articolo inviato alla Ragione il 10 agosto 2025]

A proposito di suicidio assistito – Uscita di sicurezza

6 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Di fine vita, suicidio assistito, testamento biologico, eutanasia si è tornati a parlare con particolare intensità nelle ultime settimane. Ad accendere l’attenzione sono stati non solo alcuni recenti passaggi legislativi e giudiziari – in particolare i disegni di legge che il Parlamento, con colpevole ritardo, discuterà a settembre – ma anche gli accorati, commoventi, appelli di alcune donne la cui volontà di porre fine alla loro vita si è scontrata con l’assenza di una legge organica e con le pastoie delle procedure previste dalle leggi vigenti.

Ma qual è l’oggetto del contendere?

Per quel che ho capito leggendo le proposte di legge, fondamentalmente il conflitto è fra quanti vorrebbero estendere il più possibile il diritto a essere aiutati a morire, coinvolgendo il sistema sanitario nazionale e riducendo al minimo i requisiti per esercitare tale diritto, e quanti invece vorrebbero introdurre requisiti stringenti ed escludere il servizio sanitario nazionale,

Nella versione più restrittiva, il diritto al “suicidio assistito”, oltre ad alcuni requisiti ovvi (come la gravità della patologia e la volontà di morire liberamente espressa) prevede che il paziente si sottoponga a cure palliative, sia tenuto in vita da “trattamenti di sostegno vitale” (senza i quali morirebbe), e sia in grado di autosomministrarsi il farmaco letale. Nella versione più permissiva, invece, si consente l’accesso al suicidio assistito anche a chi non dipende da trattamenti vitali, rifiuta le cure palliative, e non è in grado di auto-somministrarsi il farmaco. Quanto al requisito della volontà liberamente espressa dal paziente, alcuni ritengono che siano sufficienti le indicazioni fornite nelle disposizioni anticipate di trattamento (DAT, o testamento biologico), altri pensano che non si possa “somministrare la morte” sulla sola base di disposizioni formulate in un passato più o meo remoto.

Entrambe le posizioni, quella permissiva e quella restrittiva, hanno le loro buone ragioni. La posizione permissiva difende il diritto all’autodeterminazione e al rifiuto dei trattamenti sanitari, entrambi costituzionalmente garantiti (art. 13 e 32). La posizione restrittiva poggia sulla preoccupazione che, indebolendo sempre di più i requisiti di accesso al suicidio assistito, si finisca per aprire la strada a suicidi indotti dalle pressioni familiari verso quei malati che il welfare domestico non è più in grado di gestire (una preoccupazione forse irrilevante in un paese scandinavo, ma più che comprensibile in Italia, dove lo Stato scarica sulle famiglie l’onere dell’assistenza agli anziani).

Se però esaminiamo da vicino i principali disegni di legge proposti – in particolare quello governativo e quello dell’associazione Luca Coscioni – possiamo notare, in entrambi i testi, una comune presenza e una comune assenza. La comune presenza è quella di una asfissiante burocrazia etico-sanitaria-giudiziaria. Chi vuole essere aiutato a morire è costretto a infilarsi in una trafila estenuante, umiliante, e piena di incertezze. Una trafila che, si noti, non riguarda solo i casi controversi, in cui il dubbio è più che legittimo, ma affligge chiunque, compresi i casi eclatanti e per così dire ovvi di cui si è parlato tante volte (Luana Englaro, Piergiorgio Welby, Dj Fabo, e nei giorni scorsi Martina Oppelli e Laura Santi).

La comune assenza è quella di misure che prendano sul serio i meccanismi di formazione della volontà suicidaria, che non dipende solo dalla gravità della malattia, ma anche dalle condizioni in cui i malati si trovavo a vivere e interagire con gli altri. Anche su questo vi sono state, nei mesi scorsi, testimonianze toccanti, ma di segno opposto. Pazienti come Dario Mongiano, Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon, hanno chiesto di essere ascoltati dalla Corte Costituzionale, allora in procinto di pronunciarsi sul fine vita. Il loro ragionamento ribalta completamente la prospettiva. Anziché chiedere allo Stato di permettere loro di esercitare il diritto alla morte, chiedono allo stato di proteggerli dalla tentazione di ricorrervi. È vero che si tratta di pazienti in condizioni meno estreme di quelle che hanno afflitto i casi più noti, da Englaro e Welby in poi. Ma il loro ragionamento merita attenzione. Per loro quella del suicidio è una tentazione che nasce anche dall’abbandono, dalla mancanza di cure e sostegno. E il concedere il diritto al suicidio rischierebbe di diventare una comoda scorciatoia che lo Stato imbocca perché né lo Stato stesso né la società civile riescono a fare abbastanza per sostenere la volontà di vivere. Se passasse l’idea del suicidio assistito, dice uno di loro (affetto da tetraparesi spastica), “io potrei richiederlo. E non voglio che lo Stato mi dia questa possibilità. La mia vita sarebbe meno protetta perché tutto dipenderebbe esclusivamente dalla mia capacità di resistere al dolore. Sarei lasciato solo, ricadrebbe tutto sulle mie spalle e in alcuni momenti è molto difficile fare affidamento soltanto sulla propria forza di volontà” (corsivo mio).

È una mossa paradossale: si chiede meno libertà, per ritrovare la forza di esercitare la vera libertà, che è quella di voler vivere, nonostante tutto e a dispetto di tutto. Un po’ come Ulisse che chiede ai marinai di legarlo all’albero della nave, perché sa che – se fosse libero – cederebbe al canto delle sirene e morirebbe.

Chi ha ragione?

Forse tutti e nessuno. Il suicidio è l’uscita di sicurezza da una condizione insopportabile e non di rado umiliante. Uno Stato civile non può ergersi ad arbitro di chi può e chi non può passare per quella porta. Ma nemmeno può continuare a fare così poco perché non siano troppi a volervi transitare per quella porta.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 agosto 2025]

IL RITORNO DELLA GUERRA

4 Agosto 2025 - di Secondo Giacobbi

In primo pianoPoliticaSocietà

Dunque la guerra è tornata, sorprendendo molti, che si illudevano che il fenomeno guerra potesse ormai considerarsi in via, se non di estinzione, di crescente contenimento.  Quasi impensabile poi che la guerra esplodesse in Europa ove, da tre quarti di secolo, si viveva nella pace e nell’abbondanza.  Così nel 2011 uscì un libro di Steven Pinker sul “declino della violenza” nella nostra epoca che, pur controverso, corrispondeva a persuasioni comuni.  La riesplosione della guerra in Europa (Ucraina) in forme brutalmente convenzionali e in Palestina, in forme vicine a pratiche di genocidio, ci interroga profondamente e ripropone un dilemma che sembrava superato: la guerra e la violenza provengono da cause circostanziali e da una pluralità di fattori scatenanti che non implicano necessariamente la presenza dentro l’uomo di una sua spinta intrinseca alla violenza oppure il richiamo della violenza è pur presente in noi, almeno potenzialmente, come parte ineludibile di noi stessi? Propendo, ahimè, per questa seconda ipotesi. Peraltro già proprio Kant, nel suo “Per la pace perpetua” scrisse: “lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale (stato “naturalis”), è piuttosto uno stato di guerra”. E a Foucault è attribuita la definizione per cui “ la politica è la guerra continuata con altri mezzi “, che rovescia e inverte la nota definizione di von Clausewitz secondo cui “ la guerra è la politica continuata con altri mezzi “. E’ una dichiarazione che ha fatto osservare allo psicoanalista James Hillman “allora la guerra è una conseguenza della nostra natura politica?”. Si pone qui una questione di estremo, e drammatico, interesse: per lo più anche in quei pensatori che ritenevano che la spinta alla violenza faccia parte di una “natura umana”, a tale spinta veniva contrapposta una, ancor più forte, spinta alla socialità ed allo spirito di collaborazione. Ricondotta ad una simile antinomia dualistica la socialità, sia nella sua forma inter-individuale sia nelle sue forme più complesse e istituzionali, appariva la risorsa cui affidare principalmente il contenimento della violenza, che nell’uomo, ricordiamocene, va ben al di là della “aggressività” presente in tutti gli animali e che in essi è al servizio dell’autodifesa, del controllo del territtorio, della ricerca del cibo e dell’accoppiamento.  Nell’uomo, poi, la violenza trova anche una sua forma legittimata e istituzionalizzata, la guerra appunto. Una simile forma di violenza organizzata non solo non è in antitesi alla socialità, ma trova in essa anche alimento e potenza distruttiva. Le guerre che gli uomini sono in grado di portare avanti con tanta frequenza presuppongono, infatti, e utilizzano, forme diverse ed estremamente complesse di coesione, condivisione identitaria e organizzazione gerarchica e sociale. Già ai primordi della storia della nostra specie fu certamente soprattutto la capacità di cacciare in gruppo a consentire ad un animale quasi privo di armi corporee (né zanne, né artigli e ridotta potenza muscolare) di diventare da facile preda lui stesso  un predatore che, grazie anche all’invenzione di armi sempre più efficaci, si trasformò nel più temibile antagonista degli altri animali, “Homo necans” secondo la definizione che Walter Burkert, sulla scia di Konrad Lorenz, ha proposto per la specie “sapiens”. L’antropologo Francesco Remotti ha sottolineato come lo straordinario successo predatorio dell’uomo e la sua attitudine a organizzare eserciti per la guerra trovava origine dalla sua capacità di produrre “coordinamento sociale delle azioni offensive di gruppo”. Ed il filosofo Sadun Bordoni, interrogandosi sui venti di guerra che tornano a minacciare l’Europa e il mondo, sottolinea che recenti sviluppi nelle scienze biologiche e antropologiche consentono di rileggere la storia evolutiva della nostra specie, riconoscendo nella guerra un fenomeno che ha profonde radici nella nostra storia naturale. Del resto già Freud, scrivendo proprio sul tema della guerra, sosteneva la presenza di spinte potentemente aggressive e autodistruttive nello psichismo umano e concludeva che “quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro”.

BIBLIOGRAFIA

Sadun Bordoni G. “Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale”, Il Mulino.

Burkert W., “Homo necans. Antropologia del sacrificio”, ed. Jouvence.

Clausewitz von C., “Pensieri sulla guerra “, ed. Theoria.

Foucault M., “Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti”, Mimesis.

Freud S.,  “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte “, Bollati Boringhieri.

Hillman J., “Un terribile amore per la guerra”, Adelphi.

Lorenz K.,  “L’aggressività. Il cosiddetto male”, Il Saggiatore.

Kant I., “Per la pace perpetua”, Editori Riuniti.

Pinker S., “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”, Mondadori.

Remotti F., “Guerra: perché sì, perché no”, in L’Educazione sentimentale, aprile 2023, rivista di Psicosocioanalisi, Franco Angeli.

image_print
1 2 3 4 107
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy