Hume PageHume Page

Le democrazie limitate

19 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Che cos’è una democrazia? Che cos’è una dittatura? Fino a qualche decennio fa questo genere di interrogativi non sollevava grandi difficoltà concettuali. È vero, accanto alle democrazie e alle dittature vere e proprie si affiancavano regimi intermedi o ibridi, non direttamente incasellabili nei due idealtipi di regime politico. Gli enti che si occupano di monitorare lo stato della democrazia hanno spesso previsto casi intermedi, misti o ibridi. Gli studiosi di politica sono spesso ricorsi a neologismi e termini composti per individuare i regimi che, in quanto miscele dei due tipi puri, non possono essere considerati né pienamente democratici né pienamente dittatoriali. Per i regimi come la Russia dopo la caduta del muro di Berlino, ad esempio, è stato talora usato il termine democratura, che evidenzia la coesistenza fra dittatorialità (pieni poteri dell’esecutivo) ed elezioni periodiche del parlamento e del capo di governo. Qualcuno, in passato, si è anche spinto a coniare il termine speculare, dictablanda, per evidenziare che un governo autocratico, senza alternanza al potere, può nondimeno ammettere alcune libertà civili di base (l’archetipo di questo regime è il Messico dopo la crisi del ’29, dove il Partito Rivoluzionario Istituzionale governò per ben 71 anni, senza sopprimere tutte le libertà civili).

Ma il caso che, come europei, ci riguarda più da vicino è quello delle democrazie illiberali, contrapposte alle democrazie vere e proprie, o liberal-democrazie. Con l’espressione democrazie illiberali, usata quasi sempre con connotazione negativa, si intendono quei regimi in cui la sovranità popolare, attuata mediante periodiche e libere elezioni, dà luogo a governi dotati di un potere eccessivo e/o mal esercitato. Dove il deficit di liberalismo può manifestarsi in modi alquanto diversi: subordinazione della magistratura al potere politico, assenza o debolezza dei contropoteri, leggi restrittive in materia di libertà di stampa, associazione, manifestazione del pensiero, mancato riconoscimento dei diritti delle minoranze, eccetera. Sotto questa critica sono caduti, in Europa, soprattutto tre paesi: l’Ungheria di Viktor Orbán, la Polonia di Mateusz Morawiecki, l’Austria di Jörg Haider. In tutti e tre i casi, secondo le autorità europee, il potere politico – a dispetto della sua investitura democratica – sarebbe andato al di là delle sue legittime prerogative, sottraendosi ai limiti imposti dallo stato di diritto.

Questa, per grandissime linee, era la situazione fino a qualche mese fa. Ora non più. Oggi, se vogliamo dare una descrizione minimamente accurata dei regimi politici e istituzionali possibili, dobbiamo tenere conto di una nuova possibilità. In ben tre paesi europei – Germania, Francia, Romania – si sta profilando una eventualità che, in certo senso, capovolge il caso delle democrazie illiberali: quella di una democrazia in cui il rispetto (vero o presunto) dello stato di diritto comporta una drammatica limitazione della democrazia.

Questa possibilità si è presentata in Francia, con una sentenza della magistratura che ha sancito l’ineleggibilità di Marine Le Pen, ossia della leader del principale partito francese, candidata favorita alla presidenza della Repubblica. Si è presentata in Germania, con un’indagine dei servizi segreti sul maggiore partito tedesco (la AfD, Alternative für Deutschland), che ne ha messo in dubbio il diritto a ricevere fondi pubblici e, forse, persino a concorrere nella competizione elettorale. E si è presentata pure in Romania, dove un’elezione presidenziale è stata annullata perché la Corte costituzionale ha ritenuto che i consensi a un candidato fossero stati gonfiati dalla propaganda russa (le elezioni che si svolgono oggi in Romania sono la ripetizione di quell’elezione annullata). In tutti e tre i casi le forze politiche penalizzate sono di destra, più o meno estrema e più o meno nostalgica, e in tutti e tre i casi a interferire con il voto sono stati organismi preposti a tutela della legge (Magistratura, Corte costituzionale, Servizi di intelligence interni).

Qui non voglio discutere della opportunità di escludere dalla competizione elettorale determinati partiti o candidati in quanto giudicati antidemocratici. Questione complicatissima, che inevitabilmente scalda gli animi. Quel che vorrei far notare, però, è che – sul piano logico – questa eventualità è l’esatto opposto di quello delle democrazie illiberali. In quel caso si trattava di democrazie imperfette in quanto sacrificavano lo stato diritto. Qui, se certe forze politiche vengono messe al bando, è lo stato di diritto che prevarica la democrazia.

Come chiamare questo nuovo tipo di democrazie?

A me il termine appropriato pare “democrazie limitate”, perché – nel momento in cui si esclude la forza politica che ha i maggiori consensi, è precisamente l’essenza della democrazia, ovvero il principio della sovranità popolare, che viene intaccato alla radice.

Su quale sia il male maggiore, la democrazia illiberale o la democrazia limitata, ognuno la pensa a modo proprio. Quel che vorrei far notare è soltanto un punto: ove il principio di escludere le forze politiche giudicate come “antidemocratiche” dovesse affermarsi dove già si è affacciato (in Germania, Francia, Romania), in paesi “a democrazia limitata” si verrebbero a trovare quasi 200 milioni di cittadini, poco meno della metà di quelli dell’intera Unione Europea. Non proprio un bel biglietto da visita per un’istituzione che ama sentirsi faro di libertà e democrazia.

[Articolo uscito sul Messaggero il 18 maggio 2025]

I referendum della discordia

19 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Quasi certamente le prossime elezioni politiche si terranno intorno al mese di giugno del 2027, anche se – in teoria – la legislatura dovrebbe durare fino al mese di settembre del medesimo anno. Mancano dunque più di due anni al prossimo appuntamento elettorale. A dispetto di ciò, le forze politiche si stanno muovendo come se le elezioni fossero alle porte. Giorgia Meloni ha già chiarito che si ricandiderà. Elly Schlein e Maurizio Landini, a loro volta, hanno già aperto la campagna elettorale brandendo i 5 referendum, nella convinzione che la mobilitazione sui quesiti referendari possa rinvigorire l’opposizione.

Personalmente ne dubito fortemente, per vari motivi. Il primo è che tutti i sondaggi prevedono che il quorum non verrà raggiunto: con ogni probabilità circa 2 italiani su 3 non andranno a votare. Difficile, a quel punto, cantare vittoria solo perché nella minoranza che è andata al voto sono prevalsi i sì. È facile prevedere che la destra ritorcerà sulla sinistra il ragionamento con cui tante volte, in questi due anni e mezzo, ha cercato di delegittimare il voto a Giorgia Meloni (che ha raccolto sì il 26% dei consensi, ma sul 64% dei votanti: quindi solo 1 italiano su 6 la ha scelta). Ora sentiremo ripetere infinite volte che il 70 o 80% di consenso su un determinato quesito referendario rappresenta solo il 15% (o 20%, o 25 %) dell’elettorato complessivo.

Il secondo motivo di perplessità è che i 5 referendum non sono solo un’occasione di visibilità per l’opposizione: sono anche una formidabile opportunità, per il governo, di mostrare le divisioni del cosiddetto campo largo. L’unica forza di opposizione che voterà sì a tutti i referendum è AVS (Alleanza Verdi Sinistra). La segretaria del Pd Elly Schlein vorrebbe che lo stesso facessero i suoi, ma incontra il dissenso di molti membri della minoranza interna, che sono perplessi sui quesiti che, di fatto, rinnegano la stagione renziana e il Jobs Act: molti di loro voteranno sì solo ad alcuni dei referendum che riguardano il mercato del lavoro, ciascuno secondo le proprie sensibilità politiche personali. Riccardo Magi, leader di +Europa, pare intenzionato a votare sì solo a due referendum, quello sulla responsabilità delle imprese appaltanti e quello (promosso da lui stesso) che dimezza i tempi necessari per ottenere la cittadinanza italiana. Questo referendum, a sua volta, dovrà fare i conti con le perplessità dei Cinque Stelle, da sempre critici con l’immigrazione irregolare (Giuseppe Conte ha lasciato libertà di coscienza). Quanto a Renzi e Calenda, voteranno no a 4 referendum su 5 (tutti quelli sul mercato del lavoro).

E qui veniamo alla mia ultima perplessità, la più importante. Il fatto che non esista nemmeno un referendum su cui siano d’accordo tutte le forze del costituendo “campo largo” non si limita a mostrare che l’opposizione è ultra-divisa, ma suggerisce una considerazione più ampia: i temi scelti per i referendum sono palesemente controversi, visto che rispetto a ciascuno di essi vi è almeno una forza politica di sinistra che li considera sbagliati.

Ciò apre un interrogativo molto serio sul futuro dell’opposizione. Anch’io, come Romano Prodi e tanti altri, penso che una coalizione progressista abbia qualche possibilità di sfidare vittoriosamente Giorgia Meloni solo se dismette la battaglia per la leadership, che oggi impegna Schlein, Conte e (di nascosto) Landini, e punta tutte le sue carte sulla elaborazione di un programma comune (come fece il centro-sinistra prodiano nel 2006). Ma non posso non chiedermi: se nemmeno sui referendum sono stati capaci di mettere a punto una linea comune, come potranno riuscirci quando si tratterà di formulare un programma di governo che convinca la maggioranza degli italiani?

Una risposta possibile è che non ci riusciranno e andranno al voto più o meno divisi, come l’ultima volta. L’altra risposta possibile è che sottoscriveranno un programma comune monstre, ottenuto sommando gli opposti estremismi delle cultura progressista. Ovvero: sulla politica economico-sociale la linea Landini-Schlein (salario minimo legale e patrimoniale permanente), sui diritti la linea di Magi-Bonino (ius soli, Ddl Zan, Green Deal). Il che, in sostanza, significa sposare la linea politica di AVS, ossia della più estrema delle forze di sinistra, come certifica il fatto che sia l’unica a votare convintamente sì a tutti e 5 i referendum.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 maggio 2025]

Estrema destra?

7 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

L’ufficio tedesco per la protezione della Costituzione, alla fine di un’indagine durata ben quattro anni, ha stabilito che Alternative für Deutschland (AfD), primo partito tedesco (alla pari con la CDU/CSU secondo gli ultimi sondaggi), è un’organizzazione “di estrema destra acclarata” e non è “compatibile con l’ordinamento liberale e democratico” della Germania. La decisione, potenzialmente, apre la strada a decisioni drastiche, come la sospensione dei finanziamenti pubblici e lo scioglimento. Intanto autorizza i servizi segreti a infiltrare l’AfD per indagarne il funzionamento interno e scoprirne eventuali piani eversivi.

Non è la prima volta che, in Germania, si tenta di eliminare dalla competizione un partito considerato di estrema destra. Per l’esattezza, è la quarta volta. Nel 2001 e nel 2013 il tentativo fallì perché la Corte Costituzionale, pur ravvisando le ascendenze neonaziste del partito NPD, non ravvisò il concreto pericolo di un sovvertimento dell’ordine costituzionale da parte del partito incriminato. Nel 2024, grazie a una modifica costituzionale introdotta proprio per rendere sanzionabili i partiti giudicati anti-democratici, al partito di estrema destra Die Heimat (La Patria), erede dello NPD, è stato tolto il finanziamento pubblico per 6 anni. Il tentativo, a questo punto, è di ripetere l’operazione con la AfD, che con il suo 20-25% di consensi è giudicato molto più temibile di un partitino come NPD o come Die Heimat.

Ma la Germania non è l’unico paese europeo in cui si cerca di eliminare una formazione politica dalla competizione elettorale. La stessa cosa è successa pochi mesi fa con la dichiarazione di ineleggibilità di Marine Le Pen, a capo del maggiore partito francese (il Rassemblement National) e candidata favorita per la presidenza della Repubblica. E sulla medesima lunghezza d’onda si sono mosse la Corte Costituzionale della Romania, che per neutralizzare Georgescu, considerato troppo di destra e troppo antieuropeo, è arrivata ad annullare il risultato elettorale (giudicato falsato da interferenze straniere).

Apparentemente, tutti questi atti sono volti a preservare la democrazia, minacciata dalla destra anti-europea. Ma basta rivolgere lo sguardo appena più in là, in uno stato a cavallo fra Asia e Europa come la Turchia, per scoprire che il medesimo metodo viene usato non per proteggere la democrazia ma, tutto al contrario, per impedirne l’affermazione: è il caso dell’arresto preventivo di Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale avversario di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali.

Di tutti questi casi, però, forse il più interessante è proprio quello tedesco. Qui, infatti, accade una cosa abbastanza sorprendente. Da un lato, quasi la metà dei tedeschi è a favore dello scioglimento dell’AfD, primo partito del paese, in quanto lo giudica di estrema destra. Dall’altro, i sondaggi rivelano che la stragrande maggioranza degli elettori di tale partito, giudicato (dagli altri) “di estrema destra”, non si considera affatto tale, ma si sente di centro o di destra.

Di qui un paradosso: in un mondo in cui la gente esige di essere giudicata, classificata e percepita sulla base del proprio sentiment, il diritto di autodefinirsi viene negato agli elettori del partito che riscuote i maggiori consensi.

Ma forse non è semplicemente un paradosso. Dietro l’uso dell’etichetta estrema destra, o far-right, si nasconde l’incapacità – non solo dei media, ma degli stessi scienziati politici – di concettualizzare e nominare un cluster di credenze che sono intrinsecamente non riducibili a un posizionamento sull’asse destra-sinistra: ostilità all’immigrazione irregolare, scetticismo sulla transizione green, rifiuto del follemente corretto, sfiducia nell’Europa, pacifismo anti-interventista. Tutte idee che, considerate nel loro complesso, non sono né di destra né di sinistra, tanto è vero che – in Germania – accomunano partiti etichettati di estrema destra (AfD) e partiti etichettati di estrema sinistra (BSW).

È con questo cluster di idee, non con la “marea nera” neo-nazista montante in Europa, che bisognerà prima o poi fare i conti.

[articolo uscito sulla Ragione il 6 maggio 2025]

Aspettando il Conclave – La tragedia degli “stupri sacri”

5 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

È quasi inevitabile che, parlando del Pontificato appena concluso e di quello che verrà, l’attenzione si concentri sul messaggio di fondo del capo della Chiesa cattolica. Nel caso di Bergoglio il messaggio di fondo, per riconoscimento di un po’ tutti, è stata la difesa degli ultimi, degli oppressi, dei deboli, delle vittime, specie in teatri drammatici come quelli delle migrazioni, delle guerre, delle carceri. È comprensibile che, in attesa del Conclave, ci si chieda di quale messaggio si farà interprete il nuovo papa.

E tuttavia un pontificato è come la letteratura. C’è la poesia, e c’è la prosa. Il messaggio di fondo è la poesia, ma esiste anche la prosa. La prosa è il modo in cui un Papa amministra ed eventualmente riorganizza la complessa macchina del Vaticano, e più in generale della Chiesa (la ‘governance’, direbbe un economista). Al riguardo un papa può cambiare poco, o cambiare molto. E può farlo in varie direzioni, ad esempio puntando più sulla catechesi o più sulla carità, riorganizzando oppure no le disinvolte finanze vaticane, ampliando o restringendo i privilegi di vescovi e cardinali, concedendo o non concedendo maggiori responsabilità alle suore e alle donne che fanno funzionare la macchina della Chiesa, aprendo oppure no alle donne il sacerdozio e il diaconato. Su questi terreni prosaici l’azione di Bergoglio è stata tutt’altro che rivoluzionaria, e sarà molto arduo, anche una volta eletto, indovinare in che direzione vorrà muoversi il nuovo papa.

Poco male, penserà qualcuno. Dopo tutto sono questioni che non appassionano la massa dei credenti, più sensibili ai grandi messaggi papali che alla bassa cucina del governo della Chiesa. Ce n’è una, però, che – per quanto ben poco poetica – non può non interessarci tutti, credenti e non credenti: la tragedia degli abusi sessuali dei sacerdoti (e di altro personale ecclesiastico, compresi vescovi e cardinali) nei confronti di suore e di minorenni. Una vergogna venuta alla luce poco per volta, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, su cui però nessun pontefice ha finora avuto la volontà o la capacità di incidere profondamente.

Si potrebbe ipotizzare che lo scarso interesse della Chiesa riguardo agli abusi sessuali dei suoi rappresentanti sia anche dovuto alla marginalità del fenomeno. Ma è un’ipotesi incompatibile con i dati. Per quanto frammentari e soggetti a molteplici fonti di incertezza, i dati suggeriscono che né il fenomeno dei “preti pedofili” né, soprattutto, quello delle suore vittime di violenza sessuale da parte di preti, vescovi e cardinali abbiano dimensioni modeste, o siano circoscritti in specifici paesi o contesti. Se come termine di riferimento prendiamo le violenze sessuali e gli stupri di cui sono vittima le donne italiane nel corso della vita (circa il 20% subisce violenza sessuale, il 3% stupro), si può plausibilmente sostenere che questi numeri (già drammatici) non siano di entità inferiore nell’ambiente teoricamente protetto in cui operano le suore (anzi, secondo la teologa Doris Reisinger sarebbero ancora superiori). Chi vuole farsi un’idea vivida dei meccanismi, davvero diabolici, di questa tragedia moderna, in cui il potere spirituale dei superiori (uomini) viene usato per sottomettere le creature più indifese (donne), li può trovare accuratamente e appassionatamente descritti nel libro Stupri sacri (Rizzoli, 2025) di Laura Sgrò, avvocato presso la Corte d’Appello dello Stato della Città del Vaticano e legale della famiglia Orlandi.

Se il fenomeno è così grave e pervasivo, perché così poco è stato fatto negli ultimi pontificati, a dispetto del proliferare degli scandali e nonostante alcune coraggiose quanto rare campagne di stampa?

Difficile dare una riposta perentoria. Una ragione ovvia è che la Chiesa cattolica è, per sua costituzione, la istituzione più maschio-centrica del mondo, o perlomeno del mondo occidentale. Innumerevoli fatti, gesti e decisioni testimoniano la scarsissima volontà dell’élite che la governa di concedere più spazio e responsabilità alle donne (religiose e non), nonostante gli oneri del funzionamento dell’istituzione gravino assai più sulle donne che sugli uomini di Chiesa (un tema, questo, più volte meritoriamente sollevato da Lucetta Scaraffia). Un’altra ancor più ovvia ragione è che, mentre la battaglia contro i femminicidi conferisce prestigio, quella contro le violenze sessuali verso ragazzini e suore non può che gettare discredito sulla Chiesa (oltre a provocarle danni economici, ad esempio nella raccolta di fondi attraverso l’8 per 1000).

Una ragione meno ovvia è che chiunque oggi voglia mettere mano al problema degli abusi sessuali si scontra con il fatto che, per decenni e decenni, la prassi è stata di “distribuire il danno” anziché estirpare il male, un po’ come avviene nelle scuole quando gli insegnanti incapaci, essendo illicenziabili, vengono fatti ruotare fra le classi. Sono innumerevoli le testimonianze di casi in cui, di fronte alle denunce ricevute, i vescovi e i superiori – anziché rimuovere gli autori degli abusi – hanno preferito spostarli in altri contesti, senza avvertire i nuovi superiori della loro pericolosità (una prassi agevolata dalla scelta del Vaticano di delegare alle istituzioni locali la gestione di questi casi).

Fortunatamente oggi non mancano le organizzazioni, associazioni, enti, anche interni o collegati alla Chiesa cattolica, che di questi problemi si occupano. C’è da sperare che la loro voce non resti inascoltata.

[articolo uscio sul Messaggero il 4 maggio 2025]

Un papa bifronte

2 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

C’è qualcosa che non torna nella ricostruzione del dodicennio di papa Francesco. Una lettura filologicamente attenta non può che restituirci l’immagine di un papa bifronte.

Durante il suo papato, in innumerevoli circostanze non ha esitato a condannare il capitalismo (visto come sopraffazione dei ricchi sui più poveri) e a difendere il diritto dei migranti ad essere accolti nei paesi di arrivo. Meno frequenti, ma altrettanto nette, sono state le prese di posizione contro l’aborto, contro il controllo delle nascite, contro le rivendicazioni LGBT+ nella chiesa e fuori della chiesa. In materia di diritti civili papa Bergoglio è stato un Pontefice decisamente conservatore, se non reazionario.

Anche sul piano della gestione della Chiesa, il bilancio è tutt’altro che univoco. Come ha scritto giustamente Luca Zorloni su Wired, papa Bergoglio “non ha riformato la Chiesa dalle fondamenta come prometteva e non ha saputo combattere le battaglie contro gli abusi e gli sprechi, se non a parole”. Progressista nelle intenzioni, Francesco si è rivelato lento, se non immobilista, in materia di funzionamento della macchina ecclesiastica. Il sogno di una “Chiesa povera”, depurata dagli scandali finanziari e ripulita dai preti pedofili è rimasto lettera morta.

Naturalmente non vi è nulla di intrinsecamente contraddittorio nell’essere progressista sul piano economico-sociale e reazionario in materia di matrimoni gay e “diritti riproduttivi”. Si può benissimo essere l’uno e l’altro. In Italia abbiamo avuto un precedente illustre, quello di Pier Poalo Pasolini, che – proprio come Bergoglio – era comunista-pauperista da un lato e anti-abortista dall’altro.

La questione interessante è un’altra: come mai, nonostante questa intrinseca ambivalenza, papa Bergoglio viene quasi universalmente dipinto come pontefice progressista? E questo, notiamo bene, non da oggi, nel clima di commozione per la sua morte, ma fin dall’inizio del suo pontificato? Come mai, a dispetto delle sue posizioni tradizionaliste in tema di famiglia, matrimonio, sessualità, diritti delle minoranze sessuali, l’immagine di Francesco è sempre stata – e rimane più che mai – quella di un pontefice progressista, se non rivoluzionario?

La risposta a queste domande, a mio parere, è che il suo pontificato si è retto su un patto non dichiarato – ma solidissimo forse proprio perché non dichiarato – fra la sua persona e il sistema dei media. Papa Francesco ha capito fin da subito che la sua popolarità aveva tutto da guadagnare dal suo impegno a favore dei poveri e dei migranti, e tutto da perdere dai suoi severi richiami a un’etica sessuale meno spregiudicata e individualista. I media, a loro volta, hanno capito che la costruzione dell’immagine progressista, avanzata e innovatrice del nuovo papa richiedeva di amputarne i posizionamenti più retrogradi o – ancor meglio – di trasformarli in gesti di riconoscimento mediante operazioni più o meno sofisticate di decontestualizzazione e manipolazione. Penso, ad esempio, al sistematico fraintendimento della lettera (e cancellazione del contesto) della frase “chi sono io per giudicare?”, o dei gesti di tolleranza nei confronti delle coppie gay; al velo pietoso sulle invettive contro l’aborto e i medici che lo praticano (che Francesco considerava nientemeno che “sicari”); ai resoconti giornalistici benevoli sulla lotta contro i preti pedofili, ben meno incisiva di come è spesso stata tratteggiata.

Ma, sia ben chiaro, non si è trattato in alcun modo di un’opera di deformazione del “vero” messaggio di Francesco. In questi anni papa Bergoglio e i media dominanti sono stati perlopiù in perfetta sintonia. Il fraintendimento parziale dei propri messaggi è stato quasi sempre assecondato dal Pontefice, che evidentemente ne comprendeva il potenziale di legittimazione della propria figura di paladino degli ultimi: altrimenti avremmo assistito a continue smentite, precisazioni, e soprattutto a ben più frequenti (e chiari) interventi riguardo alla morale sessuale e familiare. La realtà è che papa Bergoglio considerava il suo messaggio verso gli ultimi (poveri, migranti, emarginati, “scarti” della società) infinitamente più importante di qualsiasi esortazione in materia di comportamenti sessuali, ambito nel quale raramente è andato oltre il “minimo sindacale” per un capo della Chiesa Cattolica.

La controprova? Tutti, in occasione dell’incontro con il vicepresidente statunitense J.D. Vance, hanno giustamente notato il contrasto fra fede cattolica e crudeltà delle politiche verso i migranti. Ma non si ha notizia di analoghe riflessioni in occasione dell’incontro fra papa Bergoglio e Emma Bonino, come se le posizioni (e le azioni) di quest’ultima in materia di aborto non esistessero e non fossero mai esistite. Un segno difficilmente fraintendibile di che cosa Francesco considerasse importante e che cosa invece no.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 aprile 2025]

image_print
1 2 3 4 5 112
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy