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Intervista a Luca Ricolfi

21 Ottobre 2025 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà

Oggi il governo Meloni diventa il terzo più longevo della storia della Repubblica. Soprese? Conferme? Come mai ha un consenso in crescita, cosa più unica che rara dopo un così lungo periodo?

In realtà la popolarità della Presidente del consiglio è molto minore di quella del 2022-2023, come del resto è fisiologico (la “luna di miele” dura poco). Quello che è in crescita, specie dopo le Elezioni Europee dell’anno scorso, è il consenso a Fratelli d’Italia, che traina il consenso complessivo al centro-destra. La ragione di fondo mi sembra la pochezza dell’opposizione, sia prima sia dopo l’avvento di Schlein. Ma c’è anche una seconda ragione…

Quale?

La debolezza delle alternative partitiche a destra: dopo tre anni di governo, i due alleati principali di Fratelli d’Italia – Lega e Forza Italia – non sono stati capaci di espandere i loro consensi, anche se per motivi diversi (Tajani per mancanza di carisma, Salvini per dissipazione del carisma passato).

Il cavallo di battaglia dell’opposizione, tre anni fa, era che la destra al governo sarebbe stata bocciata dai mercati e sarebbe rimasta isolata a livello internazionale. Le agenzie di rating ci hanno rimesso in serie A ed Europa e Usa hanno detto chiaramente di gradire il modello Meloni. Come mai?

Una ragione è semplicemente che, grazie alla faziosità anti-meloniana di gran parte dei media italiani, le istituzioni internazionali e la stampa estera si erano fatte un’immagine del tutto errata di Meloni e del suo partito. Il mero constatare che, andata al governo, Giorgia Meloni non ha fatto nulla di tutto ciò che i suoi nemici si attendevano (o fingevano di attendersi), ha determinato prima stupore e poi un crescente rispetto nei confronti della premier. Se profetizzi che arriva il fascismo e poi non se ne vede neppure la più pallida traccia, non puoi che rivedere le tue credenze. E così è stato.

Poi naturalmente ci sono anche questi anni di governo, in cui l’attivismo di Giorgia Meloni a livello internazionale (dal sostegno all’Ucraina al piano Mattei) ne ha fortemente rafforzato il prestigio.

Lo spartito delle accuse a Meloni da parte dell’opposizione è inevitabilmente cambiato. Oggi Landini le dà della cortigiana di Trump, Renzi dell’influencer che comunica bene ma combina poco e Schlein sostiene che la destra mette a rischio la democrazia. Secondo lei l’atteggiamento del governo tenuto con Trump è corretto?

Più che corretto, profetico: Meloni ha scommesso sulla volontà pacificatrice di Trump e ha vinto la scommessa. In questo è stata molto aiutata dalla cecità dell’opposizione, che ha commesso l’errore di giudicare Trump in termini morali anziché politici.

Cosa ha sbagliato il governo e cosa ha fatto giusto in politica estera, nel rapporto con gli Usa e l’Europa?

In politica estera mi sembra che l’unico vero errore sia stato la gestione del caso Almasri. L’atteggiamento verso l’Europa è stato giustamente critico, visto il disastro green di cui cominciamo solo ora ad avvertire le conseguenze, specie verso l’industria dell’auto e il suo indotto.

La Francia sciovinista, in crisi politica, istituzionale, sociale, e conseguentemente economica, inizia a parlare di un modello Meloni: cos’è, è esportabile e può ambire a guidare l’Europa?

Molte idee di Meloni sono già condivise da altri governi europei, come quello tedesco e quello danese, ad esempio. Sul fatto che il modello Meloni sia esportabile ho due dubbi. Primo, non vedo leader europei di destra dotati del medesimo carisma: un modello Meloni senza Giorgia Meloni potrebbe non funzionare. Secondo, in molti paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia) il modello non è esportabile semplicemente perché i loro partiti di destra sono troppo aggressivi, al limite dell’eversione. Quello che in Italia non si è ancora capito è che, fin dalle sue origini, il partito di Meloni si è collocato in un’area di destra ragionevole, sul modello dei gollisti in Francia e dei conservatori nel Regno Unito. Sembra incredibile, ma la realtà è che la nostra stampa e la nostra sinistra hanno scambiato la schiettezza, e una certa vena istrionico-populista della comunicazione della premier, per estremismo politico. Un errore fatale: in Italia l’estremismo di destra è del tutto marginale (anche perché il precedente storico del fascismo lo delegittimerebbe), mentre il non parlare in politichese è enormemente apprezzato.

La manovra è stata apprezzata dagli industriali, da buona parte del sindacato, tant’è che ha isolato la Cgil, e dall’Europa. L’opposizione quindi si è ridotta a essere quasi esclusivamente ideologica: mancanza di proposte, incapacità di uscire dai vecchi schemi?

In realtà l’opposizione ha ottime proposte (più risorse alla sanità e alla scuola, salario minimo), il problema è che non dice con quali risorse pensa di poterle mettere in atto. E la gente sa benissimo che le promesse senza coperture preludono a maggiori tasse.

Ha recentemente scritto sul Messaggero che Giuseppe Conte sarebbe più apprezzato di Elly Schlein come candidato premier e che i dem sono in calo: il campo largo ammazza il Pd?

Il campo largo erode il consenso al Pd e tarpa le ali al Movimento Cinque Stelle, che senza la zavorra-Schlein potrebbe crescere più velocemente di quanto già sta facendo (dalle Europee a oggi i sondaggi gli dànno circa 3 punti in più).

Però giusto ieri è scoppiato M5S…

Si riferisce alle bizze di Chiara Appendino? Non so se siano dettate dalla volontà di sostituire Conte, completando la femminilizzazione della politica italiana (un tridente Meloni-Schlein-Appendino farebbe dell’Italia l’unico paese europeo che ha espunto i leader maschi dalla politica). Però nel merito mi pare abbia pienamente ragione: il Movimento Cinque Stelle volava quando aveva il coraggio di definirsi “né di destra né di sinistra”, mentre ha cominciato a perdere colpi quando ha scelto di diventare “ora di destra, ora di sinistra”. E dire che avrebbe tutte le possibilità di ritagliarsi uno spazio politico non banale, ad esempio puntando tutte le sue carte sulla domanda di protezione sociale, nella duplice accezione di sostegno ai deboli e di contrasto all’immigrazione irregolare.

Cosa ci fanno i centristi nel campo largo a guida sempre più a sinistra?

Calenda mi pare ormai fuori dal campo largo, il suo ruolo è quello di solitario ed eroico difensore della serietà in politica. Quanto a Renzi (Italia Viva) e Magi (+Europa) mi pare che accodarsi alla sinistra ideologica capeggiata da Elly Schlein sia l’unica carta che hanno in mano per sopravvivere, eleggendo ancora qualche deputato e senatore.

Ma è serio proporre una neofita della politica da sei mesi sindaco di Genova come leader di un campo che unisce otto-dieci anime contro una che fa politica da che aveva quindici anni e ha nell’unità del suo partito e della coalizione uno dei suoi asset?

Non conosco Silvia Salis abbastanza per dire se è all’altezza oppure no. Però il mero fatto che qualcuno pensi di poterla promuovere dall’oggi al domani a leader del campo progressista la dice lunga sulla modestia della classe dirigente di sinistra.

Azzardo: non è che, avanti così, Meloni tra qualche anno rappresenterà sia l’Italia di destra sia quella di sinistra moderata, con una quota importante ma marginale confinata all’estrema sinistra di Conte-Schlein-Fratoianni?

Sì, in effetti la sinistra moderata, che pure esiste, potrebbe un giorno sentirsi meglio rappresentata da Meloni che da Schlein-Conte-Bonelli-Fratoianni. Però manca un passaggio cruciale.

Quale?

L’estinzione della Lega o, più verosimilmente, la rimozione di Salvini e Vannacci come suoi leader. Finché l’immagine della Lega è associata a loro due, è impensabile catturare il consenso degli elettori di sinistra moderati (ma io preferisco chiamarli riformisti: il riformismo vero è radicale, non moderato). Una Lega guidata da Zaia-Fedriga-Giorgetti renderebbe il centro-destra votabile anche da una parte degli elettori di centro-sinistra, tanto più se i partitini che li rappresentano dovessero far parte della coalizione.

Dopo il flop dell’antifascismo, quello su Gaza. Non è che il predominio degli intellettuali d’area confonde le idee ai dem, li priva di punti di riferimento e li fa sbagliare?

Gli intellettuali (e i giornalisti) di sinistra sono la maggiore sciagura cognitiva che si sia mai abbattuta su uno schieramento politico: anziché aiutare a comprendere la realtà, fanno l’impossibile per celarne i lati sgradevoli.

Un libro che consiglia a Elly?

Hillbilly Elegy, del vicepresidente Usa J.D. Vance. La aiuterebbe a capire la vita di chi nasce in basso.

E uno per Giorgia?

Giorgia non ha tempo, e quel poco che riesce a ricavare fa benissimo a dedicarlo alla figlia Ginevra.

[intervista uscita su Libero il 19 ottobre 2025]

Perché la sinistra si fa rappresentare dai VIP? – intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

24 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Dalla piazza di sabato scorso con sul palco solo intellettuali e artisti alla difesa del manifesto di Ventotene su Rai1 da parte di Benigni: perché la sinistra ha delegato la difesa dei propri capisaldi culturali e la rappresentanza delle proprie idee a questi mediatori?

Domanda difficile, perché i fattori sono tanti. Però almeno due ingredienti del cocktail mi sembrano abbastanza evidenti. Primo ingrediente: da almeno 15 anni, ossia dalla lapidazione di Walter Veltroni in poi (2008-2009), la sinistra non è stata più in grado di esprimere leader dotati al tempo stesso di spessore intellettuale e di carisma. Una situazione che il recente ringiovanimento del gruppo dirigente del Pd non ha fatto che aggravare, come del resto ci si poteva aspettare dato il trend delle istituzioni scolastiche. La distanza fra il livello di preparazione culturale e politica dei dirigenti del vecchio PCI e quello degli attuali dirigenti Pd è siderale, per non dire imbarazzante. Senza una cultura ampia, la difesa dei propri “capisaldi culturali” diventa una mission impossible.

E il secondo ingrediente?

Il secondo ingrediente è la eticizzazione del discorso politico, sempre meno ancorato a obiettivi e rivendicazioni concrete, e sempre più volto ad affermare la superiorità morale dei propri valori, come inclusione, accoglienza, diritti delle minoranze sessuali. Ed è ovvio che se la sostanza politica del tuo discorso è basata su imperativi morali piuttosto che su un vero programma politico, economico, sociale, diventa facile, e del tutto naturale, affidare il messaggio allo star system, sfruttando la popolarità dei suoi protagonisti. Un discorso di Benigni, per quanto arruffato (o proprio perché arruffato), impatta mille volte di più che una mitragliata di slogan emessi dalla bocca di Elly Schlein o di Giuseppe Conte.

Quando tutto questo è successo?

Ci sono alcune date significative: il 1992, con l’esplosione di Mani Pulite. Ma anche il 1994-1995, con l’abbandono – a sinistra – del concetto di eguaglianza a favore di quello di inclusione, un processo voluto da Alessandro Pizzorno e vanamente ostacolato da Norberto Bobbio. La fine del primo governo Prodi, nel 1998. E, ultima tappa, la defenestrazione di Veltroni, come ho già ricordato. Però una vera e propria data della svolta non esiste, perché la supplenza dello star system rispetto alla politica è un fenomeno carsico, un fiume che emerge e si inabissa periodicamente quando la politica è sputtanata, o semplicemente non è abbastanza a sinistra, o ancora più basicamente non ci scalda abbastanza il cuore. Allora arrivano artisti, cantanti, attori, scrittori, studiosi, intellettuali, giornalisti-tribuni. Può capitare per un’inchiesta giudiziaria, ma più sovente perché un governo di sinistra non lo è abbastanza.

Ad esempio?

Renzi che vara il Jobs Act, Minniti che fa gli accordi con la Libia, Enrico Letta che preferisce Draghi a Giuseppe Conte.

Nanni Moretti ci teneva a mantenere le distanze, da “questi dirigenti con i quali non vinceremo mai” e dopo lo storico intervento in piazza è tornato al proprio lavoro: oggi il rapporto sembra più osmotico?

Sì, oggi il mondo dell’arte e della cultura interviene quotidianamente perché il governo è di destra, e l’antifascismo – diversamente dai programmi politici veri e propri – è una canzone facile da cantare. Avete mai visto un concertone per il “salario minimo legale” ? Alla fine è una questione di generi letterari, poesia contro prosa. La politica parla in prosa, lo star system – ma anche il pubblico – detesta la prosa, vuole la poesia. Salire sulle navi che salvano i migranti è poesia, sostenere il salario minimo legale è prosa. Detto per inciso, è una delle ragioni della impopolarità di Carlo Calenda, il meno poetico dei nostri politici.

Non è partito tutto con la Rai3 di Angelo Guglielmi, la tv delle ragazze e via discorrendo?

No, secondo me. Quello era un fenomeno diverso. La stagione 1985-2001 ha visto una straordinaria fioritura della satira politica, che non si sostituiva alla politica ma semmai la dileggiava, senza riguardi per nessuno. Sotto la sferza di Arbore, Dandini, Guzzanti, Marcoré cadevano tutti. E cadevano pure i miti della sinistra, sbeffeggiata nelle sue innumerevoli debolezze e nei suoi tic. Nessuno, in quel gruppo, avrebbe mai assunto le posture da guru corrucciati che oggi assumono i vari Saviano e Scurati.

La satira ha perso indipendenza o originalità, per diventare un interprete organico?

Ci sono eccezioni importanti, come Crozza e Checco Zalone, ma in generale la satira mi sembra non all’altezza. Per lo più non fa ridere, e più è politicizzata meno fa ridere. L’idea che possa esistere una “satira di sinistra”, o una “satira di destra”, è già di per sé la negazione della satira.

A sinistra è saltato il concetto di doppia verità, per cui oggi le classi dirigenti dem forzano la realtà, presente e passata, per plasmarla secondo un’unica visione?

Esattamente. I dirigenti del vecchio PCI (anni ’50 e ’60) non credevano a quello che raccontavano alle masse, ed erano perfettamente consapevoli che una cosa è la realtà, un’altra cosa è la propaganda. I dirigenti della sinistra attuale, invece, non conoscendo la pratica della doppia verità, costringono sé stessi a credere vere le cose che dicono. Quindi non dispongono di un’analisi realistica della situazione.

Lo choc di Mani Pulite e la parabola di Silvio Berlusconi hanno un ruolo in tutto questo?

Sì, soprattutto Berlusconi: ha fornito un formidabile bersaglio per le esternazioni delle celebrities, come le chiama Rampini quando rileva gli stessi fenomeni negli Stati Uniti.

Chi conduce il gioco? Benigni che difende Ventotene come Schlein meglio non potrebbe è come se un giornale affidasse al vignettista la propria linea editoriale. Sono saltati gli schemi o c’è un nuovo schema?

C’è il vecchio schema dell’indignazione: mai studiare le carte, mai entrare nei dettagli, sempre scomunicare e demonizzare.

Pare che certi elettori di sinistra preferiscano farsi dire le cose da intellettuali e artisti piuttosto che dai parlamentari che eleggono. È vero?

È così, ma la ragione è la solita: l’elettore progressista ama sentirsi moralmente superiore, e questo stato d’animo glielo procura più facilmente Benigni che Schlein.

Provoco. Non è che nascondendosi dietro gli intellettuali e gli artisti d’area i politici sopperiscono all’assenza di rapporto con l’elettorato, disintermediando così la relazione tra potere e cittadinanza e realizzando il governo delle élite?

Forse, ma è una delle tante conseguenze della riduzione della politica a morale.

Oggi forse il paradigma non è destra contro sinistra ma élite da una parte e cittadini dall’altra e gli intellettuali guidano il popolo per conto delle élite?

In parte è così, ma la destra, almeno in Italia, non ha un establishment intellettuale che la sostiene: destra è diversa anche perché fa politica senza il paracadute delle élite.

Anche negli Stati Uniti i democratici hanno provato a risolvere i loro problemi mobilitando lo star system. Perché è una mossa che non produce mai risultati validi, e perché invece ci si ricorre comunque?

Non direi che non funziona mai. Con Obama lo star system ha funzionato, con Kamala Harris non poteva funzionare perché ogni endorsement di una celebrity confermava l’equazione trumpiana democratici=élite.

[intervista uscita su Libero il 21 marzo 2025]

Intervista di Tommaso Rodano (Il Fatto Quotidiano) a Luca Ricolfi – Il follemente corretto e la sinistra

24 Ottobre 2024 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà

1. Luca Ricolfi, dopo dieci anni di indagine sul tema ha messo a punto un termine: “follemente corretto”. Cosa intende?
In prima approssimazione si potrebbe direi che il follemente corretto è la “malattia senile” dei politicamente corretto, la sua estrema degenerazione. Ma in realtà una definizione rigorosa è impossibile, perché il vero tratto distintivo del follemente corretto è il suo meccanismo di propagazione, che si fonda sul potere intimidatorio: nell’era dei social tutti possono diventare censori indignati, ma tutti sono, al tempo stesso, potenziali vittime, esposti al rischio di venire lapidati da censori ancora più fanatici.

2. Il suo elenco degli orrori del pensiero “woke” è notevole. Personalmente, sono rimasto impressionato dalla tabella dei nuovi pronomi di genere: “ve”, “xe”, “ze”, ma quali sono gli episodi che l’hanno colpita di più mentre lavorava al libro? 
Difficile fare una graduatoria, anche perché le follie sono molto eterogenee. Ci sono follie che impattano drammaticamente, come l’ammissione dei trans biologicamente maschi nei reparti femminili delle carceri, e follie che fanno semplicemente ridere, come Lufthansa che proibisce ai piloti di dire “gentili signore e signori benvenuti a bordo” perché qualcuno potrebbe non sentirsi né signora né signore.                                                                                                                                                                                       Comunque, come persona che per mestiere scrive e insegna, forse l’episodio che più mi dà da pensare è la pretesa di ripulire l’opera di Roald Dahl, un caso in cui coesistono sia la gravità della cosa (attacco alla libertà di espressione), sia la ridicolaggine (gli interventi effettuati sul testo sono bigotti e demenziali).

3. La sua tesi è che il politicamente corretto sia uno strumento di lotta di classe al contrario: invece di combattere le disuguaglianze, crea nuove élite. Quali?
Ne menzionerei tre: le vestali della Neolingua, ossia l’esercito di comunicatori che, nelle burocrazie, nelle università, nei media, nelle aziende, si occupa di ripulire il linguaggio; le lobby del Bene, ovvero le potentissime organizzazioni, soprattutto LGBT+, che
interferiscono quotidianamente con le attività di aziende e istituzioni; infine quelle che io chiamo le “guardie rosse della diversity” ossia gli staff che, nelle università e nelle aziende, si occupano di “sensibilizzare” dipendenti e opinione pubblica, e di garantire che le politiche siano inclusive, attente alla diversità, eccetera.

4. Sì è parlato tanto di schwa sui giornali, tra gli intellettuali e tra i politici, ma nei fatti non la usa quasi nessuno. E se va al mercato, sarà difficile trovare qualcuno che si ponga il problema del pronome o delle parole da usare con chi appartiene a una minoranza sessuale. Non pensa che la preoccupazione sul politicamente corretto stia diventando a sua volta una paranoia? 
In effetti di certi aspetti del follemente corretto la gente comune se ne infischia, e nessuno la redarguisce o la penalizza per questo. Il problema è che, non appena una persona comune prova a fare capolino in ambienti culturali/intellettuali/politici, la non padronanza del linguaggio corretto tende a diventare fonte di stigma ed emarginazione.
Riguardo a quel che succede nei mercati le do pienamente ragione: sono il posto più libero del pianeta, anche perché di norma i paladini del follemente corretto non ci mettono piede (tutt’al più ci mandano la servitù, eufemisticamente chiamata “personale di
servizio”).

5. Sono peggio le forzature ridicole del “follemente corretto” o quelle speculari, a destra, del politicamente scorretto a tutti i costi? Mi vengono in mente alcuni esempi di successo, da Vannacci alle flatulenze radiofoniche della Zanzara. 
Non so se sono speculari, perché il follemente corretto è per lo più raffinato, anzi fin troppo raffinato, mentre il politicamente scorretto estremo è semplicemente volgare: sono fenomeni diversi, più che opposti. Diciamo che, se devo scegliere, preferisco il follemente corretto, perché almeno fa ridere. Mentre la satira di destra, spesso, non è affatto divertente.

6. Il follemente corretto, scrive lei, è un problema della sinistra italiana. Crede che possa condizionare anche le elezioni americane?
Tantissimo. Sono in molti a ritenere che, nel 2016, Trump abbia vinto le elezioni anche perché una parte della società americana non ne poteva più del politicamente corretto. Adesso la storia rischia di ripetersi: non prendendo le distanze dalle istanze LGBT più estreme, Harris mette a repentaglio l’elezione. Diverse femministe hanno minacciato di votare Trump, o perlomeno di non votare Harris, se la candidata democratica non prenderà esplicitamente le distanze da obbrobri come l’utero in affitto e le terapie precoci di cambio di sesso/genere, basate su ormoni e talora su operazioni chirurgiche.

7. Che ne sarà del “follemente corretto”? É destinato a cambiare i connotati alla società italiana o a sgonfiarsi nel tempo?
Penso che si sgonfierà, ma non è detto. La sinistra potrebbe essere così stupida e autolesionista da continuare a difenderlo. Su alcuni temi, come quello dei pronomi o della schwa, si può anche pensare che, dopotutto, non cambiano la vita delle persone. Ma su altre cose, come l’utero in affitto, o la difesa degli spazi femminili, perseverare nella difesa delle istanze LGBT+ potrebbe rivelarsi un azzardo.

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