Intervista a Luca Ricolfi

Oggi il governo Meloni diventa il terzo più longevo della storia della Repubblica. Soprese? Conferme? Come mai ha un consenso in crescita, cosa più unica che rara dopo un così lungo periodo?

In realtà la popolarità della Presidente del consiglio è molto minore di quella del 2022-2023, come del resto è fisiologico (la “luna di miele” dura poco). Quello che è in crescita, specie dopo le Elezioni Europee dell’anno scorso, è il consenso a Fratelli d’Italia, che traina il consenso complessivo al centro-destra. La ragione di fondo mi sembra la pochezza dell’opposizione, sia prima sia dopo l’avvento di Schlein. Ma c’è anche una seconda ragione…

Quale?

La debolezza delle alternative partitiche a destra: dopo tre anni di governo, i due alleati principali di Fratelli d’Italia – Lega e Forza Italia – non sono stati capaci di espandere i loro consensi, anche se per motivi diversi (Tajani per mancanza di carisma, Salvini per dissipazione del carisma passato).

Il cavallo di battaglia dell’opposizione, tre anni fa, era che la destra al governo sarebbe stata bocciata dai mercati e sarebbe rimasta isolata a livello internazionale. Le agenzie di rating ci hanno rimesso in serie A ed Europa e Usa hanno detto chiaramente di gradire il modello Meloni. Come mai?

Una ragione è semplicemente che, grazie alla faziosità anti-meloniana di gran parte dei media italiani, le istituzioni internazionali e la stampa estera si erano fatte un’immagine del tutto errata di Meloni e del suo partito. Il mero constatare che, andata al governo, Giorgia Meloni non ha fatto nulla di tutto ciò che i suoi nemici si attendevano (o fingevano di attendersi), ha determinato prima stupore e poi un crescente rispetto nei confronti della premier. Se profetizzi che arriva il fascismo e poi non se ne vede neppure la più pallida traccia, non puoi che rivedere le tue credenze. E così è stato.

Poi naturalmente ci sono anche questi anni di governo, in cui l’attivismo di Giorgia Meloni a livello internazionale (dal sostegno all’Ucraina al piano Mattei) ne ha fortemente rafforzato il prestigio.

Lo spartito delle accuse a Meloni da parte dell’opposizione è inevitabilmente cambiato. Oggi Landini le dà della cortigiana di Trump, Renzi dell’influencer che comunica bene ma combina poco e Schlein sostiene che la destra mette a rischio la democrazia. Secondo lei l’atteggiamento del governo tenuto con Trump è corretto?

Più che corretto, profetico: Meloni ha scommesso sulla volontà pacificatrice di Trump e ha vinto la scommessa. In questo è stata molto aiutata dalla cecità dell’opposizione, che ha commesso l’errore di giudicare Trump in termini morali anziché politici.

Cosa ha sbagliato il governo e cosa ha fatto giusto in politica estera, nel rapporto con gli Usa e l’Europa?

In politica estera mi sembra che l’unico vero errore sia stato la gestione del caso Almasri. L’atteggiamento verso l’Europa è stato giustamente critico, visto il disastro green di cui cominciamo solo ora ad avvertire le conseguenze, specie verso l’industria dell’auto e il suo indotto.

La Francia sciovinista, in crisi politica, istituzionale, sociale, e conseguentemente economica, inizia a parlare di un modello Meloni: cos’è, è esportabile e può ambire a guidare l’Europa?

Molte idee di Meloni sono già condivise da altri governi europei, come quello tedesco e quello danese, ad esempio. Sul fatto che il modello Meloni sia esportabile ho due dubbi. Primo, non vedo leader europei di destra dotati del medesimo carisma: un modello Meloni senza Giorgia Meloni potrebbe non funzionare. Secondo, in molti paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia) il modello non è esportabile semplicemente perché i loro partiti di destra sono troppo aggressivi, al limite dell’eversione. Quello che in Italia non si è ancora capito è che, fin dalle sue origini, il partito di Meloni si è collocato in un’area di destra ragionevole, sul modello dei gollisti in Francia e dei conservatori nel Regno Unito. Sembra incredibile, ma la realtà è che la nostra stampa e la nostra sinistra hanno scambiato la schiettezza, e una certa vena istrionico-populista della comunicazione della premier, per estremismo politico. Un errore fatale: in Italia l’estremismo di destra è del tutto marginale (anche perché il precedente storico del fascismo lo delegittimerebbe), mentre il non parlare in politichese è enormemente apprezzato.

La manovra è stata apprezzata dagli industriali, da buona parte del sindacato, tant’è che ha isolato la Cgil, e dall’Europa. L’opposizione quindi si è ridotta a essere quasi esclusivamente ideologica: mancanza di proposte, incapacità di uscire dai vecchi schemi?

In realtà l’opposizione ha ottime proposte (più risorse alla sanità e alla scuola, salario minimo), il problema è che non dice con quali risorse pensa di poterle mettere in atto. E la gente sa benissimo che le promesse senza coperture preludono a maggiori tasse.

Ha recentemente scritto sul Messaggero che Giuseppe Conte sarebbe più apprezzato di Elly Schlein come candidato premier e che i dem sono in calo: il campo largo ammazza il Pd?

Il campo largo erode il consenso al Pd e tarpa le ali al Movimento Cinque Stelle, che senza la zavorra-Schlein potrebbe crescere più velocemente di quanto già sta facendo (dalle Europee a oggi i sondaggi gli dànno circa 3 punti in più).

Però giusto ieri è scoppiato M5S…

Si riferisce alle bizze di Chiara Appendino? Non so se siano dettate dalla volontà di sostituire Conte, completando la femminilizzazione della politica italiana (un tridente Meloni-Schlein-Appendino farebbe dell’Italia l’unico paese europeo che ha espunto i leader maschi dalla politica). Però nel merito mi pare abbia pienamente ragione: il Movimento Cinque Stelle volava quando aveva il coraggio di definirsi “né di destra né di sinistra”, mentre ha cominciato a perdere colpi quando ha scelto di diventare “ora di destra, ora di sinistra”. E dire che avrebbe tutte le possibilità di ritagliarsi uno spazio politico non banale, ad esempio puntando tutte le sue carte sulla domanda di protezione sociale, nella duplice accezione di sostegno ai deboli e di contrasto all’immigrazione irregolare.

Cosa ci fanno i centristi nel campo largo a guida sempre più a sinistra?

Calenda mi pare ormai fuori dal campo largo, il suo ruolo è quello di solitario ed eroico difensore della serietà in politica. Quanto a Renzi (Italia Viva) e Magi (+Europa) mi pare che accodarsi alla sinistra ideologica capeggiata da Elly Schlein sia l’unica carta che hanno in mano per sopravvivere, eleggendo ancora qualche deputato e senatore.

Ma è serio proporre una neofita della politica da sei mesi sindaco di Genova come leader di un campo che unisce otto-dieci anime contro una che fa politica da che aveva quindici anni e ha nell’unità del suo partito e della coalizione uno dei suoi asset?

Non conosco Silvia Salis abbastanza per dire se è all’altezza oppure no. Però il mero fatto che qualcuno pensi di poterla promuovere dall’oggi al domani a leader del campo progressista la dice lunga sulla modestia della classe dirigente di sinistra.

Azzardo: non è che, avanti così, Meloni tra qualche anno rappresenterà sia l’Italia di destra sia quella di sinistra moderata, con una quota importante ma marginale confinata all’estrema sinistra di Conte-Schlein-Fratoianni?

Sì, in effetti la sinistra moderata, che pure esiste, potrebbe un giorno sentirsi meglio rappresentata da Meloni che da Schlein-Conte-Bonelli-Fratoianni. Però manca un passaggio cruciale.

Quale?

L’estinzione della Lega o, più verosimilmente, la rimozione di Salvini e Vannacci come suoi leader. Finché l’immagine della Lega è associata a loro due, è impensabile catturare il consenso degli elettori di sinistra moderati (ma io preferisco chiamarli riformisti: il riformismo vero è radicale, non moderato). Una Lega guidata da Zaia-Fedriga-Giorgetti renderebbe il centro-destra votabile anche da una parte degli elettori di centro-sinistra, tanto più se i partitini che li rappresentano dovessero far parte della coalizione.

Dopo il flop dell’antifascismo, quello su Gaza. Non è che il predominio degli intellettuali d’area confonde le idee ai dem, li priva di punti di riferimento e li fa sbagliare?

Gli intellettuali (e i giornalisti) di sinistra sono la maggiore sciagura cognitiva che si sia mai abbattuta su uno schieramento politico: anziché aiutare a comprendere la realtà, fanno l’impossibile per celarne i lati sgradevoli.

Un libro che consiglia a Elly?

Hillbilly Elegy, del vicepresidente Usa J.D. Vance. La aiuterebbe a capire la vita di chi nasce in basso.

E uno per Giorgia?

Giorgia non ha tempo, e quel poco che riesce a ricavare fa benissimo a dedicarlo alla figlia Ginevra.

[intervista uscita su Libero il 19 ottobre 2025]




Perché la sinistra si fa rappresentare dai VIP? – intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

Dalla piazza di sabato scorso con sul palco solo intellettuali e artisti alla difesa del manifesto di Ventotene su Rai1 da parte di Benigni: perché la sinistra ha delegato la difesa dei propri capisaldi culturali e la rappresentanza delle proprie idee a questi mediatori?

Domanda difficile, perché i fattori sono tanti. Però almeno due ingredienti del cocktail mi sembrano abbastanza evidenti. Primo ingrediente: da almeno 15 anni, ossia dalla lapidazione di Walter Veltroni in poi (2008-2009), la sinistra non è stata più in grado di esprimere leader dotati al tempo stesso di spessore intellettuale e di carisma. Una situazione che il recente ringiovanimento del gruppo dirigente del Pd non ha fatto che aggravare, come del resto ci si poteva aspettare dato il trend delle istituzioni scolastiche. La distanza fra il livello di preparazione culturale e politica dei dirigenti del vecchio PCI e quello degli attuali dirigenti Pd è siderale, per non dire imbarazzante. Senza una cultura ampia, la difesa dei propri “capisaldi culturali” diventa una mission impossible.

E il secondo ingrediente?

Il secondo ingrediente è la eticizzazione del discorso politico, sempre meno ancorato a obiettivi e rivendicazioni concrete, e sempre più volto ad affermare la superiorità morale dei propri valori, come inclusione, accoglienza, diritti delle minoranze sessuali. Ed è ovvio che se la sostanza politica del tuo discorso è basata su imperativi morali piuttosto che su un vero programma politico, economico, sociale, diventa facile, e del tutto naturale, affidare il messaggio allo star system, sfruttando la popolarità dei suoi protagonisti. Un discorso di Benigni, per quanto arruffato (o proprio perché arruffato), impatta mille volte di più che una mitragliata di slogan emessi dalla bocca di Elly Schlein o di Giuseppe Conte.

Quando tutto questo è successo?

Ci sono alcune date significative: il 1992, con l’esplosione di Mani Pulite. Ma anche il 1994-1995, con l’abbandono – a sinistra – del concetto di eguaglianza a favore di quello di inclusione, un processo voluto da Alessandro Pizzorno e vanamente ostacolato da Norberto Bobbio. La fine del primo governo Prodi, nel 1998. E, ultima tappa, la defenestrazione di Veltroni, come ho già ricordato. Però una vera e propria data della svolta non esiste, perché la supplenza dello star system rispetto alla politica è un fenomeno carsico, un fiume che emerge e si inabissa periodicamente quando la politica è sputtanata, o semplicemente non è abbastanza a sinistra, o ancora più basicamente non ci scalda abbastanza il cuore. Allora arrivano artisti, cantanti, attori, scrittori, studiosi, intellettuali, giornalisti-tribuni. Può capitare per un’inchiesta giudiziaria, ma più sovente perché un governo di sinistra non lo è abbastanza.

Ad esempio?

Renzi che vara il Jobs Act, Minniti che fa gli accordi con la Libia, Enrico Letta che preferisce Draghi a Giuseppe Conte.

Nanni Moretti ci teneva a mantenere le distanze, da “questi dirigenti con i quali non vinceremo mai” e dopo lo storico intervento in piazza è tornato al proprio lavoro: oggi il rapporto sembra più osmotico?

Sì, oggi il mondo dell’arte e della cultura interviene quotidianamente perché il governo è di destra, e l’antifascismo – diversamente dai programmi politici veri e propri – è una canzone facile da cantare. Avete mai visto un concertone per il “salario minimo legale” ? Alla fine è una questione di generi letterari, poesia contro prosa. La politica parla in prosa, lo star system – ma anche il pubblico – detesta la prosa, vuole la poesia. Salire sulle navi che salvano i migranti è poesia, sostenere il salario minimo legale è prosa. Detto per inciso, è una delle ragioni della impopolarità di Carlo Calenda, il meno poetico dei nostri politici.

Non è partito tutto con la Rai3 di Angelo Guglielmi, la tv delle ragazze e via discorrendo?

No, secondo me. Quello era un fenomeno diverso. La stagione 1985-2001 ha visto una straordinaria fioritura della satira politica, che non si sostituiva alla politica ma semmai la dileggiava, senza riguardi per nessuno. Sotto la sferza di Arbore, Dandini, Guzzanti, Marcoré cadevano tutti. E cadevano pure i miti della sinistra, sbeffeggiata nelle sue innumerevoli debolezze e nei suoi tic. Nessuno, in quel gruppo, avrebbe mai assunto le posture da guru corrucciati che oggi assumono i vari Saviano e Scurati.

La satira ha perso indipendenza o originalità, per diventare un interprete organico?

Ci sono eccezioni importanti, come Crozza e Checco Zalone, ma in generale la satira mi sembra non all’altezza. Per lo più non fa ridere, e più è politicizzata meno fa ridere. L’idea che possa esistere una “satira di sinistra”, o una “satira di destra”, è già di per sé la negazione della satira.

A sinistra è saltato il concetto di doppia verità, per cui oggi le classi dirigenti dem forzano la realtà, presente e passata, per plasmarla secondo un’unica visione?

Esattamente. I dirigenti del vecchio PCI (anni ’50 e ’60) non credevano a quello che raccontavano alle masse, ed erano perfettamente consapevoli che una cosa è la realtà, un’altra cosa è la propaganda. I dirigenti della sinistra attuale, invece, non conoscendo la pratica della doppia verità, costringono sé stessi a credere vere le cose che dicono. Quindi non dispongono di un’analisi realistica della situazione.

Lo choc di Mani Pulite e la parabola di Silvio Berlusconi hanno un ruolo in tutto questo?

Sì, soprattutto Berlusconi: ha fornito un formidabile bersaglio per le esternazioni delle celebrities, come le chiama Rampini quando rileva gli stessi fenomeni negli Stati Uniti.

Chi conduce il gioco? Benigni che difende Ventotene come Schlein meglio non potrebbe è come se un giornale affidasse al vignettista la propria linea editoriale. Sono saltati gli schemi o c’è un nuovo schema?

C’è il vecchio schema dell’indignazione: mai studiare le carte, mai entrare nei dettagli, sempre scomunicare e demonizzare.

Pare che certi elettori di sinistra preferiscano farsi dire le cose da intellettuali e artisti piuttosto che dai parlamentari che eleggono. È vero?

È così, ma la ragione è la solita: l’elettore progressista ama sentirsi moralmente superiore, e questo stato d’animo glielo procura più facilmente Benigni che Schlein.

Provoco. Non è che nascondendosi dietro gli intellettuali e gli artisti d’area i politici sopperiscono all’assenza di rapporto con l’elettorato, disintermediando così la relazione tra potere e cittadinanza e realizzando il governo delle élite?

Forse, ma è una delle tante conseguenze della riduzione della politica a morale.

Oggi forse il paradigma non è destra contro sinistra ma élite da una parte e cittadini dall’altra e gli intellettuali guidano il popolo per conto delle élite?

In parte è così, ma la destra, almeno in Italia, non ha un establishment intellettuale che la sostiene: destra è diversa anche perché fa politica senza il paracadute delle élite.

Anche negli Stati Uniti i democratici hanno provato a risolvere i loro problemi mobilitando lo star system. Perché è una mossa che non produce mai risultati validi, e perché invece ci si ricorre comunque?

Non direi che non funziona mai. Con Obama lo star system ha funzionato, con Kamala Harris non poteva funzionare perché ogni endorsement di una celebrity confermava l’equazione trumpiana democratici=élite.

[intervista uscita su Libero il 21 marzo 2025]




Intervista di Tommaso Rodano (Il Fatto Quotidiano) a Luca Ricolfi – Il follemente corretto e la sinistra

1. Luca Ricolfi, dopo dieci anni di indagine sul tema ha messo a punto un termine: “follemente corretto”. Cosa intende?
In prima approssimazione si potrebbe direi che il follemente corretto è la “malattia senile” dei politicamente corretto, la sua estrema degenerazione. Ma in realtà una definizione rigorosa è impossibile, perché il vero tratto distintivo del follemente corretto è il suo meccanismo di propagazione, che si fonda sul potere intimidatorio: nell’era dei social tutti possono diventare censori indignati, ma tutti sono, al tempo stesso, potenziali vittime, esposti al rischio di venire lapidati da censori ancora più fanatici.

2. Il suo elenco degli orrori del pensiero “woke” è notevole. Personalmente, sono rimasto impressionato dalla tabella dei nuovi pronomi di genere: “ve”, “xe”, “ze”, ma quali sono gli episodi che l’hanno colpita di più mentre lavorava al libro? 
Difficile fare una graduatoria, anche perché le follie sono molto eterogenee. Ci sono follie che impattano drammaticamente, come l’ammissione dei trans biologicamente maschi nei reparti femminili delle carceri, e follie che fanno semplicemente ridere, come Lufthansa che proibisce ai piloti di dire “gentili signore e signori benvenuti a bordo” perché qualcuno potrebbe non sentirsi né signora né signore.                                                                                                                                                                                       Comunque, come persona che per mestiere scrive e insegna, forse l’episodio che più mi dà da pensare è la pretesa di ripulire l’opera di Roald Dahl, un caso in cui coesistono sia la gravità della cosa (attacco alla libertà di espressione), sia la ridicolaggine (gli interventi effettuati sul testo sono bigotti e demenziali).

3. La sua tesi è che il politicamente corretto sia uno strumento di lotta di classe al contrario: invece di combattere le disuguaglianze, crea nuove élite. Quali?
Ne menzionerei tre: le vestali della Neolingua, ossia l’esercito di comunicatori che, nelle burocrazie, nelle università, nei media, nelle aziende, si occupa di ripulire il linguaggio; le lobby del Bene, ovvero le potentissime organizzazioni, soprattutto LGBT+, che
interferiscono quotidianamente con le attività di aziende e istituzioni; infine quelle che io chiamo le “guardie rosse della diversity” ossia gli staff che, nelle università e nelle aziende, si occupano di “sensibilizzare” dipendenti e opinione pubblica, e di garantire che le politiche siano inclusive, attente alla diversità, eccetera.

4. Sì è parlato tanto di schwa sui giornali, tra gli intellettuali e tra i politici, ma nei fatti non la usa quasi nessuno. E se va al mercato, sarà difficile trovare qualcuno che si ponga il problema del pronome o delle parole da usare con chi appartiene a una minoranza sessuale. Non pensa che la preoccupazione sul politicamente corretto stia diventando a sua volta una paranoia? 
In effetti di certi aspetti del follemente corretto la gente comune se ne infischia, e nessuno la redarguisce o la penalizza per questo. Il problema è che, non appena una persona comune prova a fare capolino in ambienti culturali/intellettuali/politici, la non padronanza del linguaggio corretto tende a diventare fonte di stigma ed emarginazione.
Riguardo a quel che succede nei mercati le do pienamente ragione: sono il posto più libero del pianeta, anche perché di norma i paladini del follemente corretto non ci mettono piede (tutt’al più ci mandano la servitù, eufemisticamente chiamata “personale di
servizio”).

5. Sono peggio le forzature ridicole del “follemente corretto” o quelle speculari, a destra, del politicamente scorretto a tutti i costi? Mi vengono in mente alcuni esempi di successo, da Vannacci alle flatulenze radiofoniche della Zanzara. 
Non so se sono speculari, perché il follemente corretto è per lo più raffinato, anzi fin troppo raffinato, mentre il politicamente scorretto estremo è semplicemente volgare: sono fenomeni diversi, più che opposti. Diciamo che, se devo scegliere, preferisco il follemente corretto, perché almeno fa ridere. Mentre la satira di destra, spesso, non è affatto divertente.

6. Il follemente corretto, scrive lei, è un problema della sinistra italiana. Crede che possa condizionare anche le elezioni americane?
Tantissimo. Sono in molti a ritenere che, nel 2016, Trump abbia vinto le elezioni anche perché una parte della società americana non ne poteva più del politicamente corretto. Adesso la storia rischia di ripetersi: non prendendo le distanze dalle istanze LGBT più estreme, Harris mette a repentaglio l’elezione. Diverse femministe hanno minacciato di votare Trump, o perlomeno di non votare Harris, se la candidata democratica non prenderà esplicitamente le distanze da obbrobri come l’utero in affitto e le terapie precoci di cambio di sesso/genere, basate su ormoni e talora su operazioni chirurgiche.

7. Che ne sarà del “follemente corretto”? É destinato a cambiare i connotati alla società italiana o a sgonfiarsi nel tempo?
Penso che si sgonfierà, ma non è detto. La sinistra potrebbe essere così stupida e autolesionista da continuare a difenderlo. Su alcuni temi, come quello dei pronomi o della schwa, si può anche pensare che, dopotutto, non cambiano la vita delle persone. Ma su altre cose, come l’utero in affitto, o la difesa degli spazi femminili, perseverare nella difesa delle istanze LGBT+ potrebbe rivelarsi un azzardo.




Su sovranisti, sinistra ed elezioni. Intervista a Dino Cofrancesco

Domanda. Sovranisti e popolari insieme, uno scenario possibile per il prossimo parlamento europeo secondo lei?

Non sono un columnist: il teatrino della politica non mi ha mai interessato. Mi considero un osservatore attento del costume politico, degli stili politici, delle ideologie politiche e, pertanto, dichiaro la mia incompetenza per quel che riguarda la possibile composizione del prossimo parlamento europeo. Non credo, tuttavia, che sovranisti (qualsiasi cosa possa significare questo termine) e popolari possano comporre una maggioranza stabile e un’alleanza durevole. Sovranisti e populisti sono particolarmente esposti ai venti delle volubilità popolari e potrebbero esserci inversioni di tendenze, come dimostra il caso spagnolo, a mio avviso molto significativo. Inoltre i popolari rappresentano la vecchia Europa che resta diffidente nei loro confronti.

D. Quali sono le ragioni culturali e politiche che potrebbero portare a un’alleanza di questo tipo? E quali gli ostacoli da superare?

Le ragioni culturali e politiche, facili da individuare, si possono sintetizzare in un anti-, in una contrapposizione all’establishment politico, economico, culturale che può assumere varie volti, a seconda delle diverse storie nazionali, ma che viene percepito come un ceto transnazionale—i Macron, i Monti, i Prodi, gli Junker, i Timmermans—alla cui politica si attribuiscono le difficoltà di ogni tipo in cui versa l’Europa. Gli ostacoli da superare sono tanti. L’anti-establishment può declinarsi in varie forme, da destra a sinistra e i disaccordi possono riguardare valori irrinunciabili che mettono in secondo piano la ‘rivolta contro le élite’.

D. Ma sovranismo è sinonimo di fascismo?

Assolutamente no. E’ l’ora di finirla con questa continua evocazione dell’ombra del Banquo fascista e l’assordante All’armi siamo antifascisti! Il fascismo è quel regime che Renzo de Felice e altri storici ‘revisionisti’ ci hanno descritto e spiegato nelle loro opere e continuare a richiamarsi, contro quanti esaltano il ‘duce’, alle leggi Scelba e Mancino è semplicemente grottesco. Ma soprattutto è inquietante e umiliante: ci dice che lo ‘spirito repubblicano’ non trova di meglio che di contrapporsi a chi da più di settant’anni è scomparso tra le macerie della Seconda guerra mondiale. Ci si definisce non per quello che si è e si progetta ma per quello che si combatte. E più si alzano i toni dello scontro irreale più si rischia di ricalcare le orme assai poco esaltanti di quel vecchio e faziosissimo azionista torinese che chiedeva per i fascisti una ‘notte di S. Bartolomeo’.

D.Perché chi oggi evoca la sovranità è considerato oggi nella migliori delle ipotesi un troglodita?

Siamo un popolo di faziosi e di intolleranti che all’analisi sostituisce l’insulto. La volontà di capire l’altro è una tentazione alla quale si resiste senza difficoltà. Si prenda un quotidiano come ‘Il Foglio’ (e cito un giornale sedicente di area liberaldemocratica): negli editoriali del direttore e dei suoi principali collaboratori non c’è il minimo tentativo di comprendere l’avversario. Solo dileggi, sarcasmi, accuse di ignoranza e di incompetenza, richiami alla scala F di T. W. Adorno. Nessun sospetto che dietro il sovranismo—ovvero, per citare l’Enciclopedia Treccani, la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione» —ci sia un’angoscia epocale ovvero l’azzeramento della dimensione politica e la sua sostituzione con l’economia e col diritto. E’ un azzeramento che viene da lontano se si pensa che nel saggio di Norberto Bobbio, L‘età dei diritti, la politica—gli stati, le nazioni con i loro codici specifici—è del tutto assente. Viviamo in un’epoca in cui i diritti e gli interessi degli individui hanno cancellato tutto e poiché la gente è ritenuta incapace di perseguirli saggiamente, la stessa democrazia liberale entra in crisi, sostituita dal governo dei competenti (Cassese? Calenda? Monti?) che non mette ai voti diritti e interessi. Non ritengo che i sovranisti siano in grado di farci uscire dalle secche in cui si sono arenati i vecchi stati nazionali ma leggere che i Giulio Tremonti, i Paolo Becchi, i Paolo Savona sono ignoranti e irresponsabili mi fa pensare: ma che razza di paese stiamo diventando?

D.Quali sono i rapporti tra sovranità e globalizzazione?

Sulla base di quanto ho detto, la risposta è ovvia. La globalizzazione è planetarizzazione dell’economia (il mercato mondiale) e del diritto (i diritti universali degli individui uti singuli indipendentemente dalla loro cittadinanza) e questo comporta sconvolgimenti epocali, sul piano sociale e culturale, ai quali si reagisce con la chiusura comunitaria, col ‘nazionalismo’. Si può dissentire dal modo con cui ci si difende ma solo un cervello eterodiretto dal buonismo universalista (cattolico e laico) può pensare che non c’è nulla da cui ci si debba difendere…e che ci si debba guardare dall’’odio’.(v. l’infelice slogan elettorale di Nicola Zingaretti).

D.Il concetto di nazione è appannaggio esclusivo della destra? E oggi dunque della Lega?

Non parlerei di ‘nazione’—concetto sfuggente e ambiguo quant’altri mai— ma di ‘stato nazionale’, quale è stato messo a fuoco da Pierre Manent e, prima di lui, dal suo maestro Raymond Aron, forse la più alta coscienza etico-politica del secondo dopoguerra europeo. Lo stato nazionale volle essere l’arena istituzionale in cui si potessero tutelare efficacemente i diritti individuali, praticare la solidarietà nei confronti dei ‘fratelli’ più deboli e rimasti indietro, far fluire le correnti impetuose dell’economia tra le sponde sicure dello stato di diritto. In passato la Lega non è mai stata sensibile alla filosofia dello stato nazionale, ha inteso le nazioni come entità naturali, ha stigmatizzato il centralismo soffocatore della vita dei popoli, ha contrapposto all’edificio unitario sabaudo le nazionalità naturali (da Gianfranco Miglio a Paolo Becchi) ha affermato con vigore il diritto di secessione. La Lega inalbera ora quel tricolore sul quale Bossi sputava, meglio così. Se lo stato nazionale è il trait-d’union tra l’universo e la tribù, come dice Manent, neppure la destra tradizionale può rivendicarne l’eredità, giacché del binomio ‘universo/tribù’ salvaguarda solo la tribù. D’altra parte, la sinistra da noi non si è mai nazionalizzata veramente e il Sessantotto ha contribuito in maniera definitiva alla snazionalizzazione delle masse, come ho cercato di dimostrare nel fascicolo di Paradoxa dedicato ali ‘anni formidabili’.

D.Nazione, sicurezza, immigrati…i temi chiave della Lega. Perché oggi sono ancora vincenti in Italia nei sondaggi?

Sono vincenti et pour cause ovvero per le cause messe così bene in luce da Luca Ricolfi. Da parte mia aggiungo: siamo un’economia in recessione, con l’indice di produttività più basso d’Europa, il nostro welfare state è al collasso, il lavoro manca. ’Facciamo entrare tutti?’va bene ma siamo disposti a rinunciare a una parte del nostro reddito per assicurare ai migranti condizioni di vita decenti?. Mi ha colpito molto quanto ha dichiarato Luca Ricolfi, nell’intervista ad Anna Chirico: «Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

D.Quali errori ha compiuto la sinistra su questo fronte?

Il vecchio PCI, come previde genialmente Augusto Del Noce, è diventato un ‘partico radicale di massa’, ha convertito i desideri individuali in diritti, ha parlato, con ministri come Graziano Del Rio e Pier Carlo Padoan la lingua dell’establishment, ha frequentato più gli ambienti confindustriali che i quartieri operai. Una sproletarizzazione che non sta pagando troppo cara giacché seguita a occupare tutti i bastioni dell’apparato statale con uomini di fiducia e mantiene saldamente nelle sue mani il potere culturale (che la destra ha sempre trascurato e snobbato).

D.Il capo politico dei 5Stelle Di Maio sta provando, a partire dal richiamo ai valori della resistenza il 25 aprile, ad annoverarsi come l’unica alternativa di sinistra, in opposizione alla Lega con cui governa. Ci sta riuscendo secondo lei nel rapporto con il Pd?

L’antifascismo di Di Maio non ha nessuna credibilità, è mero opportunismo che nasce dalla volontà di posizionarsi più a sinistra di Salvini per sottrarre voti a Zingaretti. Non va trascurato, tuttavia, il fatto che almeno la metà degli elettori M5S viene da sinistra (e talora dalla sinistra estrema). Per Alessandro Di Battista e Roberto Fico, ad esempio, l’antifascismo non è solo retorica.

D.Il Pd è stato sorpassato a sinistra anche sulla vicenda Siri. Come si sta muovendo secondo lei il segretario Zingaretti?

La vicenda Siri è emblematica. In un paese normale, il solo sospetto sulla propria condotta dovrebbe indurre un membro del governo a dimettersi. In Italia, con la magistratura che ci ritroviamo, dimettersi può significare dare un addio alla vita politica. E’ ipocrita dire: «Dimostra in tribunale la tua innocenza, poi ti riprendiamo» giacché passerà tanto di quel tempo tra processo e sentenza che non ci sarà più nessun consiglio di ministri in cui rientrare. In questa vicenda Zingaretti non si mostra né giustizialista né garantista: è come se avesse impresso sulla fronte il marchio del perdente.

D.Mancano venti giorni al voto. Che giudizio dà della campagna elettorale dei competitors in campo?

Un giudizio sconsolato. Specialmente se guardo alla sinistra e ai suoi giornali—dal ‘Foglio’ a ’Repubblica’. Quando il voto è richiesto per fronteggiare un ‘pericolo mortale’ e non per sostenere un programma politico, siamo proprio alla frutta. I grandi protagonisti della politica europei e americani seducevano gli elettori attorno con progetti ambiziosi, a sinistra (Kennedy, Johnson, Blaire etc.) e a destra (de Gaulle, Thatcher etc.). Oggi si chiama a raccolta al grido di ‘no pasaran! ’ contro le camice verdi di Salvini! Come davvero siamo caduti in basso!

Intervista a cura di Alessandra Riccardi, pubblicata su Italia Oggi l’8 maggio 2019



In attesa di nuovi leader. Intervista a Luca Ricolfi

L’idea dell’accoglienza, evocata dal Papa, è un’idea molto cristiana ma non è di sinistra. Il giorno dopo sentire risuonare queste parole da un sociologo di sinistra come lei può impressionare. Può spiegare meglio che cosa intende?

Il papa e l’ONU possono permettersi il lusso di rivolgersi all’umanità intera, come se vivessimo sotto un unico super-regime mondiale, più o meno orwelliano. Invece i governanti, finché ci sono gli Stati nazionali, hanno il dovere di difendere i propri cittadini, da cui sono stati eletti. Se poi sono di sinistra hanno anche il dovere di occuparsi degli ultimi, ovvero operai, disoccupati, precari, esclusi, svantaggiati, eccetera. Se non lo fanno, e tendono a sostituirsi al Papa e all’ONU in nome del dovere dell’accoglienza di cittadini provenienti da altri Stati, vengono puniti dai loro elettori. Il governo gialloverde non è una meteora piombata sulla politica italiana dal cielo, ma la logica conseguenza della rinuncia dell’establishment progressista ad occuparsi degli ultimi.

Ministri fuori dai ministeri, politici fuori dalle Camere e presentissimi sui social network e in tv. È una degenerazione senza via di uscita o un mutamento dell’idea di rappresentanza?

Come mutamento dell’idea di rappresentanza mi pare poco riuscito, almeno nel caso dei Cinque Stelle: il 98% dei votanti per i Cinque Stelle non è iscritto alla piattaforma Rousseau.

E chi ci governa davvero dal momento che chi dovrebbe farlo è impegnato a comunicare ciò che non ha più il tempo di fare?

In realtà il tempo per il “fare” lo trovano. Solo che è un fare demoralizzante: nomine, spartizioni, lottizzazioni, regole cucite su misura di lobby varie (taxisti, per esempio) e di segmenti elettorali più o meno di nicchia. Tutto per acchiappare consenso, non certo per affrontare i problemi del paese…

È trascorso un anno dal 4 marzo 2018, il voto che anche a suo dire ha modificato e anzi ‘sconquassato’ le modalità della lotta politica. Sì è solo imbarbarita o è una mutazione genetica più profonda? E si può tornare indietro?

La mutazione riguarda la società italiana, prima ancora della politica. Quindi suppongo che non si possa tornare indietro. A meno che per ‘tornare indietro’ si intenda un ritorno della sinistra al governo, evento invece perfettamente possibile.

La ricchezza del Paese in quest’anno è sensibilmente diminuita. Gli ultimi dati parlano però di un bilancio degli operatori finanziari tornato positivo. Vuol dire che si allarga la forbice tra chi perde e chi guadagna? O si può intravedere qualche segnale di ottimismo?

Contrariamente a quanto dicono le opposizioni, non è vero che – sul piano economico – tutto va male da quando c’è il governo Conte: va male quasi tutto, non tutto. Fra le cose che non vanno male c’è l’occupazione (che è stabile da qualche trimestre) e la ricchezza finanziaria, che è minore di com’era il 4 marzo dell’anno scorso, ma maggiore (per un ammontare di 21 miliardi) di com’era a fine maggio, quando si è insediato il governo giallo-verde.

La cosa interessante è che il colpo più micidiale alla ricchezza finanziaria del sistema-Italia non l’ha dato la polemica sull’Europa (quelle perdite virtuali sono già state riassorbite) ma il trimestre di incertezza nella formazione del governo, culminato con l’azzardo Cottarelli (per i dettagli: fondazionehume.it).

L’assistenzialismo del reddito di cittadinanza, è una delle sue tesi più note, sta creando cittadini assistiti più ricchi dei lavoratori cosiddetti atipici o forse sarebbe meglio dire sottopagati. Teme che questa contraddizione deflagri in uno scontro sociale?

Più che temerlo, me lo auguro, naturalmente a condizione che il conflitto resti pacifico. Chi come me è contro i privilegi e le diseguaglianze ingiustificate non può veder bene l’emergere di una frattura sociale, quella che separerà chi guadagna sudando e chi nullafacendo.

La Lega sembra aver capitalizzato la fiducia degli italiani nonostante sulla sicurezza non sembrano essere stati fatti passi avanti. Al contrario, i casi di cronaca nera sono sempre più paurosi. E non si intravedono nuove politiche sull’immigrazione. Come se lo spiega?

La gente non era arrabbiata perché criminalità e immigrazione dilagano, ma perché il precedente governo negava l’esistenza del problema. E’ possibile che prima o poi anche a Salvini venga chiesto il conto, ma si dimentica troppo spesso una cosa: per mettere in crisi Salvini bisognerebbe strillare che la criminalità e gli ingressi irregolari sono in aumento, e questa è precisamente la cosa che i media progressisti sono propensi a non fare, sia quando l’allarme è giustificato sia quando non lo è. Fossi Salvini dormirei ancora per un po’ fra due guanciali (però non metterei l’immagine su internet).

Rispetto al Contratto, che pure è stato già un grave vulnus nel modo di vedere la rappresentanza nella nostra Repubblica, che cosa può dire che è stato attuato e che cosa no? Vede promesse mantenute?

Sì, ne vedo, anche se in modo alquanto parziale: reddito di cittadinanza al 30%, Fornero e quota 100 al 25%, flat tax al 2%.

Come si esce da quello che lei ha definito il trash della politica? In questa mediatizzazione che scavalca i contenuti pensa che l’elezione di Zingaretti sia una delle conseguenze dell’effetto Montalbano?

No, penso sia una conseguenza della disciplina del popolo di sinistra.

Una domanda da profeta più che da studioso: si attende la nascita di nuovi leader?

Sì, mi attendo che qualcuno ci provi.

In quale area esiste il vuoto da cui può nascere un Macron o un De Gasperi?

L’area in cui può nascere qualcosa di nuovo è una sola: è l’area degli smarriti.

E cioè?

Gente semplice, che non frequenta i salotti, ma viene disprezzata perché non urla e conserva un po’ di educazione.

Intervista a cura di Sabrina Cottone pubblicata su Il Giornale de 5 marzo 2019