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Sulla immaturità dell’opinione pubblica – Due guerre, due misure

1 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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In un recente interessante articolo su Repubblica Ezio Mauro osserva con compiacimento il risveglio dell’opinione pubblica occidentale che, colpita dalla tragedia di Gaza, finalmente “agisce con autonomia e spontaneità”, come “soggetto indipendente” di cui partiti e governo “devono tenere conto”.

E tuttavia il suo compiacimento per il formarsi di un blocco di opinione che pone risolutamente la questione di Gaza non gli impedisce di sollevare alcuni interrogativi del tutto logici, ma che in questo momento pochi hanno il coraggio di porre. Primo, come mai la solidarietà con il popolo palestinese elude la questione della “rappresentanza terroristica che Hamas fa dei palestinesi”, ed evita accuratamente il problema degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi? Secondo, come mai l’opinione pubblica è compattamente schierata con le vittime civili palestinesi, ma è molto più tiepida sulle atrocità subite dai cittadini ucraini?

Mi sembrano due domande importanti, ma le risposte mi convincono solo in parte. Secondo l’ex direttore di Repubblica la differenza starebbe nella gestione delle due crisi, tutta politico-giuridica quella di Zelensky, tutta emotiva (e mediatica, aggiungo io) quella dei Palestinesi. Di conseguenza, l’opinione pubblica si sentirebbe pienamente coinvolta nella tragedia mediorientale, ma assai meno in quella ucraina. Anzi, se ho ben compreso il ragionamento, quella che chiamiamo opinione pubblica non sarebbe esattamente tale, perché la componente emotiva sarebbe prevalente su quella razionale. Insomma, il “blocco di opinione” attuale sarebbe una “forma sociale transitoria”, più simile a una folla che a un soggetto collettivo maturo e stabile.

Temo che le cose stiano molto peggio di così. Quando si nota l’asimmetria di reazioni alle due guerre – Gaza e Ucraina – si dimentica un fattore cruciale: i media. Una ricognizione imparziale di quel che giornali, radio, televisioni, siti internet hanno fatto in questi ultimi due anni non può che mettere in evidenza il doppio standard di attenzione. Le immagini dei bambini di Gaza hanno letteralmente invaso le nostre vite, mentre quelle dei bambini ucraini non solo uccisi, ma rapiti e deportati dai russi, hanno attirato un’attenzione incomparabilmente inferiore (in un rapporto che, a spanne, mi sento di valutare in 1 a 20). Che cosa penserebbe oggi l’opinione pubblica se i media avessero snobbato il conflitto israelo-palestinese, e ci avessero martellati con racconti patetici di bimbi rapiti, madri disperate, famiglie distrutte, quotidiane violenze dei soldati russi? E dire che il teatro di guerra ucraino è molto più accessibile alla stampa del teatro di Gaza, e dunque – sulla carta – avremmo dovuto aspettarci molti più reportage anti-russi che anti-israeliani.

E qui veniamo a una seconda, decisiva, differenza. Le vittime palestinesi hanno dalla loro un formidabile vantaggio mediatico: sono soggetti poveri, e oppressi da una potenza occidentale. Questo ne fa il soggetto ideale per una narrazione altruistico-emotiva, che ha l’opportunità di combinare in un unico copione due formidabili meme della cultura occidentale: l’ideale cristiano-marxista del riscatto degli ultimi, e l’odio per la propria civiltà (“il singhiozzo dell’uomo bianco”, per dirla con Pascal Bruckner).

Né l’uno né l’altro potevano essere attivati nel caso dell’aggressione di Putin all’Ucraina. Gli Ucraini non sono percepiti né come poveri, né come un popolo oppresso. Quanto alla Russia, non è una potenza occidentale, capitalistica, opulenta. Possiamo biasimare la violazione del diritto internazionale, l’aggressione a uno Stato sovrano, ma ci è difficile attivare quei sentimenti di identificazione e ripulsa che sentiamo emergere così forti quando i media ci mostrano i fotogrammi della distruzione di Gaza.

In questo senso si comprende perfettamente il doppio standard dei media. È un fatto di notiziabilità e di share: quel che ha funzionato con i bambini palestinesi, non poteva funzionare altrettanto bene con quelli ucraini. E il discorso si farebbe ancora più mesto se dovessimo ricordare le tragedie e i massacri completamente ignorati dai nostri media e, per riflesso, dalle nostre opinioni pubbliche, come le recentissime guerre civili in Sudan e in Myanmar.

La realtà, tanto evidente quanto difficile da pronunciare, è che le nostre opinioni pubbliche sono fortemente eterodirette, e profondamente immature. Se non lo fossero, spenderebbero la maggior parte delle loro energie per capire i problemi e immaginare soluzioni, e non per coltivare emozioni che fanno sentire buoni, umani, o “dalla parte giusta della storia”.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 settembre 2025]

Strabismo umanitario – Bambini di serie A e di serie B

11 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Un marziano che fosse atterrato in Europa nel 2022, e per tre anni avesse seguito le vicende belliche della Terra solo dai giornali e dalle tv, oggi avrebbe maturato alcune curiose convinzioni.

Primo, nel mondo ci sono 2 guerre, una in Ucraina, l’altra a Gaza. Secondo, l’aggressione di Israele contro i palestinesi è molto più grave di quella di Putin verso gli ucraini. Terzo, la Palestina è popolata da bambini, l’Ucraina da adulti.

La prima convinzione è falsa, i conflitti sanguinosi in corso sono decine (fra 50 e 100 a seconda delle definizioni e delle fonti). Sulla seconda convinzione (gravità delle due aggressioni) sospendo il giudizio, perché è una questione di punti di vista politico-ideologici. Quanto alla terza convinzione, è quantomeno esagerata: i bambini (minori sotto i 6 anni) ci sono da entrambe le parti, anche se a Gaza rappresentano una quota maggiore della popolazione (circa il 18% contro il 6% dell’Ucraina). In termini assoluti i bambini sotto le bombe sono tra 300 e 400 mila a Gaza, circa 2.2 milioni (cioè sette volte di più) in Ucraina.

Da che cosa possano essere state generate queste convinzioni è evidente: i media sono sensibili agli umori dell’opinione pubblica, e l’opinione pubblica è indignata per lo sterminio in corso a Gaza. In questa indignazione, tuttavia, c’è qualcosa che non torna. La maggior parte delle persone che si dicono indignate affermano di esserlo innanzitutto per ragioni umanitarie, ossia al di là di ogni ideologia e convinzione politica: quel che Israele sta facendo è intollerabile, e va assolutamente fermato. Chi non si indigna, non firma appelli, non scende in piazza è complice. Di qui l’invito alla mobilitazione generale per salvare i bambini di Gaza.

Ed ecco quel che non torna: se le ragioni della protesta sono puramente umanitarie, ovvero scevre da scelte ideologiche e preconcetti politici, allora ci aspetteremmo che l’indignazione non fosse concentrata su un unico conflitto. Che qualche voce si levasse a difesa dei bambini non dico in tutti, ma quantomeno nei teatri di guerra più drammatici.

Se davvero la preoccupazione è per il destino dei bambini, come mai i bambini ucraini uccisi dai russi non suscitano la medesima indignazione dei bambini palestinesi uccisi dagli israeliani? Come mai del dramma dei 20 mila bambini ucraini rapiti e deportati dai russi parla quasi esclusivamente la Chiesa cattolica?

Ma soprattutto: perché mai delle migliaia di bambini uccisi, violati, affamati, malati nell’inferno del Sudan (guerra civile + epidemia di colera) non parla quasi nessuno? E dei massacri che da 4 anni si susseguono in Myanmar? Più di 50 mila morti e 3 milioni di sfollati sono ancora troppo pochi per suscitare un cenno di attenzione nel mondo civile?

Eppure non stiamo parlando di qualche conflitto minore, di qualche guerra locale fra tribù: stiamo parlando di drammi che, per le loro dimensioni, eguagliano e spesso superano il dramma di Gaza.

Dunque torniamo alla domanda: perché solo determinati bambini infiammano gli animi? Perché ci sono bambini di serie A (Gaza), di serie B (Ucraina), di serie C (tutti gli altri)?

Credo che la risposta sia: perché l’indignazione si presenta con le vesti del senso di umanità, ma con l’umanità ha ben poco a che fare. La vera base dell’indignazione a senso unico è l’ideologia, che induce a usare le tragedie del mondo non per cambiarlo in meglio, ma per promuovere la causa politica di cui si è prigionieri (in questo caso l’antiamericanismo e l’antioccidentalismo). Per questo scopo i bambini palestinesi sono perfetti, quelli degli altri teatri di guerra no, o molto di meno.

Ma come si fa – qualcuno potrebbe obiettare – a occuparsi di tutto? Non è naturale seguire le questioni più vicine e trascurare i drammi lontani?

Ebbene, questa è una scusa che non regge. Perché ci sono i contro-esempi, che dimostrano che non è ineluttabile essere faziosi e provinciali. Se si prova a dare uno sguardo ai grandi conflitti e alle catastrofi umanitarie che scuotono il mondo, non è difficile scoprire che, in molte delle realtà snobbate dai nostri media e dagli indignati anti-israeliani, prestano la loro opera coraggiose organizzazioni internazionali (spesso non governative), queste sì davvero umanitarie – cioè universalistiche – come Medici senza frontiere, Emergency, Amnesty International, Unicef, solo per ricordarne alcune. Manifestare e firmare appelli è troppo comodo. Chi ha davvero a cuore la sorte dei bambini e i loro diritti farebbe meglio a dare un sostegno concreto a chi è pronto a operare in qualsiasi teatro di guerra, senza farsi accecare dall’ideologia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 settembre 2025]

Nel segno dell’incertezza

2 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Che cosa pensa l’opinione pubblica delle guerre in corso? A giudicare da diversi sondaggi degli ultimi tempi sembra che i sentimenti dominanti siano stanchezza, scetticismo, incertezza. La guerra in Ucraina è durata troppo, le speranze di una “pace giusta” sono ridotte al lumicino. La condanna dell’intervento israeliano a Gaza coesiste con una certa comprensione per l’attacco americano ai siti nucleari dell’Iran. Il riarmo europeo e il connesso aumento delle spese militari spaccano sia la destra sia la sinistra.

Che l’opinione pubblica sia confusa e divisa non stupisce più di tanto, data la straordinaria complessità delle questioni sul tappeto. Quel che trovo sorprendente, invece, è la sicurezza con cui si muovono tanti esperti di questioni geopolitiche e geostrategiche. Due cose mi colpiscono in particolare. La prima è quante informazioni cruciali ci mancano, e quanto poco questa ignoranza venga tematizzata. Nel caso dell’intervento in Iran non sappiamo se l’Iran era davvero sul punto di possedere l’arma nucleare, o se siamo di fronte a una nuova bufala, come quella sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein nel 2003; non sappiamo dove siano in questo momento i 400 chili di uranio arricchito e che cosa gli iraniani intendano farne; non sappiamo, soprattutto, quale proposta americana l’Iran avrebbe rifiutato prima della rottura dei negoziati sul programma nucleare. Nel caso della guerra in Ucraina non sappiamo con la necessaria esattezza chi e che cosa fece fallire le trattative intavolate a Istanbul nella primavera del 2022; e ovviamente non conosciamo i piani di Putin per i prossimi anni (sempre che resti al potere), né come reagirebbe alle possibili mosse dei governi occidentali.

La seconda cosa che mi sorprende è che, in una situazione di così palese e drammatica ignoranza dei dati basilari, tanti politici e tanti esperti esibiscano convinzioni strategiche univoche. Mi hanno colpito, in particolare, le analisi contenute in due bellissimi libri di specialisti, uno uscito nei giorni scorsi (Se la Russia attacca l’Occidente, di Carlo Masala, Rizzoli), l’altro pubblicato pochi mesi dopo l’invasione dell’Ucraina (Il governo mondiale dell’emergenza, di Alessandro Colombo, Cortina). Il primo è un esercizio di fanta-politica, che immagina uno scenario futuro di tipo catastrofico: la Russia attacca l’Estonia il 28 marzo 2028, e i governanti europei, non avendo dato seguito alle promesse di riarmo ed essendo tra loro divisi, non riescono a reagire adeguatamente l’attacco. Il secondo è una raffinata analisi del dopo ’89, e degli errori strategici dell’occidente, incapace di capire che l’aggressività e pericolosità dei suoi nemici dipendono anche dalle politiche, a loro volta aggressive e ossessionate dall’imperativo della sicurezza, messe in atto nei loro confronti. Anche se i due autori non si pronunciano esplicitamente, credo che la lezione che un lettore ricaverebbe dal primo libro è che l’Europa dovrebbe riarmarsi al più presto (“si vis pacem para bellum”), mentre la lezione che ricaverebbe dal secondo è che l’Occidente e la Nato devono smetterla di spadroneggiare in tutto il mondo.

Quello che ai miei occhi in entrambi pare mancare, è la coscienza che il gioco delle relazioni internazionali non è governato dal rischio ma, per riprendere la fondamentale distinzione di Knight e di Keynes, è retto dall’incertezza. Si ha rischio quando gli esiti delle proprie azioni sono sconosciuti ma calcolabili probabilisticamente (come in molti giochi d’azzardo), si ha incertezza quando non solo le conseguenze delle nostre azioni non sono prevedibili, ma non siamo neppure in grado di assegnare probabilità ai vari esiti logicamente possibili. E’ questa, sfortunatamente, la situazione del gioco europeo in atto in questi anni. Dove l’imperativo del riarmo ha una sua logica, il paragone con gli errori delle democrazie di fronte a Hitler ha una sua plausibilità, ma nessuno è in grado di escludere che le cose stiano all’opposto, e che il comportamento futuro della Russia possa dipendere anche, se non soprattutto, da quanto si sentirà minacciata da noi. Di qui, in particolare, l’impossibilità di formulare un giudizio razionale sul riarmo tedesco: provvidenziale ciambella di salvataggio per un’Europa altrimenti inerme, o provocazione che rischia di risvegliare l’orso russo, memore di Napoleone e di Hitler?

Ecco perché sono stupito. I nostri governanti, i nostri politici, i nostri esperti militari, i nostri intellettuali, i nostri editorialisti parlano come se conoscessero le conseguenze delle scelte che l’Unione Europea si appresta a compiere. Come se non sapessero che questo è il tempo dell’incertezza. E che, in tempi di incertezza, nessuno può sapere con ragionevole certezza qual è la via che si deve imboccare.

[articolo uscito sul Messaggero il 28 giugno 2025]

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