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Contagion. Come si esce vivi da un film catastrofico?

15 Aprile 2020 - di Nicola Ravera Rafele

In primo pianoSocietà

Facciamo un gioco.
“Stiamo analizzando l’efficacia di molti farmaci. Ma finora la nostra migliore difesa è il distanziamento sociale. Evitare strette di mano, stare a casa se ci si ammala, lavarsi spesso le mani”.
Chi ha detto questa frase?
Borrelli nella conferenza stampa delle 18? Franco Locatelli del CSS? Il presidente Conte?
No. L’ha detta Laurence Fishburne nel 2011, interpretando il dottor Cheever nel film “Contagion” di Steven Soderbergh.
La battuta l’ha scritta Scott Z.Burns, autore della sceneggiatura, ed è perfettamente realistica, come quasi tutto il resto.
In “Contagion”, una pandemia che arriva da un pipistrello di Hong Kong fino all’uomo miete qualche milione di vittime tutto il mondo. La dinamica di trasmissione, i dialoghi tra i medici, l’armamentario di mascherine e guanti sembra uscito dalle cronache del 2020.
Preveggenza?
Ovviamente no, solamente cinema ben fatto. All’epoca Soderbergh e Burns si sono avvalsi della consulenza di Ian Lipkin, celebre virologo del Center for Infection and Immunity della Columbia University, che si è limitato a immaginare ciò che era perfettamente immaginabile.
Qualche giorno fa Ian Lipkin ha annunciato di aver preso il Coronavirus.
Una bizzarra e crudele forma di contrappasso: è come se una fantasia fosse arrivata a vendicarsi di chi l’ha pensata.
La cosa interessante però non è notare le somiglianze tra “Contagion” e la realtà, quanto vedere le differenze.
Una su tutte. Nel film, intorno al giorno 30 dall’inizio della pandemia, esplodono violente tensioni sociali. Rivolte, incendi, saccheggi, vetri in frantumi, supermercati assaltati.
Immagino le riunioni di sceneggiatura tra Soderbergh e Burns, e ammetto che non so come dare loro torto su quella scelta. Era uno scenario perfettamente credibile.
Però nella realtà non è successo.
Fino ad ora, la risposta della comunità alla più grande emergenza degli ultimi ottanta anni è stata più composta, più pacifica, più riflessiva di come più o meno tutti avremmo potuto immaginare.
Abbiamo avuto la prova, casomai ce ne fosse bisogno, che i cattivoni da film catastrofico pronti a prendere d’assedio tutti e tutto non ci sono, o se ci sono sono pochi.
Le persone, tutte, reagiscono in funzione dei loro bisogni: assaltano i supermercati solo se non hanno più nessuna alternativa, e quindi, più che immaginare sempre le colpe degli altri, sarebbe il caso di darla, una alternativa, prima che la predizione di “Contagion” possa, alla fine, farsi reale.
Cosa vuol dire “dare un’alternativa”?
Non vuol dire riaccendere la macchina il prima possibile, rimandare tutti a lavorare prima del dovuto, questo lo abbiamo capito.
Il tempo della medicina è quello che comanda, ed è un tempo lento e tirannico, che non concede sconti nemmeno a chi è abituato a fare ciò che vuole con le vite degli altri.
E’ una occasione da cogliere, questa revisione delle priorità. Da troppi anni ci è stato raccontato che la produzione è un dogma indiscutibile, che è un valore in sé, che prescinde dalla qualità della vita di chi lavora nel nome del bene supremo dell’aumento della ricchezza.
Non ci si può fermare. E’ impossibile, impensabile.
Beh, ci si è fermati.
Il Coronavirus ha scassato il giocattolo.
E ora si chiede agli stati, che nel paradigma pre-pandemia il mercato voleva sempre più deboli e asserviti a logiche economiche, di tornare forti.
Si chiede agli stati di assistere e sostenere, di immaginare un futuro e governarlo. Si chiede insomma agli stati di fare quello che, in tempi di crisi, il mercato non riesce a fare.
Lo stesso mercato che ha rotto gli equilibri, che ha squarciato il tessuto sociale, che ha creato sacche di povertà e disparità inimmaginabili solo pochi decenni fa, ora chiede a qualcun altro di raccogliere i cocci.
Ma il danno era già lì. Se non ci si poteva fermare era perché si stava correndo troppo veloce, evidentemente.
Sarà il caso che i governi, e gli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Europa, raccolgano questo invito.
L’alternativa è l’assalto ai supermercati, e sarebbe un assalto con delle buone ragioni.
Sarà il caso che la politica raccolga questo invito a tornare centrale nelle vite delle persone, ma per farlo deve avere una visione.
Lo stato di ansia ci spinge a sperare che tutto torni come prima il più in fretta possibile.
E’ comprensibile, perfino sano. Una normale reazione al dolore.
Ma non è a prima che bisogna tornare.
Il “prima” è ciò che ha generato tutto questo.
Se la reazione si ridurrà a prestare un po’ di soldi alle imprese perché la macchina riparta più o meno com’era, rabberciata e zoppicante, alla lunga da questa crisi usciremo soltanto tutti ancora più poveri e più fragili.
Se invece coglieremo l’occasione per creare un mondo più equo, forse, nel dramma, almeno questo maledetto morbo sarà servito a qualcosa.
Perché, vista da qui, mentre la gente muore, la realtà com’era anche solo sei mesi fa sembra meravigliosa.
Ma è una illusione ottica.
Il mondo non era un granché nemmeno prima. Non dimentichiamocelo.

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Nicola Ravera Rafele
Nicola Ravera Rafele
Roma, 15 gennaio 1979 Scrittore e sceneggiatore
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