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Disegno di legge sul femminicidio – Più o meno padre?

3 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Il disegno di legge sul femminicidio torna a far parlare di sé, come già era successo qualche mese fa, al momento del suo annuncio. Con una novità: il ritorno di argomenti paleo-sessantottini contro l’uso del diritto penale come mezzo di contrasto di determinati delitti. Il ragionamento è sempre lo stesso: il fenomeno (in questo caso il femminicidio) è complesso, le sue cause sono sociali e culturali, le misure repressive sono inefficaci, dobbiamo prevenire, non reprimere (su questa linea, in particolare, si sono mosse un’ottantina di giuriste che hanno proclamato la loro contrarietà al disegno di legge).

Si tratta di un fatto nuovo perché, al momento della presentazione, il testo di legge aveva invece goduto di un sostegno bipartisan. L’8 marzo, a un convegno femminista cui ero stato invitato, mi era accaduto di ascoltare non pochi interventi a favore delle nuove norme (che non riguardano solo l’introduzione del reato di femminicidio) anche da parte progressista. Più in generale, la maggior parte delle critiche inizialmente formulate erano state di natura tecnica (difficoltà di stabilire quando una donna viene uccisa “in quanto donna”) o di tipo costruttivo (mancanza di risorse economiche adeguate). Ora non più. Forse per la concomitanza con il disegno di legge sicurezza, i toni si vanno facendo sempre più aspri. Il disegno di legge sul femminicidio, che peraltro – oltre alla definizione del nuovo reato – contiene numerose norme di contrasto alla violenza di genere, viene attaccato in quanto repressivo e perciò stesso inefficace. Nell’appello delle giuriste, ad esempio, con considerevole spregio delle regole delle scienze sociali, si afferma apoditticamente che “osservando la realtà, si può constatare come qualsiasi intervento repressivo svincolato da azioni di perequazione sociale ed economica e da strategie di prevenzione, di tipo innanzitutto culturale, risulti del tutto inefficace”. E da più parti si torna ad ascoltare il mantra dell’educazione sessuale/sentimentale nelle scuole, vista come via maestra per sradicare il patriarcato. Una strada che piace alla sinistra, ma non convince la destra, timorosa che i corsi di educazione sessuale/sentimentale si trasformino in strumenti di propaganda della cosiddetta “teoria gender” e dei diritti LGBTQ+.

Al di là delle polemiche di questi giorni, la realtà è che sulle radici dei femminicidi, e quindi sui mezzi per combatterli, vi sono idee di fondo molto diverse, e non sempre riducibili alla contrapposizione fra progressisti e conservatori. Per alcuni la radice del male è il carattere patriarcale della nostra società, e il canale di trasmissione è soprattutto l’educazione, o meglio la mancanza di educazione all’affettività e al rispetto. Di qui l’idea che, essendo impossibile imporre modelli educativi alle famiglie, sia innanzitutto la scuola che debba farsi carico del problema, fin dal ciclo primario. Dietro ogni femminicidio, vi sarebbe un maschio cui non è stato insegnato il rispetto della donna, della sua autonomia, libertà e dignità.

Per altri, invece, le cose stanno un po’ diversamente. Una parte dei femminicidi sarebbero quasi ineliminabili, in quanto riconducibili a condizioni psichiatriche o drammi esistenziali dei loro autori. Mentre la quota maggiore sarebbe frutto di autori apparentemente “normalissimi”, accomunati dalla incapacità di accettare un rifiuto oi sopportare le “pretese” di indipendenza della partner. Di qui l’idea che il punto cruciale non sia l’insegnamento del rispetto, bensì la capacità degli adulti (genitori e insegnanti innanzitutto) di comportarsi da adulti, esercitando l’autorità che il loro ruolo educativo comporta. Perché il problema del maschio che uccide la donna che dice di amare è che non è stato abituato a ricevere dei no, a rispettare dei limiti, ad accettare rinunce, a differire la gratificazione.

Anche se a prima vista possono sembrare due prospettive simili, o quantomeno compatibili, si tratta in realtà di due modi di vedere le cose opposti. Per gli uni il problema è che la nostra società, nonostante mezzo secolo di lotte e di conquiste delle donne, resta una società maschilista (ingenuamente e impropriamente definita patriarcale), per gli altri il problema è l’evaporazione della “funzione paterna”, espressione con la quale psicanalisti e psicologi sociali intendono l’esercizio dell’autorità e l’insegnamento del desiderio, lacanianamente incompatibile con il godimento immediato. Insomma: per i primi nella società c’è troppo padre, per i secondi ce n’è troppo poco.

Di qui la diversità di prescrizioni: per gli uni solo la scuola, con i corsi di educazione sentimentale, può sperare di raddrizzare il legno storto del maschilismo; per gli altri il compito della scuola è semmai di tornare a essere una cosa seria, e quello dei genitori di tornare a fare i genitori, anziché – come troppo spesso accade – i sindacalisti dei figli.

Chi ha ragione?

Sfortunatamente non vi sono abbastanza dati per confermare o confutare le due teorie, anche se qualche indizio empirico esiste. Ma è importante che dell’esistenza di queste due linee di pensiero si prenda atto, e sulle radici culturali del femminicidio si avvii una riflessione di ampio raggio, aperta e senza pregiudizi. Perché la posta in gioco è alta: se davvero vogliamo battere questo obbrobrio, dobbiamo capire qual è la strada che può dare più frutti.

[articolo uscito sul Messaggero il 31 maggio 2025]

Schiaffi, Sexting e libertà

28 Febbraio 2024 - di Paola Mastrocola

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Notizia. Il Tribunale assolve la madre che, nel 2016, aveva schiaffeggiato la figlia dodicenne che su Instagram aveva mandato foto osé a un diciannovenne.

Mi stupisce che una madre, otto anni fa, tirasse ancora schiaffi ai figli. Mi stupisce che si finisca in tribunale per aver tirato uno schiaffo ai figli. E mi stupisce che il giudice abbia oggi dato ragione alla madre.

  Non si fa più da anni di educare a suon di schiaffi. La sberla è stata abolita nell’uso comune familiare, rimpiazzata dalla lezioncina morale e dalla contrattazione eterna. La parola, il dialogo hanno vinto. Ti spiego perché hai sbagliato, voglio che tu capisca, non farlo più e chiudiamola qui. Oppure: tu figlio vuoi uscire, io ti dico di no, ti spiego perché, e poi accetto che tu esca a patto che mangi la minestra, studi storia, o altro.

Non so se sia un bene o un male. Dico solo che mi è capitato spesso di assistere a queste negoziazioni, e le ho trovate ogni volta estenuanti, e molto imbarazzanti per il genitore, il quale 99 volte su 100 finisce per capitolare acconsentendo all’iniziale richiesta del figlio: eh, mi prende sempre per sfinimento, dice il genitore. Lo schiaffo era più breve, certamente. Diretto, non ambiguo, e decisamente spiccio. Ma abbiamo deciso che appartiene all’era troglodita di quando c’era l’autorità, e pronunciare quella parola non era un delitto.

E ora invece che succede? I giudici danno ragione alla madre schiaffeggiante e non alla figlia schiaffeggiata. Dicono che esiste un “potere/dovere di educazione e correzione dei figli”. Certo, forse “ha ecceduto nell’impiego della forza per redarguire la figlia”, ma trattasi in ogni caso di episodio penalmente irrilevante. Insomma, i giudici ammettono lo “schiaffo educativo”, per così dire. Bene. Pendiamo atto. Lo schiaffo, così assolto, potrebbe tornare utile a quei genitori che, di fronte alla bocciatura del figlio, fanno ricorso al Tar o accoltellano l’insegnante: da oggi in poi potranno decidere di dare uno scappellotto al figlio che non ha studiato. Naturalmente non saranno esenti dalla giudicante e severissima comunità dei social.

Il punto però è che una ragazzina di dodici anni mandi in giro messaggi e foto osé a un diciannovenne. Non so se si possa, oggi, fermare una ragazzina e impedirle di usare i social per mandare foto osé. E non so se lo schiaffo sia il modo migliore, ma penso che la ragazzina andasse comunque fermata. Per due motivi. Uno riguarda la libertà e l’altro la questione femminile. Entrambe mi stanno parecchio a cuore.

Ricordo il suicidio di Tiziana Cantone, che fece molto scalpore. S’impiccò il 13 settembre 2016, a 33 anni. Aveva inviato dei filmati sui suoi rapporti sessuali a conoscenti che poi li avevano divulgati, e tentò invano di far rimuovere i video hard, invocando il diritto all’oblio. Ricordo che molti, dolendosi dell’accaduto, difesero comunque la pratica del sexting come gesto di libertà sessuale, dissero che filmarsi o fotografarsi in intimità e poi mandarsi video era assolutamente normale, e che solo una mentalità bigotta e bacchettona poteva condannare comportamenti come quello di Tiziana. Ricordo che pensai allora quel che penso adesso: una cosa è la libertà, un’altra è la prudenza. Prudenza come perfezionamento (e non riduzione!) della libertà. Vorrebbe dire non essere così arroganti e prepotenti da esigere una libertà assoluta e illimitata. Riconoscere che esiste il male ed esiste il caso, e che il mondo ideale purtroppo è solo un’utopia. Abbiamo tutto il diritto di passare sulle strisce pedonali senza guardare l’auto che arriva (va rieducato l’automobilista, non il pedone?), ma poiché esiste l’automobilista distratto e l’imprevisto, potrei ritenermi libero di passare sulle strisce ma al contempo essere prudente. Allo stesso modo, i social non sono il mondo ideale. Esiste il revenge porn, per esempio…

Questione femminile. Facciamo tanto oggi (e tanto abbiamo fatto ieri!) per combattere il potere maschile maschilista che ci riduce a meri oggetti sessuali, e poi noi donne, noi ragazzine, non troviamo di meglio che usare i social per gareggiare a chi si mostra più bella e più sexy, riproponendo noi stesse l’immagine della femmina preda del maschio? È questa la libertà che vogliamo?

Infine ci sarebbe la questione del pudore. Ma inutile parlarne. Parola sparita. Sentimento archiviato. Il pudore è démodé, e molto reazionario.

Mettiamoli in castigo

1 Maggio 2018 - di Paola Mastrocola

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Scenetta n. 1

Siamo in un bar molto elegante, un caffè storico nel centro di una grande città. Divanetti e poltroncine di velluto, boiserie, quadri ottocenteschi, specchi, tappeti, e gran carrelli di dolci e salati. Camerieri in livrea. Le cinque del pomeriggio.

Entra una giovane coppia con bambino, sui quattro anni. Molto carino, riccioli biondi, camicia a quadri, jeans. Si siedono a un tavolino, sorridenti. Loro, si siedono, i genitori. Il bambino no. Il bambino si allunga, si sdraia, si divincola, si contorce, sul divanetto e poi per terra, dove comincia a strisciare, va sotto le sedie, ne esce, si mette a correre tra i carrelli, urla, saltella, sbraita. Mamma e papà si alzano a turno, cercando di riprenderlo, domarlo, acquietarlo. Alla fine, in due, lo riportano al tavolino, ma non riescono a farlo sedere. Il bambino ricomincia a sdraiarsi, strisciarsi, scivolarsi…   Leggi di più

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