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Genocidio e pulizia etnica

15 Settembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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L’orrore suscitato dalle rovine di Gaza, che fanno pensare a Hiroshima e a Nagasaki, ha indotto politici, studiosi, cittadini comuni ad accusare il governo Netanyahu di genocidio. Capisco chi ritiene il premier israeliano un’criminale di guerra’ ma l’uso del termine ‘genocidio’ mi sembra del tutto inappropriato. La violenza cieca ed efferata nei confronti di chi occupa un territorio che l’aggressore considera destinatogli da Dio o dalla Storia o dal Progresso, è un fenomeno costante nella storia: si pensi solo alle stragi di indiani compiute in America o al massacro degli armeni per mano turca (e non furono i ministri retrogradi e reazionari  della Sublime Porta a farlo ma i Giovani Turchi del partito Unione e Progresso!) In questi e in altri casi, l’imperativo è <non vogliamo gente estranea a casa nostra!>. Nella Democrazia in America del 1835, Tocqueville, inorridito dal trattamento riservato, nei civilissimi States, a indiani e ‘negri’, scriveva: «Non si direbbe, nel vedere ciò che avviene nel mondo, che l’europeo è per gli uomini delle altre razze quello che l’uomo stesso è per gli animali? ». Per i pionieri, in realtà, le immense praterie del Nord America, piene di laghi, di fiumi, di pascoli erano la Terra Promessa che Iddio aveva assegnato alla razza bianca anglosassone, in considerazione delle sue eccelse virtù, e non a caso il Vecchio Testamento ricorreva così frequentemente nei loro nomi e nei loro riti religiosi. Forse si dimentica che le giustificazioni ideologiche del colonialismo sono la missione religiosa e il dovere di espandere i lumi e la scienza in tutti gli angoli del mondo. Contro il richiamo ai lumi e all’esportazione della civiltà un repubblicano, come Georges Clemenceau, ammoniva, nel Discorso alla Camera del 30 luglio 1885, «Guardate la storia della conquista di questi popoli che chiamate barbari e vedrete la violenza, tutti i crimini scatenati, l’oppressione, il sangue che scorre a torrenti, i deboli oppressi, tiranneggiati dal vincitore! Questa è la storia della vostra civiltà! […] Quanti crimini atroci, spaventosi sono stati commessi in nome della giustizia e della civiltà ».

 Lo ‘spirito di conquista e di usurpazione’ non è iscritto solo nel dna della destra (il monarchico Charles Maurras non era affatto favorevole alle conquiste coloniali) ma nasce da un progetto imperiale che lo stato nazionale nell’età dell’anarchia internazionale – gli ultimi decenni dell’Ottocento che vedono il dissolvimento dell’equilibrio europeo creato a Vienna dal Principe di Metternich – coltiva ma non produce. È il bisogno di spazio vitale, al di là delle motivazioni ideali, che porta ad allargare a dismisura i confini della comunità politica fino a snaturarla (giacché ne mette in crisi l’omogeneità culturale), al di là delle motivazioni ideali: si vuole ampliare la vecchia casa in modo da renderla più ricca economicamente e più sicura militarmente.

E tuttavia nell’agire dei governi manca la pretesa di agire, o di legiferare, per il genere umano. È qui la differenza cruciale tra la pulizia etnica e il genocidio. In quest’ultimo, definito nella ‘Enciclopedia Britannica’ come «deliberata e sistematica distruzione di un popolo per le sue caratteristiche etniche, nazionali, religiose o razziali», troviamo qualcosa di inedito: non il nazionalismo dilatato ma una sorta di universalismo nero che induce certi regimi politici a investirsi del compito di ripulire l’umanità da una razza infetta e inquinante. Per i pionieri del Far West, per gli israeliani, per i turchi, i pellirosse, i palestinesi e gli armeni non erano germi patogeni, destinati a infettare la razza umana ma minoranze detestate, in quanto suscettibili di ‘rovinare la festa’ ovvero l’idillio e l’omogeneità comunitaria. «Le comunità politiche evolute, come le antiche città-stato o i moderni stati-nazione—scriveva Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo— insistono così spesso sul­l’omogeneità etnica perché tendono a eliminare nella misura del possibile le differenze naturali, sempre presenti, che suscitano odio, diffidenza e discriminazione».

Con il nazismo si entrava in un altro ordine di idee: non si trattava più di eliminare una minoranza incomoda e indesiderata, ma di una gigantesca opera di bonifica planetaria che avrebbe segnato nella storia del genere umano una svolta epocale. Per i nazisti gli ebrei erano batteri pestilenziali da eliminare in tutte le regioni della Terra in cui avevano messo radici. Qui non si trattava più di razze inferiori o superiori: il pioniere non riteneva indiani e ‘negri’ appartenenti, come lui, al genere umano ma, se li incontrava al di là del Rio Grande, gli erano del tutto indifferenti. Se gli Israeliani invadessero il Libano non chiederebbero certo alla polizia e alle amministrazioni comunali l’elenco dei palestinesi per deportarli a Gaza e ivi seppellirli sotto i bombardamenti. Al contrario, quando i nazisti invasero la Polonia e si insediarono nelle due France, quella occupata e quella di Vichy, non riconobbero nessuna autorità allo stato nazionale: per loro, funzionari del Genere Umano (Ariano, s’intende), passaporti e cittadinanza erano irrilevanti e pertanto delle deportazioni nei Lager non dovevano render conto a nessun governo amico, alleato, nemico che fosse.

È questo che sconvolge in episodi tragici come il rastrellamento del ghetto di Roma: il fatto che le SS non si limitano ad allontanare gli ‘indesiderabili’, a costringerli a emigrare altrove ma che lo facciano in nome di un’Autorità Mondiale che impone lo sterminio delle razze impure.

La ‘pulizia etnica’ sicuramente si lega a pregiudizi e a gerarchie razziali ma, a motivare il ‘genocidio’ è il fatto che gli ebrei non  erano considerati esseri inferiori come gli slavi o come i cani bastardi rispetto ai cani di razza: erano pantegane che apportavano la peste e minacciavano di distruggere l’umanità. Di qui la missione di liberarne il mondo, ispirata a un’ideologia –universalistica appunto – che non riconosceva  frontiere e stati nazionali.

 È un fatto nuovo e terrificante, che spiega perché gli ebrei non si sentano minoranze perseguitate come le altre. L’antisemitismo, non lo si ribadirà mai abbastanza,  è un unicum nella storia, giacché non si limita a colpire una razza o una religione, con cui non si vogliono avere rapporti di alcun genere – v. l’odio per africani, asiatici, islamici: ‘se ne tornino a casa’, ‘non li vogliamo in mezzo a noi’, ‘non sono ospiti graditi’ – ma vuole tagliare per sempre un ramo della pianta uomo Questo spiega l’attaccamento degli ebrei israeliani alla Terra promessa  e la spietatezza nella guerra contro chi vorrebbe condannarli a una nuova diaspora.

 Occorre considerare che la diaspora nell’800 non faceva aderire tutti gli ebrei al progetto di un focolare nazionale in cui vivere finalmente al riparo dai pogrom. Nelle società più evolute dell’Occidente – e soprattutto in quelle anglosassoni – i figli di Israele avevano trovato possibilità concrete di elevarsi socialmente, di porsi alla guida di banche e di imprese industriali, di tenere cattedre universitarie, di dirigere giornali e case editrici. Molti si erano integrati a tal punto da aver quasi dimenticato le loro origini ebraiche – penso a sociologi come Raymond Aron, a storici come Marc Bloch – sicché il ritorno alla terra degli avi non era in cima ai loro pensieri. Fu la terribile esperienza dei Lager a riattualizzare drammaticamente il tema dell’Aliyá, del Ritorno.

Va detto che neppure i palestinesi pensano al genocidio del popolo ebraico: anch’essi, come i loro nemici mortali, vogliono la ‘pulizia etnica’ ovvero ributtare in mare gli intrusi israeliani. La situazione in Terra Santa è drammatica, per non dire tragica, ma tirare in ballo il genocidio non aiuta né a risolverla né a fare chiarezza.

Se gli intellettuali remano contro

11 Settembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Il nostro paese, in anni come questi di grande incertezza e di ‘perdita del centro’—non solo a livello internazionale—è sempre più caratterizzato da una forte delegittimazione degli avversari politici visti come pericoli per la democrazia. All’origine del mancato riconoscimento (e rispetto) reciproco dei protagonisti della politica italiana sta, a mio avviso, un debole senso dell’identità nazionale. Dove il patriottismo è forte e istintivo, le opposizioni cercano di conquistare il centro (ci si identifica, infatti,  con il ‘punto medio’ che riflette il modo di sentire della nazione). Dove il patriottismo è molto debole, la, battaglia di civiltà contro la barbarie. Il nesso nazione/ democrazia non è stato quasi mai al centro delle riflessioni degli studiosi della democrazia ma è di fondamentale importanza. In Italia, si può dire, non c’è scienziato politico al quale venga  in mente che tra i prerequisiti funzionali della democrazia liberale c’è una comunità che ne garantisce il buon funzionamento :a farlo rilevare si rischia essere etichettati a destra, una qualifica che si ritiene offensiva (chissà perché). Il richiamo alla comunità non si colloca sul piano destra/sinistra – che è il piano dei progetti politici, delle forme di governo, delle istituzioni – ma su quello del terreno storico su cui si erigono quelle istituzioni e quelle forme di governo. Gli intellettuali, che molto possono per creare un sentimento di comune identità e appartenenza, invece di assumersi il ruolo dei pompieri, che cercano di spegnere le fiamme delle passioni politiche, sembrano aver scelto la parte degli incendiari, fornitori di droghe ideologiche alle classi politiche. Da giovane restavo colpito dal realismo e dal buon senso di certi funzionari del PCI così lontani dal fanatismo e dalla cecità degli intellettuali ‘impegnati’, miei colleghi delle Facoltà umanistiche. Nulla è mutato da allora, a riconferma della estraneità della cultura politica italiana allo spirito del pluralismo. Pluralismo significa ritenere chi è in disaccordo con noi non un reprobo bensì un ‘compatriota’ che persegue il bene comune con strategie forse sbagliate ma che non per questo sono farina del diavolo.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche. Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Pubblicato su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 9 settembre 2025]

Zuppa di Porro

4 Agosto 2025 - di Dino Cofrancesco

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L’intervista che spiega cos’è il pensiero egemone di sinistra

Intollerabile: ormai ‘Il Mulino’ è diventata una rivista conservatrice

L’intervista di Piero Ignazi a Caterina Giusberti (‘La Repubblica’ del 1° agosto) è da incorniciare. Spiegherà ai posteri cos’è stato il pensiero egemone in Italia, a partire dagli anni sessanta, meglio di tante analisi sociologiche.

Già Professore ordinario di ‘Politica comparata’, Ignazi è il tipico ideologo di regime. Giuseppe Bottai lo avrebbe accolto trionfalmente nello staff di ‘Critica fascista’. Nato sotto la Repubblica, ha collaborato alla ‘Repubblica’ e poi al ‘Domani’: lo stile di pensiero, passando dalla camicia nera alla camicia rossa, non cambia. Nella noiosa controversia sul ‘Mulino’, volta ad accertare se ha mutato pelle, Ignazi non si chiede -il weberiano lavoro intellettuale come professione è roba dell’altro ieri – se la rivista, diretta da Paolo Pombeni, sia una buona rivista, aperta alle problematiche storiche, culturali sociologiche del mondo moderno, ma se sia ancora di sinistra ovvero se abbia ancora i requisiti per essere considerata una pubblicazione rispettabile. Nel Medio Evo, quando i dottori della Sorbona volevano dare il colpo di grazia ai loro avversari teologi insinuavano un terribile sospetto: ”Ma allora non credi in Dio?” Oggi il sospetto infamante è: “Vuoi vedere che non sei di sinistra?.

Nella sinistra italiana—sempre antagonista de facto, al di là delle retoriche liberali adottate dopo il secondo ’89—la mannaia ormai cade regolarmente sulla testa di chi è conservatore. Faccio fatica, scrive Ignazi, a individuare ‘Il Mulino’ “come sinistra. Le posizioni di sinistra sono aperte ai nuovi diritti civili, portano alla riduzione delle disuguaglianze e alla giustizia sociale”. E sappiano tutti che stare a destra significa opporsi ai diritti civili, promuovere le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, plaudire al genocidio palestinese etc. Se pensiamo che la stragrande maggioranza degli scienziati politici italiani (più politici che scienziati, per la verità) la pensa come Ignazi c’è da tremare per il futuro delle nostre Facoltà umanistiche.

Per quanto riguarda ‘Il Mulino’, va ricordato che nacque sulla base di un programma culturale e politico degasperiano – l’incontro tra cattolici non tradizionalisti e laici anticomunisti. Se Ignazi dovesse ricostruirne la storia, farebbe come gli stalinisti evocati da Milan Kundera nel bellissimo Libro del riso e dell’oblio: cancellerebbe nella foto dei primi redattori della rivista nomi scomodi, come Augusto Del Noce e, forse, persino Nicola Matteucci.

Quando l’egualitarismo diventa nichilismo

22 Luglio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Intervistato sul raid israeliano  che ha colpito la Chiesa della Sacra Famiglia di Gaza (3 morti, 11 feriti) Antonio Padellaro, un giornalista che ho sempre stimato, al di là delle diverse opinioni politiche, ha  chiesto perché i tre morti in chiesa abbiano suscitato uno scalpore mediatico che non ci sarebbe stato se le vittime palestinesi si fossero trovate in casa. Le considerazioni di Padellaro, a ben riflettere, sono il tristissimo segno di un’epoca in cui “uno vale uno” e qualsiasi vita equivale a quella di un altro. Agli occhi di Dio è così ma noi poveri mortali sappiamo bene che le civiltà si costruiscono sui simboli e sulle differenze. Se Albert Einstein fosse perito in un attentato terroristico, Dio non avrebbe fatto differenza tra la sua anima e quella di un sicario di Al Capone ma la storia umana avrebbe avuto un altro corso. L’orrore suscitato (in Occidente, beninteso) dall’episodio di Gaza non riguarda il conteggio delle vittime ma il fatto che si sia colpito un simbolo della civiltà cristiana. Il nichilismo dell’epoca della secolarizzazione –come la chiamò Augusto Del Noce—sta nel togliere valore a ogni distinzione tra individui, comunità, culture  sicché non si riesce  più a spiegare, se non con l’ipocrisia, l’indignazione generale per la violazione di un luogo di culto..

Diversi anni fa, una carissima amica e collega demoproletaria e radical chic, se la prese con Paolo VI che aveva detto di ’aspettare Giuseppe Prezzolini’. Perché la conversione di Prezzolini era considerata dal pontefice più importante di quella di un bracciante pugliese? Ancora una volta, per Dio non c‘era differenza ma per noi italiani—atei o credenti—il ritorno alla fede di un ‘prince de l’esprit’, come Prezzolini, sarebbe stato motivo di profonda riflessione, in un senso o nell’altro. La democrazia ha eliminato le aristocrazie del sangue ma non quelle dell’arte, della scienza, della giurisprudenza, dell’economia, della politica. Nella mente dei fanatici dell’apocalisse egualitaria c’è, forse inconsapevolmente, la Cina di Mao, dove tutti erano vestiti allo stesso modo, ma volerci tutti uguali è eliminare la nostra individualità fatta di qualità che ci differenziano dagli altri e che fondano superiorità e inferiorità, in democrazia sempre mobili.

[articolo uscito su Il Giornale del Piemonte e della Liguria martedì 22 luglio 2025]

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinoicofrancesco.it

A scuola è riconosciuta solo la libertà de noantri

9 Luglio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nel terzo volume del testo di storia Trame del tempo, dal Novecento a oggi (Ed, Laterza) ,scritto  da V. Colombi , C. Ciccopiedi e C. Greppi e adottato da vari licei, si leggono passaggi che definire faziosi è un eufemismo: le elezioni del  settembre 2022 (vinte dal centro-destra) sono state ‘impietose’; FdI è il «catalizzatore dei voti dell’estrema destra»; il governo Meloni  prende  «misure liberticide» sull’ordine pubblico e vara piani di deportazione; la premier guida  un partito politico «arrivato al potere per la prima volta un secolo dopo la marcia su Roma e 77 anni dopo la Liberazione dal fascismo», un partito che ha raccolto l’eredità del regime e «continua ad avere una stretta relazione con la sua “base” dichiaratamente fascista».. Non meraviglia che Augusta Montaruli, FdI, abbia pre-sentato un’interpellanza alla Camera, ritenendo  il manuale «un condensato di false notizie, offensivo e lesivo per chiunque voglia studiare la storia contemporanea». Non si può «manipolare la verità e la storia al servizio di un’ideologia», ha detto. Un atto dovuto, quindi, quello del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara che ha chiesto all’Associazione Italiana Editori una rapida verifica sulla questione all’Associazione Italiana Editori. Confesso, però, qualche perplessità: le opinioni dei tre storici, lontanissime dalle mie, sono ampiamente condivise nel mondo della scuola, da anni feudo inespugnabile della sinistra, e, pertanto, l’editore ritenendo che il libro ‘avesse mercato, lo ha pubblicato secondo una ineccepibile logica imprenditoriale.

 Il problema è un altro: possono invocare la libertà di espressione quanti la negano ad altri? Quando ci rassegneremo a prendere sul serio il pluralismo  e a vedervi l’anima della società aperta? Se un docente avesse deciso di adottare gli scritti di Gioacchino Volpe—un nazionalfascista a ragione ritenuto il più grande storico italiano della prima metà del Novecento—o i saggi del pur antifascista Giampaolo Pansa sulla Resistenza e un ministro avesse preso provvedimenti contro l’incauto docente, ci sarebbe stata la stessa levata di scudi contro il governo liberticida? Il fatto è che nel nostro paese libertà è solo quella de noantri.

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