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Variante delta, qualcosa è cambiato

22 Giugno 2021 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Premetto che posso sbagliarmi, e che il futuro potrebbe rivelarsi – speriamo – più roseo di come io l’immagino. Però penso che non sia opportuno nascondere, o minimizzare, alcuni dati che stanno emergendo negli ultimi tempi riguardo all’andamento dell’epidemia.

Comincio da quel che sta accadendo nel Regno Unito, ossia nel paese europeo più avanti con la vaccinazione. Ebbene, passata l’euforia da riaperture del mese di aprile, da qualche settimana le autorità sono preoccupate perché tutti i principali indicatori dell’andamento dell’epidemia sono in risalita. Negli ultimi 15 giorni sono cresciuti il numero di morti, gli ingressi in terapia intensiva, le ospedalizzazioni, il numero di nuovi casi, il quoziente di positività, nonché il valore di Rt (quest’ultimo abbondantemente sopra 1 da oltre un mese). In breve: a dispetto della campagna di vaccinazione più avanzata del continente europeo, e nonostante il favore della stagione (sole + vita all’aperto), l’epidemia sta rialzando la testa.

Perché?

Difficile attribuire la responsabilità alle timide riaperture di maggio, o alla indisciplina degli inglesi, non certo superiore a quella degli italiani. Secondo la maggior parte degli osservatori, la causa del riaccendersi del contagio è la cosiddetta variante indiana (ora ribattezzata delta, per non offendere gli indiani: ci mancava pure il “vaccinalmente corretto”…), che nel Regno Unito nel giro di pochissimi mesi è diventata largamente dominante (98%). La sua velocità di trasmissione è circa il 60% maggiore di quella della variante inglese, cha a sua volta era del 50% più veloce di quelle dominanti durante il primo lockdown. Alla diffusione della variante ha certamente contribuito il ritardo con cui il governo inglese ha limitato gli ingressi dall’India, e probabilmente anche la scelta (imitata dalle autorità sanitarie italiane) di allungare il tempo fra una dose e l’altra, allo scopo di ampliare la platea dei vaccinati almeno con una dose, senza valutare adeguatamente che il fatto che la protezione assicurata dalla prima dose è sensibilmente inferiore a quella delle due dosi.

Che la variante indiana c’entri con la ripresa dell’epidemia è confermato da quel che sta succedendo in Portogallo, un paese che aveva gestito benissimo l’epidemia a inizio anno, ma che nel giro di pochi mesi è divenuto il secondo paese europeo (dopo il Regno Unito) per diffusione della variante delta (96%). Ebbene in Portogallo, dopo una discesa spettacolare di tutti gli indicatori fra febbraio a maggio, da una decina di giorni la tendenza si è invertita, e quasi tutti sono di nuovo in aumento.

E in Italia?

Da qualche tempo le autorità sanitarie provano a rassicurarci ripetendo che, qui da noi, la variante indiana è marginale (sotto l’1%), e non desta quindi particolari preoccupazioni. Peccato che i dati usati siano un po’ vecchiotti, e che giusto in questi giorni un’analisi del database Gisaid condotta dal Financial Times riveli che la penetrazione della variante indiana nel nostro paese è del 26%, in base all’ultimo aggiornamento dei dati. In concreto questo significa che la sua velocità di diffusione è altissima (meno di due settimane fa la variante delta era ferma al 2.8%), e che nel giro di un mese o due potremmo trovarci in una situazione simile a quella di Regno Unito e Portogallo, con una curva epidemica che tende a risalire nonostante la campagna vaccinale e il caldo. Il che significa: nuovo aumento dei casi, degli ospedalizzati, dei morti, eccetera.

A quanto pare anche una campagna di vaccinazione molto avanzata come quella del Regno Unito non basta a frenare l’avanzata della variante indiana. Ciò peraltro non deve stupire, per (almeno) tre motivi. Primo, anche nel Regno Unito, e a maggior ragione in Italia, una frazione considerevole della popolazione non è vaccinata, o è vaccinata con una sola dose. Secondo, la variante indiana pare più capace di eludere i vaccini. Terzo, le analisi più recenti condotte dalle autorità sanitarie inglesi suggeriscono che chi è vaccinato con una sola dose conservi una elevata capacità di tramettere il virus ad altri, sia con AstraZeneca, sia con Pfizer (per i vaccinati con due dosi non si sa, perché non ci sono abbastanza dati).

Se proiettiamo queste tendenze nel periodo medio-lungo, uno degli scenari che non possiamo escludere è lo scenario del tipo “quasi tutti si infettano – quasi nessuno muore”: la vaccinazione di massa riesce ad abbattere la letalità dell’infezione, ma  non basta a fermare la circolazione del virus. Uno scenario che a molti può apparire rassicurante, ma lo sarebbe davvero solo se fossimo certi che non emergeranno varianti più letali di quelle attuali, e la ricerca medica ci assicurasse che, per i vaccinati, l’infezione non solo non conduce alla morte, ma non lascia danni seri e durevoli a chi si è infettato.

Che dire, in conclusione?

Forse, semplicemente che stiamo ripetendo esattamente gli errori di un anno fa, quando la maggior parte dei paesi occidentali, per rilanciare l’economia, scelsero di assecondare il turismo internazionale, che è benzina sul fuoco di una pandemia.

Oggi quell’errore, ai nostri governanti ma anche a noi comuni cittadini, non appare più tale “perché questa volta abbiamo i vaccini”. Io penso invece che stiamo facendo male i nostri calcoli. Perché è vero che i vaccini abbattono sensibilmente il rischio di ospedalizzazione e di morte per una frazione della popolazione (quella dei pienamente vaccinati), ma è altrettanto vero che i pienamente vaccinati sono solo 1 su 4, e la trasmissibilità del virus è enormemente aumentata rispetto a un anno fa. E’ come se un antico cavaliere pensasse di poter battere l’avversario perché, ora, dispone finalmente di una robusta armatura di ferro, e non si accorgesse che l’avversario non combatte più con la spada, ma con una moderna mitragliatrice.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 giugno 2021

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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