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Quando l’egualitarismo diventa nichilismo

22 Luglio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Intervistato sul raid israeliano  che ha colpito la Chiesa della Sacra Famiglia di Gaza (3 morti, 11 feriti) Antonio Padellaro, un giornalista che ho sempre stimato, al di là delle diverse opinioni politiche, ha  chiesto perché i tre morti in chiesa abbiano suscitato uno scalpore mediatico che non ci sarebbe stato se le vittime palestinesi si fossero trovate in casa. Le considerazioni di Padellaro, a ben riflettere, sono il tristissimo segno di un’epoca in cui “uno vale uno” e qualsiasi vita equivale a quella di un altro. Agli occhi di Dio è così ma noi poveri mortali sappiamo bene che le civiltà si costruiscono sui simboli e sulle differenze. Se Albert Einstein fosse perito in un attentato terroristico, Dio non avrebbe fatto differenza tra la sua anima e quella di un sicario di Al Capone ma la storia umana avrebbe avuto un altro corso. L’orrore suscitato (in Occidente, beninteso) dall’episodio di Gaza non riguarda il conteggio delle vittime ma il fatto che si sia colpito un simbolo della civiltà cristiana. Il nichilismo dell’epoca della secolarizzazione –come la chiamò Augusto Del Noce—sta nel togliere valore a ogni distinzione tra individui, comunità, culture  sicché non si riesce  più a spiegare, se non con l’ipocrisia, l’indignazione generale per la violazione di un luogo di culto..

Diversi anni fa, una carissima amica e collega demoproletaria e radical chic, se la prese con Paolo VI che aveva detto di ’aspettare Giuseppe Prezzolini’. Perché la conversione di Prezzolini era considerata dal pontefice più importante di quella di un bracciante pugliese? Ancora una volta, per Dio non c‘era differenza ma per noi italiani—atei o credenti—il ritorno alla fede di un ‘prince de l’esprit’, come Prezzolini, sarebbe stato motivo di profonda riflessione, in un senso o nell’altro. La democrazia ha eliminato le aristocrazie del sangue ma non quelle dell’arte, della scienza, della giurisprudenza, dell’economia, della politica. Nella mente dei fanatici dell’apocalisse egualitaria c’è, forse inconsapevolmente, la Cina di Mao, dove tutti erano vestiti allo stesso modo, ma volerci tutti uguali è eliminare la nostra individualità fatta di qualità che ci differenziano dagli altri e che fondano superiorità e inferiorità, in democrazia sempre mobili.

[articolo uscito su Il Giornale del Piemonte e della Liguria martedì 22 luglio 2025]

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinoicofrancesco.it

A scuola è riconosciuta solo la libertà de noantri

9 Luglio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nel terzo volume del testo di storia Trame del tempo, dal Novecento a oggi (Ed, Laterza) ,scritto  da V. Colombi , C. Ciccopiedi e C. Greppi e adottato da vari licei, si leggono passaggi che definire faziosi è un eufemismo: le elezioni del  settembre 2022 (vinte dal centro-destra) sono state ‘impietose’; FdI è il «catalizzatore dei voti dell’estrema destra»; il governo Meloni  prende  «misure liberticide» sull’ordine pubblico e vara piani di deportazione; la premier guida  un partito politico «arrivato al potere per la prima volta un secolo dopo la marcia su Roma e 77 anni dopo la Liberazione dal fascismo», un partito che ha raccolto l’eredità del regime e «continua ad avere una stretta relazione con la sua “base” dichiaratamente fascista».. Non meraviglia che Augusta Montaruli, FdI, abbia pre-sentato un’interpellanza alla Camera, ritenendo  il manuale «un condensato di false notizie, offensivo e lesivo per chiunque voglia studiare la storia contemporanea». Non si può «manipolare la verità e la storia al servizio di un’ideologia», ha detto. Un atto dovuto, quindi, quello del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara che ha chiesto all’Associazione Italiana Editori una rapida verifica sulla questione all’Associazione Italiana Editori. Confesso, però, qualche perplessità: le opinioni dei tre storici, lontanissime dalle mie, sono ampiamente condivise nel mondo della scuola, da anni feudo inespugnabile della sinistra, e, pertanto, l’editore ritenendo che il libro ‘avesse mercato, lo ha pubblicato secondo una ineccepibile logica imprenditoriale.

 Il problema è un altro: possono invocare la libertà di espressione quanti la negano ad altri? Quando ci rassegneremo a prendere sul serio il pluralismo  e a vedervi l’anima della società aperta? Se un docente avesse deciso di adottare gli scritti di Gioacchino Volpe—un nazionalfascista a ragione ritenuto il più grande storico italiano della prima metà del Novecento—o i saggi del pur antifascista Giampaolo Pansa sulla Resistenza e un ministro avesse preso provvedimenti contro l’incauto docente, ci sarebbe stata la stessa levata di scudi contro il governo liberticida? Il fatto è che nel nostro paese libertà è solo quella de noantri.

E’ nato l’antifascismo autoflagellante

2 Luglio 2025 - di Dino Cofrancesco

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‘La Repubblica’ di venerdì scorso pubblica una lunga riflessione di Francesco Piccolo (Premio Strega 2014), ‘M’ di Scurati e quello che resta dell’antifascismo’ ,che, da un richiamo in prima, si estende per ben due lenzuolate all’interno del giornale (pp-32-33).Se invece dei cinque volumi sul duce di Antonio Scurati, Piccolo avesse deciso di parlare del Cavour di Rosario Romeo le lenzuolate sarebbero dovute essere quattro, per rispettare le proporzioni tra le due opere?  Piccolo parla dell’opera di Scurati quasi come di un evento epocale: grazie ad essa, infatti, ci saremmo resi conto della differenza tra l’antifascismo ingenuo o ‘semplificato’ dei giovani resistenti che non avevano alcuna responsabilità nella nascita e nell’avvento del fascismo e l’antifascismo complesso <di chi dice: guarda che tutto quello che è successo, certo che non lo volevamo, certo che è stato terribile, ma ci riguarda fino a esserne corresponsabili: questo è un antifascismo adulto, maturo, complesso, è un antifascismo poco frequentato in Italia>. Degenerazione spaventosa, il fascismo non ha nulla di estraneo al paese: nasce dall’inconsistenza degli italiani, dalla loro facilità di essere sedotti, dalle loro paure. Per guarire da questo fascismo che ci portiamo dentro, occorre prendere coscienza che< c’entriamo anche noi con l’evento storico>, e che, come persone adulte, non abbiamo il diritto all’<antifascismo semplificato>. Non credo che siano importanti gli scritti di Antonio Scurati—sui quali si sono già pronunciati storici severi come Ernesto Galli della Loggia—penso, invece, che lo sia il panegirico di Francesco Piccolo. Grazie ad esso, infatti,  una nuova figura  si è aggiunta alle tante che già popolano la cultura politica italiana: quella dell’antifascismo autoflagellante, implacabile inquisitore che intende esorcizzare il demone che è in noi. Il fascismo resta il peccato originale e  le sue cause origini e svolgimento—raccontate e spiegate da storici come Renzo De Felice, da filosofi come Augusto Del Noce—vanno rimosse e passate in giudicato. Quasi quasi ,si rimpiange la retorica anpista, che dell’antifascismo vuol fare un valore comune  e non l’olio di ricino per depurarci dai veleni del ventennio.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università degli Studi di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[articolo uscito su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 1 luglio 2025]

De Felice e gli azionisti

9 Giugno 2025 - di Dino Cofrancesco

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Eugenio Di Rienzo, Professore Emerito di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma e Direttore della prestigiosa ‘Nuova Rivista Storica’, nel suo recente saggio, Renzo De Felice, Leo Valiani e gli amici azionisti, ha raccolto lettere e articoli di Renzo De Felice, di Alessandro Galante Garrone e di Leo Valiani, per suffragare una tesi che, con tutta franchezza, mi riesce difficile condividere. E’ la tesi secondo la quale «De Felice, certo naturaliter destinato a divenire un grande storico, grazie anche al fondamentale apporto del padrinaggio intellettuale di Cantimori» non sarebbe divenuto il più grande storico del fascismo «senza il rapporto instaurato con gli ‘amici azionisti’. E questo non tanto per i subsidia e i consigli fornitigli negli anni del suo esordio nell’arena accademica, che De Felice contraccambiò abbondantemente con i tanti materiali messi a disposizione di Galante Garrone e specialmente di Valiani, come il lettore potrà appurare leggendo la raccolta di lettere pubblicata alla fine di questo saggio. Ma per il sostegno morale ricevuto nel difficile periodo del suo tirocinio, indispensabile a ogni apprenti historien, e poi per quel dialogo ininterrotto, dove gli elogi si alternavano alle critiche, anche le più taglienti, e soprattutto per quel rispetto intellettuale e umano che si mantenne sempre intatto. Anche durante gli ultimi decenni della sua “vita difficile”, quando le loro rispettive posizioni, che si erano molto allontanate, trovavano e in ogni caso cercavano di trovare un punto di dialogo e in qualche caso persino di convergenza».

Nel suo comprensibile rimpianto per un «’mondo di ieri, oggi, purtroppo, definitivamente scomparso», Di Rienzo scrive che « con tutti i loro contrasti, i rapporti umani e scientifici tra l’autore della biografia di Mussolini, Venturi e gli altri “amici azionisti”, Galante Garrone, Valiani |…| non possono non essere letti, a distanza di un sessantennio, come la testimonianza di una stagione felice e purtroppo irripetibile, dove nel mondo accademico regnava ancora il rispetto reciproco, lo spirito di collaborazione, la solidarietà tra studiosi di diversissime tendenze politiche. Una solidarietà che oltrepassava ogni steccato ideologico e che faceva tornare alla mente quella familiaritas che, secondo Ludovico Ariosto, costituiva il tratto distintivo di un rapporto tra pari nel quale si manifestava ‘la gran bontà de’ cavalieri antiqui ‘».Di Rienzo sembra vedere solo il piano dei rapporti personali di discepolato che un tempo si instauravano tra gli storici anziani e i giovani, caratterizzati da generosi consigli e incoraggiamenti, soprattutto quando si trattava di galantuomini come Galante Garrone e Valiani. E giustamente rimarca le differenze di stile tra i Maestri d’antan e i loro successori fanatici e superpoliticizzati. L’accoglienza che i primi riservarono ai volumi della biografia del duce è incomparabile con la rabbiosa reazione di quanti denunciavano il tradimento della Resistenza e ‘la pugnalata dello storico’, per riprendere il titolo di una famosa stroncatura di Nicola Tranfaglia. E tuttavia, ci si deve chiedere onestamente, intellettuali militanti come Ernesto Rossi–che definì De Felice «un piccolo mascalzone manovrato da un qualche personaggio potente che non sono riuscito a identificare»–o Nicola Tranfaglia, che nel libro Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna, Ed .Dalai 2010, intendeva mettere a fuoco il nucleo centrale dell’ideologia socialista liberale poi confluita nel Partito d’Azione, non appartenevano alla galassia azionista?. E non vi apparteneva Norberto Bobbio che alla ‘vulgata antifascista’ mise il timbro della sua autorevolezza?

In realtà, come ben documenta Di Rienzo nella seconda parte del testo, le recensioni ai volumi di De Felice su Mussolini scritte da Galante Garrone e da Valiani, erano, sì, civili e misurate ma rivelavano un dissenso radicale su punti fondamentali e qualificanti del ‘revisionismo’ defeliciano.

In uno scritto del 2005, Il ritorno dell’azionismo, Di Rienzo scriveva « nel nostro paese, oggi, i valori dell’azionismo sono diventati i veri valori di riferimento della sinistra. Date un’occhiata alle librerie politicamente corrette. Neanche a pagarlo oro troverete un volume di Lenin. Scomparse dagli scaffali le opere di Marx. Anche Togliatti scarseggia. Grande abbondanza invece dei volumi di Gobetti e Carlo Rosselli, i padri nobili di quel movimento. Buon successo arride alla biografia di Ferruccio Parri. Si susseguono le ristampe degli scritti di Massimo Mila, Franco Venturi, Alessandro Galante Garrone, Carlo Levi. Nelle loro pagine ritorna il vecchio mito azionista della ‘resistenza tradita’, dell’unica rivoluzione italiana che sarebbe riuscita a rigenerare la nazione, a svellere la mala pianta del clericalismo, del capitalismo avventuriero, della continuità tra fascismo e repubblica». Per fortuna, proseguiva Di Rienzo, «la nostra gente rifiutò quella astrusa miscela di snobismo liberale e di velleità populiste. Disse no ad un processo epurativo che avrebbe disgregato in un colpo solo gli apparati finanziari, economici, burocratici del paese».

Il fatto è che De Felice rappresentava una cultura autenticamente liberale laddove l’azionismo si poneva sul piano di una rivoluzione che voleva essere più ardita e progressiva di quella sovietica. Come scriveva Franco Venturi in Socialismo di oggi e di domani, ’Quaderni dell’Italia libera’n.17, dicembre 1943 (a firma Leo Aldi): «Impossibile capire la critica che i fatti hanno esercitato sul socialismo se non si pone al centro l’idea che tutta la nostra epoca è epoca di realizzazione del socialismo. Dopo esser stato aspirazione e utopia, movimento ed ideologia, il socialismo si è mescolato con la realtà, ha reagito su di essa e ne è stato, naturalmente, trasformato e sconvolto. L’unico modo oggi per curarsi radicalmente da ogni antistorica visione dì un futuro ‘regno’ socialista (con i relativi riflessi psicologici che vanno dal terrore del borghese all’entusiasmo alquanto vuoto del rivoluzionario) è proprio quello di dirsi che in epoca socialista ci stiamo vivendo, che l’aria che respiriamo, gli istinti a cui obbediamo sono in fondo dettati da un atteggiamento che, storicamente, non possiamo non chiamare socialista». Non si pensava a riportare in Italia una democrazia liberale di tipo classico—con l’alternanza di laburisti e conservatori al governo—ma a una vera e propria ‘nuova civiltà’.

Certo, in seguito, Leo Valiani ,vicino al PRI, divenne una ‘risorsa della Repubblica’ e giustamente venne nominato senatore a vita– e Galante Garrone contese a Bobbio, sulla ‘Stampa’, il ruolo di mentore della nazione ma resta che la loro visione del fascismo non contribuiva, al di là dei toni pacati (ma non sempre) a fondare , nel nostro paese, ‘valori comuni’, impensabili finché nel famigerato ventennio si fossero viste in azione solo le forze del Male.(Anche se Valiani aveva dedicato ai caduti della guerra civile delle due parti, le bellissime memorie. Tutte le strade conducono a Roma, che avevano quasi commosso De Felice).

Sennonché, a parte le valutazioni storiche sull’Italia in camicia nera, a dividere De Felice e gli ‘amici’ azionisti, erano concezioni della ricerca storica assolutamente incompatibili. E questo forse è il punto centrale di cui si dovrebbe tenere massi-mamente conto. Per gli storici azionisti (quelli seri) lo storico è un onesto magistrato democratico che prende atto del reato , convoca le parti, le ascolta con attenzione e stabilisce chi ha ostacolato il progresso civile di un popolo e chi, invece, si è battuto per la libertà e la democrazia. Per lo storico classico, come intendeva essere De Felice con i suoi richiami a Leopold von Ranke, ci sono solo fatti, drammi e individui che scelgono da che parte stare (o non stare) con le più diverse motivazioni. Si tratta di comprenderli, non di giudicarli, lasciando al lettore la libertà di riconoscersi nelle ragioni degli uni piuttosto che in quelle degli altri.

Scienza e morale appartengono—con Max Weber ma anche con Benedetto Croce e con Raymond Aron– a due diverse dimensioni esistenziali. Sta qui la quintessenza del liberalismo che è pluralismo preso sul serio. I valori di Giuliano l’Apostata sono oggetto di conoscenza come i valori dei cristiani perseguitati. La valutazione etica non spetta allo storico ma ad ogni uomo interessato alla storia dell’imperatore (e allo stesso storico purché disposto a uscire dal suo ruolo..). I valori, quelli dei prota-gonisti degli eventi, vanno riguardati come fatti che, insieme ad altre cause—più o meno strutturali—, motivano l’agire: non sono le lenti del ricercatore senza le quali sarebbe impossibile mettere a fuoco la realtà. L’amore del ricercatore per la libertà non garantisce l’individuazione e la comprensione dei suoi (veri o presunti) nemici. Di qui l’importanza dei documenti che, di per sé, non spiegano ma contribuiscono a far capire sia le azioni che gli stati della mente che le motivano.

Quando l’elogio di De Felice consiste nel riconoscere che «ricercava i documenti come un cane da tartufi» vien quasi da sorridere ,pensando a certo malcostume universitario e alla divisione di compiti tra il giovane assistente che si smazza negli archivi e il cattedratico che, grazie al suo lavoro, può scrivere opere destinate a ‘fare storia’. Nell’uso che ne fa De Felice i documenti non sono un mero accumulo di dati ma il machete che si fa largo nella sterpaglia dei miti e delle ideologie.

[articolo pubblicato il 6 giugno 2025 su Lettera150]

Il Fascismo. Le verità nascoste

22 Aprile 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nelle celebrazioni del 25 aprile si continua a vedere nel fascismo un regime estraneo al mondo moderno, una mela marcia di un paese di antica civiltà come l’Italia, una banda di malfattori di cui Mussolini fu il capo (per citare il titolo di un discutibile pamphlet di Aldo Cazzullo) e così via. In realtà, le cose non stanno così: al fascismo aderì la parte migliore del paese (non tutta, l’altra, minoritaria, rimase coerentemente antifascista): dai ceti medi emergenti – di cui parlò Renzo De Felice. nella celebre Intervista sul fascismo rilasciata a Michael Ledeen nel 1975, Ed. Laterza – al mondo dell’arte delle lettere, delle scienze—v. il Manifesto fascista di Giovanni Gentile. A motivare uomini che erano autentici patrioti, anche se non rifuggivano certo dalla violenza contro gli oppositori politici, erano l’insofferenza per una classe politica che, nel primo dopoguerra, non aveva saputo imporre la legge e l’ordine e il timore, non del tutto ingiustificato, dell’eversione rossa (Rosario Romeo, il maggiore storico italiano della seconda metà del Novecento, non riuscì mai a perdonare a Giovanni Giolitti il mancato uso delle maniere forti contro gli eversori rossi e neri). I Parlamenti con le loro “clases discutidoras” (come le aveva definito nel 1851 il grande tradizionalista spagnolo Juan Donoso Cortes) apparivano loro residui di un passato medievale, da chiudere al più presto dando le redini del governo ai combattenti, ai tecnici, alla borghesia imprenditoriale, alle maestranze operaie inquadrate in sindacati nazionali responsabili, a quanti avevano a cuore le sorti del paese e odiavano la ‘politique politicienne’. Come scriveva Giovanni Gentile, in un articolo Il liberalismo di B. Croce (ora in Id., Opere complete di Giovanni Genti­le. XLV Politica e cultura, 2 voll., Firenze, Le Lettere, vol. I, 1990), ironizzando su quanti si facevano ‘scrupolo di anteporre la patria all’idolo della libertà’ :“Silvio Spaventa e i deputati del 15 maggio, violatori della Costituzione, furono rivoluzionari, Ricasoli e Farini, senza la cui magnanima risolutezza Cavour sarebbe fallito, furono dittatori, come Garibaldi; e della libertà costituzionale si ricordarono soltanto a tempo e luogo. E Cavour, liberalissimo, a tempo e luogo, protestò anche lui, a proposito di libertà di stampa, contro i grandi principii, che rovinarono sempre le nazioni: e governò sempre da padrone di quella Camera a cui s’inchinava”.

 Gli antiparlamentari videro nel fascismo l’occasione per procedere a riforme di vasto raggio in linea col processo di modernizzazione in atto in tutta l’area euroatlantica. E le loro attese non andarono del tutto deluse, se si pensa alla politica delle bonifiche, al Welfare State affidato a grandi enti parastatali, alla messa in sicurezza del territorio, alle grandi realizzazioni urbanistiche (Roma in primis), alle riforme scolastiche, all’IRI che cambiarono il volto della nazione e sopravvissero al 25 aprile. Un deciso fautore delle nazionalizzazioni come il socialista Riccardo Lombardi ebbe a dichiarare che l’Italia per fortuna poteva disporre di una sfera pubblica che rappresentava il 60% dell’economia nazionale e che questo le avrebbe consentito un più agevole passaggio al socialismo. Dimenticò di dire due cose:1) che quella ‘fortuna’ si doveva proprio al regime fascista;2) che in un’economia liberale di mercato era alquanto problematico che potesse rappresentare una fortuna.

Sennonché una dittatura resta pur sempre una dittatura, e solo sui tempi lunghi si diventa consapevoli che la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle dittature, sempre che si viva in una società civile segnata dall’Umanesimo, dall’Illuminismo, dalla filosofia dello Stato di diritto. Nei primi anni i treni arrivano in orario, le amministrazioni pubbliche sono più efficienti, ci si preoccupa di più dei ceti meno abbienti e della sanità pubblica. Un apparato di potere, che abbia abolito il pluralismo politico, però, alla lunga non può legittimarsi con politiche che ricalchino quelle delle democrazie liberali più avanzate: il fascismo non poteva essere una versione all’italiana del New Deal di Franklin Delano Roosevelt (un presidente molto interessato alla politica economica di Mussolini). Doveva essere, per non perdere il potere una volta rimessa la ‘casa in ordine’, qualcosa di più e di diverso. Di qui la sua  hybris—‘l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna al centro delle tragedie di Eschilo—e l’ambizione di costruire la Terza Roma, non quella di Giuseppe Mazzini, fondata sul primato dello spirito, ma quella degli Scipioni e dei Cesari, ”donna di province”, signora del Mediterraneo. Ma di qui anche la corsa verso un totalitarismo sempre più permeato di spiriti antiborghesi e pagani, pur se incapace di radicarsi in un paese in cui Monarchia, Esercito e Chiesa erano rimasti contropoteri indeboliti ma inattaccabili. La guerra d’Etiopia, la guerra di Spagna, l’Asse Roma-Berlino, le infami leggi razziali, furono il risultato di questa hybris, sempre più lontana dalle idealità risorgimentali che avevano animato i ‘nuovi ceti emergenti’. Ne dà un ampio resoconto il saggio The Tainted Source. The Undemocratic Origins of the European Ideas (Warner Books 1998) di John Laughland. Quella ‘fonte inquinata’—rileviamo per inciso—avrebbe portato la nuova destra, erede della RSI, a non riconoscersi più nel pensiero di   Giovanni Gentile e di Gioacchino Volpe, Maestri osannati a parole ma sempre meno letti—bensì negli ideologi imperialisti (come Julius Evola) che ritenevano ormai superato il modello dello stato nazionale, troppo legato agli ideali dell’89 e all’odiato illuminismo.

 Dalla retorica resistenziale che vede nel fascismo la negazione dello spirito moderno e il trionfo del nazionalismo tribale (laddove il fascismo fu, agli inizi, un fenomeno del tutto moderno e, dopo la sua ingloriosa fine, la negazione dello stato nazionale) avrebbe potuto guarirci Renzo De Felice – al quale il suo erede spirituale, Francesco Perfetti, ha dedicato una ponderosa monografia, Per una storia senza pregiudizi. Il realismo storico di Renzo De Felice, Ed. Aragno – coi suoi numerosi studi sul fascismo visto nella sua epoca. Tali studi non sono soltanto – come è stato scritto da autorevoli recensori – un contributo a una storiografia meno ideologica e più critica del ventennio; sono qualcosa di più: un capitolo fondamentale della storia della cultura politica italiana del nostro tempo giacché, indirettamente, ne mostrano i ritardi e le anomalie, a cominciare dall’incapacità di prendere sul serio il pluralismo, riconoscendo che i valori, gli interessi, i bisogni che costellano il mondo umano sono molteplici e che demonizzare, senza comprendere, porta solo alla perpetuazione della guerra civile, ai ‘no pasaran’, agli ‘SOS Fascisme!’, ai cortei minacciosi, alle commemorazioni intese ad approfondire il solco ideologico tra i connazionali e non a ravvicinarli come accade nella grandi feste patriottiche del 4 luglio in America e del 14 luglio in Francia. Sennonché l’opera di De Felice è stata quasi del tutto rimossa e la sua alta lezione di liberalismo è stata immiserita e ridotta al banale apprezzamento della sua–pur indubbia–obiettività’ storiografica.

[articolo pubblicato su Paradoxa-Forum]

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