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Società

Sull’avventura della Flottiglia – La solitudine dei moderati

8 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Sulla giustezza della missione della Flottiglia, e sull’opportunità delle manifestazioni che l’hanno accompagnata, si possono avere le opinioni più diverse, dall’appoggio incondizionato all’ostilità aperta. Quella che invece non dovrebbe essere troppo controversa (almeno per chi guarda le cose senza lo schermo dell’ideologia) è la specificità del movimento che sta prendendo forma in questi giorni in Italia. Un movimento che, molto più di qualsiasi altro del passato, è basato su un sentimento – di solidarietà e di identificazione – piuttosto che su interessi, rivendicazioni, convinzioni ideologiche. Certo, dentro il movimento non mancano gli attivisti politici più o meno radicali, ma la grande maggioranza di coloro che sono scesi in piazza (più di 2 milioni secondo la Cgil, meno di 400 mila secondo il Ministero dell’Interno) lo hanno fatto essenzialmente mossi dall’emozione e dall’indignazione per le sofferenze del popolo palestinese, impietosamente mostrate per mesi dai maggiori media. Quanto alle violenze che hanno turbato manifestazioni fondamentalmente pacifiche, non vi è dubbio che hanno coinvolto una minoranza (quanto piccola nessuno può dirlo con precisione, ma siamo nei pressi dell’1%).

Tutto bene, dunque?

Non è di questa opinione Sergio Cofferati, uno dei più importanti dirigenti Cgil degli ultimi decenni. In una intervista uscita sulla Stampa l’ex leader sindacale (oltreché ex sindaco di Bologna), dopo aver notato la spontaneità e la non politicità della “folla” che ha riempito le piazze, non esita a denunciare – sia pure nel solito modo ellittico dei politici – gli aspetti problematici del nuovo movimento. Che sono essenzialmente tre: primo, le violenze di piazza; secondo, gli slogan antisemiti; terzo la tendenza (della sinistra, ma questo Cofferati non lo dice) a minimizzare le une e gli altri.

Che un personaggio come Cofferati, indubbiamente progressista ed eminenza del mondo sindacale, avverta e denunci i pericoli della violenza di piazza è senz’altro un fatto positivo. E tuttavia è la natura dei pericoli individuati dal leader sindacale che lascia perplessi. Per Cofferati la timidezza nella condanna dell’estremismo è pericolosa essenzialmente perché delegittima il movimento, riduce il consenso intorno ad esso, e può provocare un “riflusso d’ordine”, con annessa criminalizzazione del dissenso da parte di Giorgia Meloni. Non gli viene minimamente in testa che il vero pericolo che stiamo correndo è l’ulteriore imbarbarimento del confronto politico, che di fatto sta emarginando, intimidendo, colpevolizzando chiunque non sia schierato “senza sé e senza ma” con le ragioni dei Palestinesi. Quando tutto lo star system si schiera da una parte, quando università e istituzioni culturali chiudono gli spazi di agibilità a chi è ebreo o collabora con Israele, quando chi non si allinea agli slogan della folla viene investito dall’odio e accusato di disumanità, quel che si viene a instaurare è un clima intimidatorio, che è quanto di più anti-democratico si possa immaginare. Perché democrazia non significa solo rifiuto tassativo della violenza, ma anche rispetto delle opinioni di tutti, incluse le più estreme.

È paradossale, ma oggi siamo costretti ad aggiornare la formula: non solo “incluse le opinioni più estreme”, ma anche “incluse le più moderate”. Ossia di chi, o per intuito o perché ha studiato la storia, pensa che – nel conflitto israelo-palestinese – non tutte le ragioni stiano da una parte sola, e la via della pace sia stata preclusa anche dalle classi dirigenti arabe. Un recentissimo sondaggio di Mannheimer (in uscita oggi su Italia Oggi) rivela che più di 1 italiano su 2 è perplesso, o addirittura critico, sulla missione della Flottiglia. E le perplessità aumentano fra indecisi e astenuti: 2 su 3 non si pronunciano, o disapprovano la missione.

Chi vuole conquistare il voto degli indecisi farebbe bene a non dimenticarlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 7 ottobre 2025]

Eredità storiche. Il partito d’Azione e l’Italia di oggi

7 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia, parlar male del Partito d’Azione è, come si diceva un tempo, parlar male di Garibaldi. E se ne comprendono le ragioni. Gli azionisti —includendo nella categoria i seguaci  liberalcomunisti di Piero Gobetti e i socialisti liberali di Carlo Rosselli — tra il primo e il secondo dopoguerra hanno espresso una cultura politica di altissima cifra morale e intellettuale. Basti pensare a storici come Franco Venturi e Leo Valiani, a filosofi come Guido De Ruggiero, Norberto Bobbio, Guido Calogero, per non parlare dei politici, dei letterati e degli artisti che fecero parte di quella che fu una vera e propria ‘scuola di pensiero’. Si rifacevano tutti alla componente laica e democratica del Risorgimento anche se, al suo interno, si sentivano più vicini a Carlo Cattaneo che a Giuseppe Mazzini. Al centro delle loro riflessioni furono sempre le ‘illusioni perdute’ che la lotta per l’unità d’Italia aveva depositato negli animi dei suoi protagonisti.” Oh non per questo dal fatal di Quarto / Lido il naviglio dei mille salpò, / Né Rosolino Pilo aveva sparto / Suo gentil sangue che vantava Angiò”, avrebbero potuto ripetere col Giosuè Carducci de La consulta araldica (1869). Anche se il poeta maremmano non era particolarmente amato, giacché nel suo cuore c’erano l’Italia e la sua grandezza mentre gli azionisti, pensavano all’’Europa vivente’ alla quale si avrebbe dovuta ricongiungere l’Italia. L’insoddisfazione per l’Italietta umbertina a giolittiana, però, li accomunava a larga parte del ceto intellettuale prefascista, nel quale era raro trovare voci liberali– specialmente nella repubblica delle lettere. Per loro il paese, malgovernato da secoli, assoggettato ai preti, oggetto di invasioni e occupazioni straniere, era un vasto campo che andava ‘bonificato’ e redento. Le sue carenze culturali erano antiche e nei settori in cui lo spirito moderno aveva fatto progredire l’Europa, facendone il centro e l’arbitro del mondo—l’economia, le istituzioni politiche, la scienza—venivano fuori tutta la miseria e l’arretratezza dello stivale. Si trattava di reazioni e di stati d’animo comprensibili anche se portavano a sottovalutare i pur rilevanti progressi che la Destra e la Sinistra storica avevano fatto compiere. E’ innegabile che il paese fosse segnato da un ‘ritardo’ che non era agevole superare e che le classi dirigenti non sempre fossero all’altezza dei loro compiti.

 E tuttavia la cultura azionista ha instillato in quanti erano sinceramente interessati alla politica modi di pensiero, a ben guardare, incompatibili con la democrazia liberale. A cominciare dalla divisione degli italiani tra una ristretta élite di persone dabbene solleciti della ‘rei publicae salus’ e una massa amorfa—sparsa soprattutto nelle campagne e nella provincia profonda— caratterizzata da familismo amorale e dal perseguimento del ‘particulare’ e, pertanto, portata a frenare ogni inno-vazione. In quest’ottica, la chiesa e, in seguito, i grandi partiti proletari venivano accusati di svolgere un’opera di diseducazione nel senso che delle masse assecondavano gli atavismi, i pregiudizi, i costumi premoderni—nel caso della chiesa—o favorivano le pulsioni demagogiche—nel caso dei partiti proletari.

 Gli azionisti, beninteso, rifuggivano dalla violenza giacobina ma del giacobinismo condividevano il pregiudizio che i costumi, i valori antichi, le credenze ereditate dal passato dovessero venir cancel-lati—soprattutto grazie a strategie scolastiche non poco esigenti—se si volevano far nascere gli ‘Italiani  nuovi’. Era, questo, uno ‘stile di pensiero’ quanto mai illiberale e potenzialmente tota-litario. Il governo degli uomini infatti non è assimilabile a un’opera di bonifica ma a un’arte combi-natoria, che si serve dell’esistente (e persino dei suoi pregiudizi) per avanzare sulle vie dell’avvenire, con meno traumi possibili. E’ la grande lezione di Vincenzo Cuoco, il primo liberale italiano,  ammiratore dei protagonisti della Repubblica partenopea, ma consapevole che la loro estraneità a un liberalismo, che oggi definiremmo ‘storicistico e comunitario’, li avrebbe portati alla rovina.

 Gli azionisti, non amavano gli Italiani ‘così come sono’. Non a caso furono i più implacabili avversari dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini—il movimento nato nel secondo dopoguerra per protestare conto l’indottrinamento antifascista   di massa—-e i più lontani dal ‘piccolo mondo’ di Giovannino Guareschi. Ripugnava ad essi l’atteggiamento bonario nei confronti della ‘gente meccanica e di piccolo affare’, così poco disposta a impegnarsi nella ‘riforma morale e intellettuale’ della nazione.

 Non meraviglia, quindi, che non pochi azionisti, in tutta onestà, avessero, sulle prime, simpatizzato col fascismo e che, nel secondo dopoguerra, avessero guardato con interesse alla sinistra comunista (con la speranza di guarirla dal materialismo storico e dalle utopie collettiviste ed egualitarie). In fondo, il fascismo e il comunismo non volevano, anch’essi,  in modi diversi, ‘bonificare’ gli italiani, sottoporli a una massiccia cura di idealismo, guarirli dai mali storici?<E’ l’Italia vera, su cui bisogna contare>, scriveva Giovanni Gentile:<di contro ad essa la borghesia degli avvocati, dei professori, degli impiegati, dei giornalisti, avventurieri, ciarlatani, dilettanti oziosi, cullanti la loro vanità nella pratica demolitrice di tutto e di tutti|…| Tutta l’Italia inferma, vecchia e tarlata, che dev’essere spazzata via dall’altra>.

 Di qui un altro veleno per una ‘democrazia a norma’: per riprendere la dicotomia di Francesco Alberoni, la legittimazione etica e politica dei movimenti rispetto alle istituzioni, la fiducia risposta in ciò che nasce spontaneamente dal basso per la sua (presunta) capacità di rigenerare ciò che sta in alto e che rischia di isterilirsi nella gestione dell’esistente. Forse è tempo, per fare un esempio significativo, di spiegare storicamente le fortissime simpatie mostrate dal Ferruccio Parri, direttore dell’’Astrolabio’, nei confronti  della contestazione sessantottesca, e di riportarle a una Welt-anschauung che ancora oggi seguita a ispirare giornali, case editrici, palinsesti televisivi.

Lettera 150, 1° Ottobre 2025

Bloccare tutto per la Flottiglia? – Sciopero generale, un’arma spuntata

6 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Ha creato qualche malumore il sarcasmo con cui Giorgia Meloni ha stigmatizzato lo sciopero generale di ieri a sostegno della flottiglia. Notando che “week end lungo e rivoluzione non stanno insieme” ha messo il dito sulla piaga: è anni che gli scioperi vengono indetti a ridosso del fine settimana, una pratica che stride con gli appelli alla “rivolta sociale”.

È stato un infortunio? Una voce del sen fuggita, che se potesse tornare indietro non ripeterebbe?

Ho l’impressione di no. Prendendo una posizione netta contro lo sciopero proclamato dalla Cgil di Landini e dalla Usb (Unione sindacale di base) credo che la premier abbia ritenuto di interpretare un sentimento piuttosto diffuso nell’elettorato, ma che resta per lo più allo stato latente. Può sembrare strano, se non contradditorio, ma a mio parere il severo giudizio che l’opinione pubblica ha maturato su Israele (3 italiani su 4 condannano l’intervento a Gaza) non convive con un corrispondente sostegno a tutto ciò che partiti, sindacati e movimenti stanno facendo contro Israele stesso. Un conto, infatti, è l’empatia per il popolo palestinese – un sentimento quotidianamente rinforzato dai media, in Italia molto più che altrove – un conto è l’approvazione per il ricorso sistematico allo strumento dello sciopero, in modalità più o meno selvagge ma sempre foriere di disagi (e qualche volta di violenze e danni materiali ingenti) a scapito di chi vuole o deve viaggiare, lavorare, studiare, curarsi.

Forse è venuto il momento di prenderne atto: il ricorso eccessivo e improprio all’arma dello sciopero la sta rendendo sempre più obsoleta come strumento di lotta, un po’ come è successo per l’istituto del referendum, consunto e ormai quasi sepolto dall’uso eccessivo che i suoi promotori ne hanno fatto. Sfortunatamente da anni in Italia mancano numeri ufficiali e credibili sul numero di adesioni ai vari scioperi, che vengono monitorati accuratamente solo nella Pubblica Amministrazione, ma le poche e imprecise cifre che circolano sono sufficienti a dare un’idea degli ordini di grandezza in gioco. A fronte di 40 milioni di italiani critici con Israele, anche le maggiori piazze restano sempre al di sotto – qualche volta molto al di sotto – delle decine di migliaia di manifestanti. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza: nello sciopero del 22 settembre, indetto da sindacati di base (Usb) e altre sigle, le adesioni nella Pubblica amministrazione (l’unico settore che fornisce dati certi) non hanno raggiunto il 6%, e il numero totale di assenze per sciopero sono state un quarto di quelle “per altri motivi”. E dire che quello di lunedì 22 settembre era andato decisamente meglio del quasi-flop di venerdì 19, quando a proclamare lo sciopero era stata la CGIL.

Difficile fare calcoli precisi, ma – a meno di ipotizzare un comportamento completamente difforme del settore privato – si può stimare che il 22 settembre, su 40 milioni di italiani che disapprovano Israele, tra lavoratori in sciopero e cittadini in piazza la mobilitazione abbia coinvolto 2 milioni di persone, circa il 5% del totale dei critici di Netanyahu (sulla manifestazione di ieri bisognerà aspettare qualche giorno per fare i conti): nulla di paragonabile alle grandi mobilitazioni del passato,

Che lo sciopero sia uno strumento in declino non è cosa di cui stupirsi troppo. Il fenomeno è in atto in tutti i paesi europei da almeno un quarto di secolo, e ha cause strutturali ben note, prima fra tutte la contrazione del settore industriale e la terziarizzazione. In Italia, tuttavia, è lecito chiedersi se – a minare il successo degli scioperi – non agiscano anche altri fattori, non solo economici. Un primo fattore è la concentrazione delle astensioni dal lavoro nel settore dei trasporti pubblici, il più capace di propagare disagi: la solidarietà con gli scioperanti è messa a dura prova da forme di lotta che non colpiscono “il padrone” ma i comuni cittadini.

Ma il fattore più importante, probabilmente, è un altro: l’estrema e talora del tutto irragionevole politicizzazione degli scioperi. Sempre più sovente lo sciopero viene proclamato contro il governo, o comunque non su temi specifici, che hanno a che fare con la condizione dei lavoratori (salari, occupazione, sicurezza sul lavoro). E questo vale in special modo per il maggiore sindacato italiano, la Cgil, il cui leader si muove da tempo come un vero e proprio soggetto politico, con un’agenda in materia di immigrazione (referendum di maggio sulla cittadinanza) e persino di politica internazionale (scioperi pro Gaza).

La vocazione a trasformarsi in soggetto politico è, almeno in questo momento, così forte da trascinare la Cgil in azioni contra legem, come lo sciopero di ieri nei servizi pubblici. Quello sciopero è stato proclamato violando l’obbligo legale di preavviso di almeno 10 giorni, previsto dalla legge 146 del 1990. E la giustificazione addotta è illuminante: invocando la “difesa dell’ordine costituzionale” (uno dei pochi casi in cui la legge permette di scioperare senza preavviso) il sindacato non fa che confessare la propria trasformazione in soggetto politico, che non solo pretende di scioperare su questioni genuinamente politiche, ma pretende persino di fornire la corretta interpretazione della Costituzione, come se un indirizzo di politica estera sgradito al sindacato potesse essere considerato eversivo dell’ordine costituzionale.

Perché questa deriva, che fortunatamente non trascina tutte le sigle sindacali?

I maligni da tempo suggeriscono: perché Landini, in vista delle prossime elezioni politiche, aspira a prendere il posto di Schlein e Conte come leader del centro-sinistra. Da sociologo, mi sento di avanzare un’ipotesi più terra terra: la metamorfosi in soggetto politico è frutto degli insuccessi come attore economico. Un sindacato che ormai è fatto soprattutto di pensionati, e che è sostanzialmente assente nei teatri più difficili (lavoro nero e piccole aziende), è naturalmente portato a reinventarsi, cercando vie di sopravvivenza: la politicizzazione è una di queste.

PS. Le ultime notizie segnalano scontri, devastazioni e violenze. È paradossale per uno sciopero proclamato a sostegno della Flottiglia, la quale – comunque la si pensi – un grandissimo merito l’ha avuto: aver condotto un’azione assolutamente pacifica, in perfetto spirito gandhiano.

[articolo uscito sul Messaggero il 4 ottobre 2025]

Matematica e custodia della memoria – Le Lezioni Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci all’Università di Lubumbashi

6 Ottobre 2025 - di Letterio Gatto

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Dopo il successo dell’evento «Old and New trends in Mathematical Collaboration between Brazil and Italy» (https://sites.google.com/view/indamwrome25/homeAC), celebratosi a Roma dal 23 al 27 Giugno del 2025, durante il quale è stato siglato uno storico Memorandum of Understanding (MoU) tra il prestigioso “Istituto Nazionale di Matematica pura e Applicata” di Rio de Janeiro e l’Istituto Nazionale di Alta Matematica “Francesco Severi” a Roma, ecco servito, quasi su un piatto d’argento, un altro esempio di come la matematica, questa temuta sconosciuta, possa fungere da potente veicolo di diplomazia scientifica.

       Le notizie di rilievo, in tal senso, sono almeno due. La prima è che, dopo una pausa di circa due anni, la London Mathematical Society (LMS) ha rilanciato nel mese di Novembre del 2024 il già ampiamente collaudato programma Mentoring African Research in Mathematics (LMS-MARM).  La seconda è che il 21 Luglio del 2025, presso l’Università di Lubumbashi, in Repubblica Democratica del Congo, è stata inaugurata la prima edizione delle Lezioni “Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci” per la formazione matematica dei giovani ricercatori, affiancate dai laboratori “Mustapha Milambo” per il consolidamento pratico della teoria (https://unilu.lms-marm-africa.org/).

         Il filo che unisce le due notizie è che le predette lezioni, istituite in via permanente alla memoria dell’Ambasciatore d’Italia a Kinshasa Luca Attanasio, caduto il 22 febbraio 2021 in un attentato a Goma insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista del convoglio ONU che li trasportava, Mustapha Milambo, si sono tenute proprio all’interno della prestigiosa cornice del programma LMS-MARM. Che funziona in maniera semplice ed efficace.  Il consiglio direttivo, fino ad oggi guidato dal professor Frank Neumann dell’Università di Pavia, designa, all’inizio di ogni nuovo ciclo, quattro mentor allo scopo di affiancare nell’attività di ricerca matematica giovani studiosi affiliati ad altrettante università africane. L’incarico ha durata annuale ed è rinnovabile, previa valutazione positiva, per un ulteriore periodo di dodici mesi. Si tratta del termine entro il quale ci si attende un consolidamento di stabili collaborazioni scientifiche con le istituzioni africane coinvolte dal programma, quale indicatore misurabile della sostenibilità dell’intervento.

         Attivo da circa vent’anni,  il programma MARM ha già promosso, attraverso l’erogazione di appropriati contributi, collaborazioni con un ampio ventaglio di nazioni africane. Tra queste vale la pena di ricordarne alcune che figurano nella lista dei “paesi pilota”, come tali individuati dal Piano Mattei, quali  il Marocco, l’Etiopia, la Repubblica del Congo, il Kenya, la Costa d’Avorio, la Tanzania, il Ghana e il Senegal. Il settimo ciclo, tutt’ora in corso, ha attuato collaborazioni con i dipartimenti di matematica dell’École Normale Superieur in Gabon, dell’Università di Makurdi in Nigeria,  dell’Università di Dodona, in Tanzania e, per la prima volta, come anticipato, con quello dell’Università di Lubumbashi (UniLu), nella Repubblica Democratica del Congo, teatro del riuscitissimo esperimento di diplomazia scientifica ricordato in apertura, che si è svolto tra il 20 Luglio e il 1° Agosto.  Le attività di addestramento alla ricerca, spalmate lungo l’arco di dieci giorni, hanno visto l’alternarsi di lezioni monografiche a sedute di problem solving. Quest’ultime sono culminate con il workshop «Aujordhui on parle de Matématiques», realizzato nel contesto dei laboratori Mustapha Milambo, diretti dal professor Franck Kalala Mutombo, già autorevole direttore scientifico dell’African Institute for Mathematical Science, con sede in Senegal, e sostenuti dal direttore del dipartimento di Matematica, Professor Kumwimba Seya Didier. La peculiarità del workshop è consistita nell’affidare l’esposizione dei  seminari  esclusivamente ai giovani partecipanti, opportunità che questi ultimi hanno accolto con incontenibile e contagioso entusiasmo. Un ulteriore esempio, in aggiunta di altri che potrebbero farsi, sufficiente a destituire di fondamento ogni banale pregiudizio secondo cui  l’attuazione in Africa di uno qualsiasi di questi progetti di cooperazione matematica, vuoi della London Mathematical Society o vuoi dell’Unione Matematica Internazionale, equivalga all’insegnamento di argomenti elementari ad un capitale umano per lo più  inesperto.

 

 

Al contrario, la visita a Lubumbashi è stata, per chi scrive, un’esperienza di grandissimo valore  non solo umano ma soprattutto scientifico. Una gradita sorpresa quella di incontrare studenti di talento e profondamente motivati, animati da una irresistibile sete di conoscenza matematica accompagnata anche da una grande padronanza delle buone maniere. A titolo esemplificativo, in ogni circostanza ufficiale, essi sono abituati a rivolgersi gli uni agli altri usando quelle formule di cortesia ormai così rare in Europa (dove ci si dà tutti del tu), come l’uso del Monsieur, del Madame o del pronome «vous(il “lei”).  Se a tutto ciò si aggiunge una spruzzata di solida preparazione di base, per certi versi inattesa, non c’è da stupirsi che lezioni di durata programmata di novanta minuti si dilatassero fino a tre o quattro ore, mutandosi in discussioni vivaci, condotte con rigore e competenza ma anche con naturalezza e la stessa leggerezza e «amusement» con  cui si sarebbe potuto parlare di calcio al bar dello sport.   E’ vero che è più raro imbattersi, oggidì, in giovani così motivati negli atenei europei dotati di eccellenti infrastrutture, o è solo l’impressione di chi scrive? E se sì, perché?

         Lasciando la risposta dell’interrogativo alla sensibilità e/o all’esperienza delle lettrici e dei lettori, è doveroso segnalare che le intense attività matematiche sviluppate nell’ateneo congolese sotto l’egida dell’LMS-MARM, si sono concluse con una importante cerimonia di chiusura, a cui tutta l’Università (e non solo l’area scientifica) è stata chiamata a partecipare. In una raccolta atmosfera di ufficialità,  il Magnifico Rettore dell’Unilu, Gilbert Kishiba Fitula, alla presenza di Walter Noca, Console Onorario italiano a Lubumbashi, ha solennemente comunicato la decisione delle autorità accademiche di intitolare un’aula dell’UniLu (che nel 2025 ha celebrato il settantesimo anniversario dalla fondazione) alla memoria dell’Ambasciatore Attanasio e del Carabiniere Iacovacci. Eleggendola, nel contempo, quale teatro delle future prossime edizioni delle lezioni ad essi intitolate.

         Tale determinazione costituisce un importante tributo alla cultura diplomatica italiana per l’ottenimento del quale hanno concorso una molteplicità di attori e circostanze. Da una parte l’inesauribile energia del professor Kalala Mutombo, coadiuvato dal direttore del dipartimento, professor Didier, con il sostegno di tutte le componenti accademiche dell’UniLu, non solo del Rettore, ma anche anche del Prorettore Jean-Marie Dikanga Kazadi e del Preside della Facoltà di Scienze Assumani Salimini. Dall’altra l’appoggio convinto del Consolato Onorario a Lubumbashi, che ha permesso il raggiungimento di un risultato che, comunque, non sarebbe stato possibile senza il cruciale e generoso appoggio delll’Ambasciatore d’Italia  a Kinshasa, Dino Sorrentino. Egli ha infatti monitorato e sostenuto l’iniziativa sin dalle fasi iniziali, autorizzandone fin da subito il patrocinio da parte dell’Ambasciata. E non sono i soli importanti attori che hanno concorso alla realizzazione della magica atmosfera umana e scientifica delle lezioni “Attanasio e Iacovacci”:  oltre alla LMS,  non si può non menzionare un ruolo da protagonista da parte dell’International Mathematics Master (IMM), con sede a Trieste, da anni impegnata con programmi di educazione matematica in Africa e il supporto della Casa degli Italiani, presieduta dalla Signora Romy Muhemedi Kasongo.

Questi i fatti del progetto LMS-MARM a Lubumbashi. Una domanda sorge però spontanea. Perché? Più precisamente: la matematica può davvero contribuire allo sviluppo economico e sociale del continente africano? In che modo?

         Cominciamo col dire che sarebbe impreciso riferirsi alle nazioni africane come a paesi in via di sviluppo piuttosto che pensarle, invece, quali veri e propri laboratori di economie emergenti. Il punto è che l’Africa non è un continente povero, bensì una terra con tanti poveri. Il progresso economico o tecnologico delle sue nazioni più progredite, si pensi al Sudafrica, ma anche al Kenya, al Rwanda o al Senegal, convive con una miseria diffusa tra milioni di persone. Lodevoli sono le iniziative di numerose ONG o di ricche fondazioni filantropiche (tra cui spicca la Pupkewitz in Namibia e la AMKA, con sede a Roma, nella Repubblica Democratica del Congo), la  maggior parte delle quali opera a mo’ di pronto soccorso, per far fronte alle prime e più urgenti necessità. Fornendo cibo o acqua, per esempio, a popolazioni residenti in aree in cui il loro approvvigionamento è particolarmente difficile e/o in  porzioni di territorio neppure raggiunte dalla rete elettrica. In cui, insomma, manca davvero tutto. Molte delle azioni messe in campo, tutte lodevoli senza eccezioni, sono spesso di natura una tantum, con poche ragionevoli prospettive di innescare un cambiamento strutturale. Si tratta, insomma, di piccole e poche gocce in un oceano di necessità, che possono persino far fronte a situazioni urgenti di sopravvivenza ma non delineano alcuna visione di futuro sostenibile.

         A questo punto, la risposta alla domanda, perché?, non è difficile. E non può che rievocare l’iconica figura del già menzionato Luca Attanasio che, concedendo un’intervista al termine di una delle sue visite presso la Fondazione Amore e Libertà a Kinshasa, affermò: «La comunità sta accompagnando in una zona poverissima della società, delle persone che chiedono una cosa importante, chiedono di poter avere una formazione». Per Attanasio, insomma, la formazione è la chiave per combattere la povertà in modo strutturale. Unica via, se una ce n’è, per offrire, soprattutto ai giovani, l’opportunità di poter plasmare il proprio futuro. Un processo lento, questo, che può richiedere anche varie decine di anni, ma il cui sentiero va intrapreso subito, senza indugi,  con pazienza e determinazione, poiché i grandi cambiamenti richiedono tempi significativamente lunghi. Proprio come la crescita dell’essere umano che, nei primi anni di vita, senza la protezione dei genitori, è in balia delle forze della natura e diventa adulto solo in prossimità dei vent’anni. L’esperienza della storia e la storia dell’esperienza suggeriscono che la crescita di una società, di una comunità di individui, anche in termini di coscienza e di autodeterminazione collettiva, non può esimersi dall’obbedire a simili principi di lenta gradualità.

         Una volta, però, che si sia stipulato, seguendo Attanasio, di attribuire alla formazione un ruolo decisivo per la lotta alla povertà e alle disuguaglianze, perché la più urgente sarebbe quella matematica? Per quale ragione si dovrebbe investire nella ricerca in una disciplina (la cui natura è ignota ai più)  l’importanza  della quale potrebbe apparire risibile se paragonata alla fisica, all’ingegneria, alla medicina o, per dirla in modo ancora più brutale, alle scienze agrarie? La risposta, purtroppo, non è solo quella, ovvia, che la matematica è alla base di tutti i campi dello scibile, una frase che, per chi scrive, non ha neppure molto senso. Certo, il dubbio che il potenziamento della ricerca matematica possa somigliare ad una preoccupazione da “ricchi”, che non necessitano di cimentarsi con la lotta quotidiana per la sopravvivenza, sorge.  E’ però vero il contrario. La supremazia strategica della matematica, rispetto ad altre pratiche scientifiche, è che essa è facilmente implementabile in economie poco sviluppate, con limitate, se non inesistenti, risorse finanziarie. Detta in modo più brutale,  la matematica costa poco. E’ un kit di primo intervento, che non fornisce spaziose sale operatorie attrezzate a puntino (laboratori di fisica, chimica o ingegneria), bensì una cassetta del pronto soccorso, con rimedi semplici, non costosi ma la cui efficacia può essere risolutiva.

         Tale intuizione di fondo è fatta propria anche dalle Nazioni Unite, soprattutto nell’enunciazione dei 17 Sustainable Development Goals. L’esortazione di base è quella di promuovere la cultura STEM nelle economie emergenti. STEM è l’acronimo di Science, Technology, Engineering e Mathematics. Mathematics è l’utima parola chiave dell’acronimo, quasi come se essa non dovesse essere inclusa nella Science della sua prima lettera. La ragione è, tuttavia, che se occorrono capitali e finanziamenti per attuare programmi tecnologico/ingegneristico di primo livello,  per la matematica basta poco. Una lavagna, dei fogli di carta, voglia di pensare. Una connessione internet, forse, ma è praticamente tutto. In cambio di cosa?

         Diciamola tutta, allora. Il nostro PC, così come lo conosciamo, è il risultato dei primi studi puramente teorici, di natura puramente teorica, di teoria della computabilità ideata dal matematico Turing, il medesimo che scongiurò l’attacco aereo nazista su Londra. Si obietterà che siamo già nell’era dei supercalcolatori quantistici, i quali rivoluzioneranno, come già hanno cominciato a fare, il nostro modo di interfacciarci con la macchina. Scopriremmo, però, che il «quantum computing» è anch’essa una teoria matematica puramente teorica. Cioè.  Alla portata di tutte le menti brillanti, indipendentemente dal censo e, quindi, anche di quelle delle società più povere, purché le si sappia riconoscere ed orientare. Stesso discorso vale per le scienze  dei Big Data, delle reti neurali, persino dell’intelligenza artificiale (ecco un link per il lettore scettico: https://arxiv.org/abs/2501.10465), dell’apprendimento automatico. Invero, tutti gli ultimi ritrovati della tecnologia nascono da ricerche di matematica pura. In altri termini,  il potenziamento della ricerca matematica, nel quand’anche debole tessuto educativo delle economie emergenti, è in grado di allargare drammaticamente la platea dei detentori di know-how tecnologico, rendendosi potenzialmente interessanti per imprese straniere che si disporranno a collaborare alla pari,  fornendo capitali per realizzare infrastrutture progettate e/o gestite con competenza da energie intellettuali locali. La matematica, insomma è,  questa è la tesi,  il software necessario per lo sviluppo dell’hardware tecnologico. Attenzione, non la si vuole spacciare come un magico toccasana, un sostituto delle infrastrutture tecnologiche necessarie a sviluppare tutte le predette pratiche. Si può addestrare, e di fatto ciò è già in essere in varie nazioni, come Kenya e Sudafrica, per esempio,  un capitale umano all’uso di tali strumenti pur senza che questo disponga di una specifica competenza matematica o pur, esagerando, essendo totalmente ignaro di essa. Tuttavia, ciò condannerebbe le società beneficiarie di tali tecnologie ad un ruolo di subalternità poiché, se l’implementazione dell’esistente può prescindere da una consapevolezza matematica, la sua innovazione solo sarebbe possibile attraverso la diffusione di una sostanziosa cultura matematica.  Ed è ciò che costituisce il principio ispiratore dell’importante African Institute of Mathematical Science che possiede centri in Sudafrica, Senegal, Ghana, Rwanda e Camerun, e promuove master e ricerca in matematica applicata nella certezza che sia il primo immediato cammino per l’ammodernamento delle giovani società africane.

         Ultimo, ma non meno importante, aspetto da mettere in evidenza è che, sebbene la Repubblica Democratica del Congo non figuri (ancora) nella lista dei Paesi Pilota del Piano Mattei, la Regione Piemonte ha incoraggiato l’esposizione del proprio brand per le lezioni “Attanasio e Iacovacci”, per tramite dell’Assessore alla Cooperazione Maurizio Marrone, che nelle stesse ha ravvisato una indubitabile aderenza ai principi ispiratori del Piano Mattei, il quale pone l’istruzione e la formazione tra le sue sei direttrici fondamentali di intervento, al fine di favorire uno sviluppo sostenibile e «non predatorio» nel continente africano (si veda per esempio https://www.mur.gov.it/it/piano-mattei-ricerca-e-alta-formazione).

Le Lezioni “Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci” sono dunque un esempio pilota di come rendere operativo il Piano dal basso. Progettando e implementando una proposta formativa concreta in grado di valorizzare capacità locali per mezzo del perfezionamento dei giovani ricercatori. Il supporto morale dell’Ambasciata d’Italia, visibile attraverso il ricordato patrocino e la sua presenza più che simbolica, si allinea pienamente alle linee guida del Piano, che contempla il coinvolgimento di rappresentanze diplomatiche come parte attiva del “Sistema-Paese” italiano. I Laboratori Mustapha Milambo, pensati per addestrare alla pratica delle nozioni apprese, per incoraggiare approfondimenti e per promuovere seminari organizzati e tenuti da giovani potenziali ricercatori, come nel già ricordato “Aujourd’hui on parle de mathématiques”, ha dato voce e visibilità alle riflessioni e il talento dei giovani partecipanti, incarnando il tipo di formazione integrata, interattiva e accademicamente robusta che il Piano Mattei prevede per promuovere uno sviluppo locale concreto, replicabile e sostenibile.

         Per questo le lezioni Attanasio e Iacovacci, coi Laboratori Milambo, sono state non solo un importante esperimento scientifico didattico, ma anche un esempio di come i piani, che possono essere condivisi o meno,  criticati o migliorati, non vedranno mai alcuna attuazione se non si prova ad impegnarsi, al di là delle sfumature di vedute, a farli funzionare così, in prima persona, anche in piccole realtà e con piccoli passi. Come a Lubumbashi, banco di prova e teatro di applicazione sperimentale dei principi del Piano, senza che essa sia città di un Paese Pilota. Sulla carta.

Letterio Gatto

docente di Algebra Lineare e Geometria

Politecnico di Torino

Sulla immaturità dell’opinione pubblica – Due guerre, due misure

1 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

In un recente interessante articolo su Repubblica Ezio Mauro osserva con compiacimento il risveglio dell’opinione pubblica occidentale che, colpita dalla tragedia di Gaza, finalmente “agisce con autonomia e spontaneità”, come “soggetto indipendente” di cui partiti e governo “devono tenere conto”.

E tuttavia il suo compiacimento per il formarsi di un blocco di opinione che pone risolutamente la questione di Gaza non gli impedisce di sollevare alcuni interrogativi del tutto logici, ma che in questo momento pochi hanno il coraggio di porre. Primo, come mai la solidarietà con il popolo palestinese elude la questione della “rappresentanza terroristica che Hamas fa dei palestinesi”, ed evita accuratamente il problema degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi? Secondo, come mai l’opinione pubblica è compattamente schierata con le vittime civili palestinesi, ma è molto più tiepida sulle atrocità subite dai cittadini ucraini?

Mi sembrano due domande importanti, ma le risposte mi convincono solo in parte. Secondo l’ex direttore di Repubblica la differenza starebbe nella gestione delle due crisi, tutta politico-giuridica quella di Zelensky, tutta emotiva (e mediatica, aggiungo io) quella dei Palestinesi. Di conseguenza, l’opinione pubblica si sentirebbe pienamente coinvolta nella tragedia mediorientale, ma assai meno in quella ucraina. Anzi, se ho ben compreso il ragionamento, quella che chiamiamo opinione pubblica non sarebbe esattamente tale, perché la componente emotiva sarebbe prevalente su quella razionale. Insomma, il “blocco di opinione” attuale sarebbe una “forma sociale transitoria”, più simile a una folla che a un soggetto collettivo maturo e stabile.

Temo che le cose stiano molto peggio di così. Quando si nota l’asimmetria di reazioni alle due guerre – Gaza e Ucraina – si dimentica un fattore cruciale: i media. Una ricognizione imparziale di quel che giornali, radio, televisioni, siti internet hanno fatto in questi ultimi due anni non può che mettere in evidenza il doppio standard di attenzione. Le immagini dei bambini di Gaza hanno letteralmente invaso le nostre vite, mentre quelle dei bambini ucraini non solo uccisi, ma rapiti e deportati dai russi, hanno attirato un’attenzione incomparabilmente inferiore (in un rapporto che, a spanne, mi sento di valutare in 1 a 20). Che cosa penserebbe oggi l’opinione pubblica se i media avessero snobbato il conflitto israelo-palestinese, e ci avessero martellati con racconti patetici di bimbi rapiti, madri disperate, famiglie distrutte, quotidiane violenze dei soldati russi? E dire che il teatro di guerra ucraino è molto più accessibile alla stampa del teatro di Gaza, e dunque – sulla carta – avremmo dovuto aspettarci molti più reportage anti-russi che anti-israeliani.

E qui veniamo a una seconda, decisiva, differenza. Le vittime palestinesi hanno dalla loro un formidabile vantaggio mediatico: sono soggetti poveri, e oppressi da una potenza occidentale. Questo ne fa il soggetto ideale per una narrazione altruistico-emotiva, che ha l’opportunità di combinare in un unico copione due formidabili meme della cultura occidentale: l’ideale cristiano-marxista del riscatto degli ultimi, e l’odio per la propria civiltà (“il singhiozzo dell’uomo bianco”, per dirla con Pascal Bruckner).

Né l’uno né l’altro potevano essere attivati nel caso dell’aggressione di Putin all’Ucraina. Gli Ucraini non sono percepiti né come poveri, né come un popolo oppresso. Quanto alla Russia, non è una potenza occidentale, capitalistica, opulenta. Possiamo biasimare la violazione del diritto internazionale, l’aggressione a uno Stato sovrano, ma ci è difficile attivare quei sentimenti di identificazione e ripulsa che sentiamo emergere così forti quando i media ci mostrano i fotogrammi della distruzione di Gaza.

In questo senso si comprende perfettamente il doppio standard dei media. È un fatto di notiziabilità e di share: quel che ha funzionato con i bambini palestinesi, non poteva funzionare altrettanto bene con quelli ucraini. E il discorso si farebbe ancora più mesto se dovessimo ricordare le tragedie e i massacri completamente ignorati dai nostri media e, per riflesso, dalle nostre opinioni pubbliche, come le recentissime guerre civili in Sudan e in Myanmar.

La realtà, tanto evidente quanto difficile da pronunciare, è che le nostre opinioni pubbliche sono fortemente eterodirette, e profondamente immature. Se non lo fossero, spenderebbero la maggior parte delle loro energie per capire i problemi e immaginare soluzioni, e non per coltivare emozioni che fanno sentire buoni, umani, o “dalla parte giusta della storia”.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 settembre 2025]

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