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Quel che si sapeva ai tempi di Nembro e Alzano. Testi di Andrea Crisanti e Luca Ricolfi

13 Giugno 2020 - di Fondazione David Hume

In primo pianoSocietà

Le famiglie delle vittime del Coronavirus chiedono giustamente come mai, nella prima settimana di marzo, dopo aver predisposto tutto per la chiusura, la politica decise di non istituire una “zona rossa” a Nembro e Alzano.
Erano i giorni in cui la pressione per la “ripartenza” era molto forte, sia da parte delle forze economiche sia da parte delle forze politiche (il 27 febbraio Zingaretti celebrava la riapertura con il famoso “aperitivo” a Milano).
In quei giorni, tuttavia, alcuni quotidiani e il sito della Fondazione Hume non esitarono a dare voce a quanti avevano capito la gravità della situazione.
Riteniamo di fare cosa utile ripubblicando, senza commento, alcune analisi e interviste di Andrea Crisanti e Luca Ricolfi apparse fra la fine di febbraio e i primissimi giorni di marzo.

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“Sarà un’altra Spagnola”

24 febbraio 2020 – intervista di Francesca Angeli a Andrea Crisanti

Il professor Andrea Crisanti è furioso. È appena arrivato a Melbourne in Australia per seguire un congresso dopo ore e ore di volo che si sta preparando ad affrontare di nuovo per essere in Italia domani mattina in laboratorio.
Crisanti è professore ordinario di Microbiologia e virologia all’Università di Padova ma soprattutto è responsabile del laboratorio dell’Ospedale di Padova, centro di riferimento regionale per i test di individuazione del coronavirus. È proprio nel suo laboratorio che è stato messo a punto all’inizio di febbraio il test europeo per la diagnosi del 2019-nCoV. Un test che permette di individuare il coronavirus in meno di tre ore. Il professor Crisanti è furioso perché quello che sta accadendo si poteva evitare se, come da lui richiesto, si fosse partiti subito con i test per tutte le persone in arrivo dalla Cina. «La politica ha preso decisioni sbagliate legate a motivazioni che non hanno nulla a che fare con la scienza».

Quali decisioni?
«Ritenevo necessario eseguire da subito i test per chi arrivava dalle zone a rischio, cinesi e no. Ma il direttore generale della sanità del Veneto, Domenico Mantoan, mi ha bloccato. Mi ha intimato in una lettera di spiegare sulla base di quali indicazioni ministeriali, o internazionali, si sia ipotizzata tale scelta di sanità pubblica minacciando di denunciarmi per danno erariale».

In Veneto è caccia al paziente che per primo ha portato il virus in quell’area.
«Inutile. Oramai l’opportunità di fermare l’ingresso del coronavirus in Italia è stata persa e a questo punto non ha senso cercare il paziente zero: sono troppi i contagiati. Ora si deve contenere la propagazione con misure draconiane».

Ma perché tanta preoccupazione rispetto al Covid-19? Alcuni medici parlano di allarme esagerato. Il coronavirus in questione ha una bassa letalità simile all’influenza stagionale.
«Questo coronavirus è altamente infettivo. Una sola persona ne contagia almeno altre 4, forse pure 5. Per altri virus è inferiore: uno al massimo due. La rassicurazione rispetto alla mortalità bassa è un’altra di quelle osservazioni che mi fanno infuriare. La mortalità è la stessa dell’influenza spagnola del 1918 che ha fatto milioni di vittime. Se si ammalano tante persone quel 2,5 per cento corrisponderà a un numero altissimo di morti».

Quali misure prenderebbe immediatamente?
«La politica deve tacere ed ascoltare quello che dicono gli scienziati. Prima di tutto occorre tutelare i medici che sono in prima linea per combattere il virus. Non dobbiamo permettere che accada qui quello che è successo in Cina. Se cade la prima linea poi chi interviene? Per tutelare i medici occorre fornire loro tutti i presidi necessari all’isolamento in modo che non si contagino. Tutti i sanitari impegnati nel contrastare il coronavirus, medici e infermieri, devono essere sottoposti a test ogni 2 al massimo 3 giorni per verificare che non siano stati contagiati. Dobbiamo impedire che si ammalino. Se cade la prima linea sanitaria siamo nei guai».

Sono sufficienti le misure di contenimento prese dalle regioni?
«Per contenere certo chiudere, isolare, va bene. Ma occorre pure tutelare chi è dentro la quarantena. Altrimenti si creano soltanto incubatori di coronavirus come ha dimostrato il caso della Diamond Princess. Non possiamo isolare le persone e lasciarle lì, come hanno fatto in Cina. Che facciamo, i lazzaretti come nel ‘300? Una volta circoscritta l’area a rischio si devono eseguire visite periodiche da parte di medici attrezzati che casa per casa devono verificare lo stato di salute delle persone. Mi chiedo però se abbiamo risorse per farlo. Il sistema di emergenza si satura rapidamente. Un conto è curare due persone in terapia intensiva come hanno fatto allo Spallanzani. Se il numero sale il sistema rischia il collasso. In rianimazione i posti letto non sono infiniti».

Intervista a cura di Francesca Angeli pubblicata su Il Giornale del 24 febbraio 2020

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Coronavirus, fermare la catastrofe

2 Marzo 2020 – di Luca Ricolfi

Posso sbagliarmi, lo voglio dire subito. Anzi, spero di sbagliarmi, e che domani – retrospettivamente – tutto quel che sto per dire possa apparirmi esagerato, o fuori bersaglio.
Però non me la sento di non raccontare la situazione come si presenta ai miei occhi di osservatore e di studioso di Analisi dei dati.

1. Il pericolo che l’Italia sta affrontando è molto più grave di come ci viene raccontato. L’epidemia di coronavirus somiglia alla classica influenza stagionale per quanto riguarda la capacità di diffondersi (il che è una pessima notizia: l’influenza raggiunge ogni anno circa 8 milioni di persone), ma è enormemente più letale (3 morti ogni 100 contagiati). Anche considerando come morte per influenza tutte le persone che ogni anno muoiono per complicanze ad essa connesse, il rischio di morte è di 1 caso su 1000, mentre nel caso del coronavirus è di 30 casi su 1000, ossia 30 volte superiore.
In concreto significa questo: se non riusciamo a fermare l’epidemia di coronavirus, e i pazienti contagiati diventano quanti quelli della comune influenza, i morti potrebbero essere dell’ordine di 2-300 mila. Non voglio nemmeno immaginare quel che succederebbe se, come alcuni esperti considerano possibile, l’epidemia di coronavirus raggiungesse una % di contagiati vicina al 100% della popolazione.

2. I dati finora disponibili non sono sufficienti per prevedere la traiettoria del contagio, tuttavia si possono fare alcuni esercizi di simulazione. I risultati dicono che, se la velocità di diffusione dovesse restare analoga a quella attuale, o dovesse ridursi in modo marginale, già a Pasqua (12 aprile) i contagiati potrebbero essere parecchi milioni.
E’ comprensibile che le autorità si ingegnino a sostenere che questa velocità si deve al trauma eccezionale di Codogno-Vo’ (18-20 febbraio), e al fatto che le misure restrittive adottate negli ultimi 10 giorni non hanno ancora avuto il tempo di esercitare i loro effetti. Ma si devono fare tre osservazioni:
a) la velocità del contagio nelle zone del centro-sud è analoga, se non superiore, a quella del nord;
b) il tasso di crescita del numero di contagiati non solo non sta dando segni di rallentamento, ma nella giornata di domenica 1° marzo ha subito una violentissima accelerazione (645 nuovi casi in un solo giorno, contro una media giornaliera di 139 casi nei 7 giorni precedenti, e di 161 il giorno prima);
c) anche il numero dei morti è in costante ascesa: erano 1 al giorno una settimana fa, sono saliti a 12 nella giornata di domenica.

3. A fronte di questi processi, la maggior parte delle autorità si sta muovendo su una triplice direttrice.
Primo, favorire la ripresa delle attività produttive quanto prima, non solo con (doverosi) sussidi a chi ha subito gravi perdite in termini di posti di lavoro e di redditi, ma anche e soprattutto accelerando la riapertura di uffici, fabbriche, negozi, alberghi, musei, scuole, chiese, luoghi pubblici in genere.
Secondo, scaricare sulla popolazione la responsabilità di contenere il contagio. A giudicare dai messaggi ossessivamente ripetuti dagli schermi televisivi, sembra che –fin da oggi fuori della “zona rossa”, e da domani anche in essa – l’unico presidio contro il coronavirus sia la prudenza dei cittadini: lavarsi le mani, disinfettare le superfici, minimizzare i contatti sociali non necessari, non stringersi la mano, non abbracciarsi.
Terzo, contenere l’allarme sociale limitando i tamponi. Molti politici (e molti giornalisti) paiono convinti che se ci sono tanti casi accertati di coronavirus in Italia è perché abbiamo fatto troppi tamponi, e che occorre fare marcia indietro per evitare la catastrofe dell’industria turistica.
Curioso. Prima le autorità fanno di tutto per convincerci che non c’è alcun pericolo di contagio, dalla visita di Mattarella alla scuola con tanti bimbi cinesi alle foto dei politici nei ristoranti cinesi; poi si dichiara lo stato di emergenza, si chiudono massicciamente i luoghi pubblici, si invita a minimizzare i contatti sociali, si segrega la gente in casa; infine, si stigmatizza l’“isteria collettiva” che conduce la medesima gente a fare provviste nei super-mercati…

4. Spero di sbagliarmi ma, studiando i meccanismi di propagazione del coronavirus, mi sono convinto che questa strategia sia perdente, anzi catastrofica. Per tre motivi fondamentali.
Primo motivo. Gli sforzi per far ripartire le attività produttive e commerciali, se concentrati in questo momento, avranno solo l’effetto di accelerare il contagio, rendendo enormemente più difficile e più remota nel tempo la ripresa dell’economia. Meglio perdere un mese di Pil oggi, che subire una catastrofe di dimensioni molto superiori domani.
Secondo motivo. In questo momento la priorità economica fondamentale è evitare il collasso degli ospedali, che già fra pochissimo tempo non saranno in grado di far fronte alla domanda di posti letto, specie nei reparti di terapia intensiva.
E’ triste dirlo, ma è possibile che la Cina, grazie ai poteri speciali di cui godono le dittature, ne esca prima e meglio di noi. Il minimo che possiamo fare è nominare un commissario per l’emergenza coronavirus, con un budget e dei poteri che gli consentano di fare – senza interferenze della magistratura e della politica – quel che la situazione potrà richiedere, ossia assistenza per centinaia di migliaia di persone, molte delle quali in condizioni gravissime.
Terzo motivo. Le simulazioni mostrano chiaramente che, con un contagio così veloce, l’unica strategia di contenimento che ha qualche possibilità di arginare l’epidemia è la ricerca a tappeto dei contagiati e la loro messa in quarantena. Lo ha detto chiaramente una settimana fa Roberto Burioni, suggerendo un tampone anche a chi ha solo 37 gradi e mezzo di febbre: mi chiedo se basterebbe, o non occorrerebbe fare ancora di più, organizzando lo screening più ampio possibile, usando tutte le risorse diagnostiche disponibili.
La velocità del contagio, infatti, ha due fonti fondamentali: la contagiosità intrinseca del virus, che con comportamenti appropriati si può solo attenuare, e il tasso di ritiro dallo spazio pubblico (quarantena) dei già contagiati. E’ solo individuando e mettendo in quarantena coloro che, a propria insaputa, stanno veicolando il virus, che possiamo sperare di vincere la battaglia.
Ecco perché considero enormemente grave, e segno di totale irresponsabilità, il fatto che il premier, anziché accogliere e cercare di rendere attuabile la proposta di Burioni di moltiplicare i tamponi, abbia imboccato la strada opposta. Come se l’immagine dell’Italia all’estero fosse più importante dalla nostra salute, per non dire della nostra sopravvivenza.

Pubblicato su www.fondazionehume.it il 2 marzo 2020

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Ricolfi: l’Italia deve fermarsi un paio di mesi

Se ci intestardiamo a far ripartire l’economia potrebbe essere la catastrofe. Solo congelando il più possibile il contagio potremmo uscire con una semplice recessione

4 Marzo – Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi

Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo aiuterebbe la circolazione del virus, potrebbe essere la catastrofe». Luca Ricolfi, sociologo, ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino, ha letto le informazioni disponibili sul Coronavirus – contagio, ammalati, morti – utilizzando le sue competenze statistiche. I risultati delle simulazioni fatte per la Fondazione David Hume (www.fondazionehume.it), di cui è presidente, sono choccanti: con gli attuali tassi di propagazione, se il virus non verrà rallentato drasticamente, potrebbero esserci centinaia di migliaia di decessi in pochi mesi. Decisiva una politica rigorosa di contenimento, in tal senso «le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione». I 3,6 miliardi di sforamento del deficit che la Ue potrebbe autorizzarci? «Andrebbero utilizzati non per dare aiuti a pioggia alle imprese ma a rafforzare il Servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto. Altrimenti si rischia il collasso».

Professore, lei stima che, con gli attuali trend di contagio e di morte, si possa arrivare anche ad avere 2-300 mila decessi. Una cifra terribile. Come arriva a questa conclusione? Qual è il metodo di calcolo?
Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato, da solo, ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila. Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che dipende da tanti fattori e al momento non è noto, ma a mio parere è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti, ossia con le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

E cosa dicono le sue simulazioni?
Ebbene, le simulazioni mostrano che, se si vogliono generare serie storiche compatibili con la dinamica di quelle osservate, si è costretti a ipotizzare un tasso di propagazione più alto di 2.5. Qualche esperto, come il prof. Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova, è arrivato a ipotizzare un tasso di 4 o 5 contagiati per infettato, che nelle simulazioni risulta più compatibile con i dati storici di un tasso di 2 o di 2.5. Ma il dramma è che, se il tasso di propagazione è davvero 4 o 5, e non si interviene con politiche di contenimento drastiche, il numero degli infettati non ci metterà molto ad arrivare a qualche milione, come accade con l’influenza stagionale.

Il calcolo statistico non sconta variabili, nella fattispecie potrebbero essere il caldo della primavera, l’indebolimento del virus stesso o l’efficacia delle misure prese dal governo. Che margini di errore hanno di solito analisi di questo tipo?
Le analisi basate su modelli matematici possono solo formulare ipotesi su eventuali meccanismi di attenuazione (o di amplificazione), perché la capacità di propagazione del virus non è un dato assoluto, o intrinseco, ma dipende da numerose condizioni al contorno, perlopiù sconosciute nelle loro dimensioni e nel loro impatto. Cionondimeno, la mera osservazione della dinamica attuale basta a suggerire che, per frenare il virus, occorrerebbero fattori di grandissimo impatto, come una elevata sensibilità al caldo, o una tendenza all’indebolimento nel ciclo delle mutazioni. Fra i fattori potenzialmente frenanti, però, ve n’è uno fondamentale, che nei miei modelli ho chiamato qt.

Cosa indica qt?
È la quota di malati «ritirati» dalla scena pubblica al tempo t e collocati in quarantena, in quanto precocemente diagnosticati come positivi al coronavirus. Ebbene, poiché (assieme alle norme comportamentali) l’incremento di q mediante una campagna massiccia di tamponi è l’unica arma che abbiamo, considero irresponsabile (per non dire altro) il comportamento del premier Giuseppe Conte, che qualche giorno fa ha esortato a fare meno tamponi.
Se anziché straparlare di numero eccessivo di tamponi il governo avesse seguito il saggio consiglio del virologo Roberto Burioni di moltiplicarli, prevedendoli per chiunque abbia anche solo 37 gradi e mezzo di febbre, oggi la progressione del contagio sarebbe sensibilmente più lenta, e avremmo qualche speranza di fermarlo.

Tra Nord e Sud c’è qualche differenza? Ad oggi ci sono meno contagi.
Penso che l’esplosione dei contagi al Nord sia dovuta a due fattori distinti. Il primo è il caso, ossia che il Nord abbia avuto un paziente super-spreader (ultra-capace di infettare), che da solo ha dato luogo a una catena di contagi molto vasta, favorita dai protocolli seguiti nell’ospedale di Codogno, che per quel che ne so erano quelli vigenti, anche se inadeguati.
Il secondo, decisivo, fattore è che sono tutte del Nord le regioni più produttive e internazionalizzate del Paese, ossia Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Io ho fatto calcoli separati per la propagazione al Nord e al Sud e, allo stato attuale dell’informazione disponibile mi risulta che la velocità di propagazione sia analoga.

L’Italia da zona franca è diventato focolaio europeo. Ma c’è chi sostiene che la differenza sia proprio nel numero (in eccesso) di tamponi fatti in Italia.
La considero una sciocchezza. In Italia il processo è partito un po’ prima, per ragioni casuali, ma temo che gli altri paesi vedranno il medesimo film, a meno che qualche paese si decida a percorrere la strada-Burioni anziché il precipizio-Conte. Lì si vedrà quali paesi hanno una classe dirigente all’altezza.

A fronte di questa situazione, le autorità stanno via via riavviando le attività. Che segnali arrivano alla popolazione?
Errati. Le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione.
Io però distinguo nettamente fra l’intervento assistenziale e riparativo dello Stato (che è opportuno) e il tentativo di riaprire le attività, tornando alla vita normale (che produrrebbe effetti catastrofici). Quest’ultima cosa, il ritorno alla normalità, non possiamo ancora assolutamente permettercela.

Senza risorse massicce, il Servizio sanitario nazionale rischia di non farcela.
Rischia il collasso. A mio parere è praticamente certo che, nel giro di poche settimane, si comincerà a morire perché non ci sono abbastanza posti nei reparti di terapia intensiva. È il guaio delle democrazie, che non possono costruire un ospedale in dieci giorni, né rinchiudere qualche milione di abitanti in una zona rossa, né proclamare il coprifuoco.

Lei sta seguendo il flusso di informazioni dei media? Come lo giudica?
Ne sono disgustato. Tutto continua con i consueti teatrini, in cui i soliti personaggi si scambiano opinioni (e qualche volta insulti) su cose più grandi di loro. È come la scena finale del Titanic, con la gente che balla mentre la nave affonda.

Che stima è possibile fare per quanto riguarda gli effetti sul pil?
Stime vere e proprie sono impossibili. Se proprio devo azzardare, però, di stime ne farei non una ma due. Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo – come è elementare prevedere – anziché frenare il virus aiuta la sua circolazione, potrebbe essere la catastrofe. Che a quel punto non si misura sui punti di pil perduti ma, come in guerra, sul numero di morti.

Il governo italiano si accinge a incassare uno sforamento dei vincoli Ue pari a 3,6 miliardi di euro di maggiori risorse. Che effetto avrà?
Sono sempre stato ostile agli sforamenti del deficit, ma questo è uno dei pochi casi in cui lo troverei sacrosanto. Il problema, però, è come usarli i 3.6 milioni di euro. Io prevedo che il grosso sarà usato per soddisfare le innumerevoli richieste di risarcimento danni che pioveranno sul tavolo del governo, e ben poco resterà per l’unica vera emergenza: rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su ItaliaOggi del 4 marzo 2020

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Coronavirus, calcoli sbagliati: le gravi responsabilità del governo

5 Marzo 2020- di Luca Ricolfi

Non ho molti dubbi sul fatto che gli storici del futuro avranno molto da dire sulle responsabilità del governo Conte.

Su ciò che è accaduto in questo cruciale mese di febbraio. È molto verosimile che, quando la distanza temporale degli eventi avrà reso gli animi più distaccati e le menti più lucide, alla mediocre classe dirigente che ha gestito questa crisi verranno imputati tre errori fatali, dislocati più o meno a una settimana di distanza l’uno dall’altro.

Errore 1: avere sottovalutato, nonostante le avvertenze degli esperti (il primo allarme di Roberto Burioni è dell’8 gennaio, ben due mesi fa), la gravità della minaccia dell’epidemia di coronavirus, non solo respingendo la linea rigorista dei governatori del Nord, ma tentando di approfittare politicamente delle circostanze: un’emergenza sanitaria è stata trattata come un’emergenza democratica, come se la posta in gioco fosse l’antirazzismo e non la salute degli italiani (il medesimo Burioni, per le sue proposte di quarantena, è stato accusato di fascio-leghismo).

Errore 2: aver rinunciato, quando la misura sarebbe stata ancora efficace, a una campagna massiccia di tamponi, per la paura di danneggiare l’immagine dell’Italia all’estero.

Errore 3: aver insistito per giorni sulla necessità di far ripartire l’economia, come se questo obiettivo – se perseguito nel momento di massima espansione dell’epidemia – non avesse l’effetto di facilitare il contagio. Non so se, in queste ore, il governo correggerà la rotta, e in che misura eventualmente lo farà. Ma penso di poter dire, sulla base dell’evidenza statistica disponibile, che non essere intervenuti drasticamente e subito avrà un costo enorme in termini di vite umane, prima ancora che in termini di ricchezza.

Il numero di persone già contagiate è molto più ampio del numero di positivi, e il numero di morti raddoppia ogni 48 ore senza, per ora, mostrare alcun segno di rallentamento. Il tasso di propagazione dell’epidemia, il famigerato R0, è tuttora largamente superiore a 2, probabilmente prossimo a 5 contagiati per infetto. Se, come molti esperti considerano possibile, il virus dovesse raggiungere anche solo il 20% della popolazione (12 milioni di persone), i morti non sarebbero il 3% (circa 360 mila) ma almeno il triplo o il quadruplo, ovvero 1 milione o più. In quel caso, infatti, i posti di terapia intensiva necessari per salvare i pazienti gravi non sarebbero sufficienti, nemmeno ove – tardivamente – il governo varasse oggi stesso un piano per raddoppiare o triplicare la capacità attuale (oggi i posti disponibili sono 5000, con 12 milioni di contagiati ce ne vorrebbero più di 50 mila, ossia 10 volte la capacità attuale).

Questa eventualità, ossia che il coronavirus raggiunga un cittadino su 5, è così poco inverosimile che il Regno Unito la sta considerando seriamente come uno scenario possibile. E non voglio neppure pensare che cosa potrebbe accadere se, come alcuni esperti ritengono possibile, l’epidemia dovesse raggiungere quasi l’intera popolazione italiana. In questa situazione ci vorrebbe ben altro governo e ben altra classe dirigente, ma non è questo il tempo di fare considerazioni politiche. Oggi è il tempo di salvare l’Italia da una catastrofe potenzialmente peggiore di una guerra, e di farlo con i mezzi che abbiamo e il tempo ristrettissimo che ci sta davanti.

So di star per dire una cosa non provabile in modo inoppugnabile (i dati sono ancora parziali) ma solo plausibile, e tuttavia voglio dirla lo stesso, perché proteggere la mia reputazione di studioso è meno importante che avvertire di un pericolo che è largamente preferibile sopravvalutare che ignorare. Ebbene, nelle prossime 72 ore, se nulla cambia, è verosimile che l’Italia attraversi la barriera dei 60.000 contagiati, un limite oltrepassato il quale il rischio di interagire con persone contagiate diventa non trascurabile, ed enormemente più grande di quello che avevamo anche solo fino a un paio di settimane fa.

Non spetta a me, né ne avrei gli strumenti, per redigere un piano che limiti i danni. In proposito ci sono idee e proposte di grande spessore degli esperti che in queste settimane sono stati più vigili, e meno disponibili ad accodarsi alle oscillazioni delle autorità di governo: penso al prof. Roberto Burioni (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano), al prof. Andrea Crisanti (Università di Padova), al prof. Massimo Galli (ospedale Sacco di Milano).

Due cose, però, mi sento di dirle. La prima è che la priorità non può essere far ripartire l’economia subito, perché questo non farebbe che accelerare la circolazione del virus. Le risorse economiche dovrebbero essere indirizzate prima di tutto a moltiplicare le unità di terapia intensiva e sub-intensiva, perché quasi certamente fra 2 o 3 settimane i malati gravi saranno molto più numerosi dei posti disponibili. La seconda è che, se vogliamo limitare il numero dei morti, dovremo rinunciare, per almeno qualche settimana, a una parte delle nostre libertà e, probabilmente, anche a una frazione di ciò che siamo abituati a pensare come parte integrante della democrazia. Quando dico rinunciare alle nostre libertà, penso soprattutto alla libertà di circolazione e di spostamento. E quando dico rinunciare a una frazione della democrazia intendo dire che, se vogliamo salvare il servizio sanitario nazionale, dobbiamo avere il coraggio di nominare un commissario per l’emergenza, che sia competente, dotato di pieni poteri, di un budget adeguato, e completamente immune alle interferenze della magistratura e della politica.

L’alternativa esiste, naturalmente, ed è di continuare con la rancida minestra che ci sta somministrando questo governo. Ma bisogna sapere, allora, che il costo non si misurerà in termini di consenso, o di punti di Pil perduti, bensì in termini di vite umane che si è rinunciato a salvare.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 marzo 2020

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Misure drastiche o collassiamo

5 Marzo 2020 – Intervista di Alessandra Ricciardi a Andrea Crisanti

Cinturare le regioni libere dal Coronovirus, limitare la libertà di circolazione per tutti. Investire subito Misure drastiche o collassiamo due miliardi in sanità pubblica e ricerca. Se l’epidemia da Coronavirus non sarà contenuta con misure drastiche, si collassa. «Il sistema sanitario in questo momento regge perché non abbiamo ancora raggiunto il picco dell’epidemia», sostiene Andrea Crisanti direttore del laboratorio di Microbiologia e virologia dell’Università di Padova, dove è stato messo a punto all’inizio di febbraio il test europeo per la diagnosi del covid-2019. Crisanti, componente del comitato scientifico chiamato da pochi giorni a supportare la regione Veneto nella lotta all’epidemia, è tranchant: «Serve una politica nazionale coraggiosa, decisa da chi sa come si contiene un’epidemia». Le percentuali diffuse finora su numero di contagi e di morti? «Sono falsate, rilevano solo la punta dell’iceberg».

Professore, alcune domande tecniche, per fare chiarezza. Quanto tempo passa, mediamente, fra il momento in cui si contrae il virus e quello in cui si diventa contagiosi?
In genere tra i cinque e i dieci giorni. Diciamo che 14 giorni sono un termine prudenziale utile.

Fra coloro che non muoiono né sono sottoposti a terapia intensiva, quanti giorni intercorrono, mediamente, fra il momento del contagio e quello della guarigione?
Sono variabili, non esistono al momento dati sufficienti per poterlo stabilire. Molto dipende dalle condizioni anche di salute personale.

Fra coloro che muoiono, quanto tempo passa, mediamente, fra il momento del contagio e quello della morte?
Almeno 10, in media 20, anche 30 giorni.

Glielo chiedo per capire a che periodo si riferiscono i decessi di cui parliamo oggi.
Lo avevo capito. Guardi che i dati comunicati su contagi accertati e decessi sono solo la punta dell’iceberg. Tutte le percentuali diffuse fotografano una minima parte della realtà. Sono percentuali falsate, non affidabili.

Quale potrebbe essere la percentuale di infetti che non può essere diagnosticata e guarisce pensando di avere avuto una semplice influenza?
Questo lo sapremo solo quando saranno disponibili i dati di Vo’ Euganeo, dove abbiamo i test di tutti e quindi potremo definire in modo più scientifico l’andamento. Vo’ è diventato, suo malgrado, il più grande terreno di studio epidemiologico a disposizione, un bacino che non ha eguali nemmeno in Cina.

Secondo una sua prima stima?
È una percentuale non trascurabile, superiore al 20-30%, io ritengo. La malattia sta correndo sottotraccia in Italia da tempo, almeno da metà gennaio. Il virus si è mosso grazie a una comunità di 30-40enni che viaggiano e che sono stati asintomatici, diffondendo il contagio in modo inconsapevole.

Quando si dice che R0, ossia il numero di persone che un infetto può contagiare, ha un certo valore (spesso si sente citare 2 o 3), a quale intervallo di tempo si fa mediamente riferimento?
Il tasso indicato di replicazione del virus è ininfluente rispetto all’intervallo temporale.

Ma lei ritiene che un ammalato possa fare 2 o 3 contagi?
No, almeno 4-5.

Da cosa dipende la capacità di contagio del virus?
Non ci sono modelli sperimentali utilizzabili sul Coronavirus e sapremo qualcosa di più quando finiremo tutte le analisi su Vo’ Euganeo.

La letteratura scientifica indica tassi di contagio anche più alti di cinque.
Vede, nella lettera scientifica non ci sono valori di R0 esportabili geograficamente, perché il tasso di replicabilità non dipende solo dalla virulenza del virus, ma molto dalla densità della popolazione di un’area, dalle condizioni di igiene, dalle abitudini di vita, dalla mobilità. Faccio un esempio: la poliomelite nel 1930 aveva un R0 di 12 in Italia. Negli Usa era di 4. Lì avevano le fogne, noi no.

In un’intervista a ItaliaOggi, Luca Ricolfi stima che alla fine potrebbero esserci 200/300 mila morti se i tassi di contagio fossero quelli comunicati di 2.5 e se la diffusione dovesse essere simile a quella della influenza stagionale e dunque colpire 8 milioni di persone. Una stima pessimistica?
È probabile abbia ragione.

Se il governo dovesse decidere di massimizzare il numero di tamponi trovando i fondi necessari, quanti tamponi si possono fare in un mese?
Ma ormai per i tamponi di massa è tardi. Questa operazione andava fatta su larga scala all’inizio, per fare uno screening di quanti entravano in Italia dalle aree a rischio. Ora i tamponi servono solo per verificare i contagi potenziali di un ammalato e per proteggere il servizio sanitario.

In che senso tutelare il sistema sanitario?
I medici e il personale infermieristico devono essere protetti. Quello che si deve fare ora è controllare a fine turno ogni operatore, chi è negativo torna al turno successivo, chi è positivo va a casa. Io rischio di vedermi decimato il reparto di pediatria…

Potrebbe esserci l’emergenza per i posti di terapia intensiva. Avendo fondi, c’è un limite fisico e temporale per mettere in piedi un reparto?
Noi siamo uno dei paesi al mondo con il più alto numero di posti di terapia intensiva. Si possono accrescere del 20 /30% riconvertendo posti letto ordinari. Ad oggi bastano. Il problema di fondo però è un altro. Qui servono misure straordinarie, non stiamo alle prese con un’alluvione o un terremoto. Siamo alle prese con un’epidemia.

Quanto servirebbe per mettere in sicurezza il Paese?
Servono 2 miliardi per la sanità pubblica e la ricerca, il problema non si risolve dando 500 euro alle partite Iva.

Se le dicessero ecco, ci sono i due miliardi, lei cosa ci farebbe?
Creerei strutture ad hoc per ricoverare i semplici contagiati, potenzierei l’assistenza a casa degli anziani. E se non vogliamo chiudere tutte le città, se non vogliamo fare come in Cina sospendendo i diritti individuali alla libera circolazione a livello nazionale, perché lo riteniamo un prezzo troppo alto da pagare in termini sociali ed economici, allora dobbiamo investire in modo massiccio in sanità e ricerca. Per assistere un numero crescente di malati e per trovare in fretta un vaccino.

Come giudica le misure di contenimento finora adottate?
Inadeguate e confuse. Io farei un’operazione molto più drastica, cinturando le regioni, come le isole, dove il virus non è ancora arrivato o dove sono pochi i casi, così da salvare le aree free e concentrarsi sulle zone ad alto rischio. Invece vedo indicazioni e comportamenti discordanti da parte della autorità, c’è molta confusione. Vorrei però fare un chiarimento di fondo.

Prego.
Questa è un’epidemia di cui vediamo una minima parte, se non conteniamo il virus e non arriviamo all’estate possiamo aspettarci il peggio. In Italia purtroppo manca una cultura della sanità pubblica e del controllo e del contrasto delle epidemie. In Inghilterra, dove ho lavorato per 25 anni, hanno una lunga tradizione. Noi non abbiamo esperti, non abbiamo investito, gli unici, e sono pochi, che sanno qualcosa di controllo delle epidemie e di controllo integrato sono gli studiosi di malaria. Se non si cambia atteggiamento, se non capiamo che questa crisi non si gestisce come se fosse una normale emergenza non ce la facciamo.

Quanto serve per avere un vaccino?
Almeno 14 mesi, poi va commercializzato. Servono due o tre anni se non quattro per mettere in sicurezza la popolazione. Occorre fare un investimento enorme per cercare di fare prima.

L’arrivo della bella stagione ci può dare una mano?
Di solito con il caldo le malattie respiratorie diminuiscono. Dobbiamo attendere fine maggio.

E il prossimo inverno?
Garantito che il virus si ripresenterà. Guardi, tutti noi dovremo pagare un prezzo al Coronavirus, o accettiamo che un numero x, ancora non stimabile, di vite umane venga sacrificato oppure cerchiamo di combattere il virus con misure drastiche di contenimento. Lo ripeto, più sanità pubblica, più ricerca e limitazione delle libertà individuali, come quella di circolazione. Dipende da come decidiamo di pagare. Se non entriamo in questa logica, collasseremo. E saranno gli altri stati a isolarci.

Il sistema sanitario regge?
Il sistema in questo momento regge perché non abbiamo ancora raggiunto il picco dell’epidemia. Se il virus continua a galoppare, nel giro di un mese siamo alla saturazione.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su ItaliaOggi del 5 marzo 2020

 

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L. Ricolfi e staff Hume
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