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Società

A proposito di suicidio assistito – Uscita di sicurezza

6 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

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Di fine vita, suicidio assistito, testamento biologico, eutanasia si è tornati a parlare con particolare intensità nelle ultime settimane. Ad accendere l’attenzione sono stati non solo alcuni recenti passaggi legislativi e giudiziari – in particolare i disegni di legge che il Parlamento, con colpevole ritardo, discuterà a settembre – ma anche gli accorati, commoventi, appelli di alcune donne la cui volontà di porre fine alla loro vita si è scontrata con l’assenza di una legge organica e con le pastoie delle procedure previste dalle leggi vigenti.

Ma qual è l’oggetto del contendere?

Per quel che ho capito leggendo le proposte di legge, fondamentalmente il conflitto è fra quanti vorrebbero estendere il più possibile il diritto a essere aiutati a morire, coinvolgendo il sistema sanitario nazionale e riducendo al minimo i requisiti per esercitare tale diritto, e quanti invece vorrebbero introdurre requisiti stringenti ed escludere il servizio sanitario nazionale,

Nella versione più restrittiva, il diritto al “suicidio assistito”, oltre ad alcuni requisiti ovvi (come la gravità della patologia e la volontà di morire liberamente espressa) prevede che il paziente si sottoponga a cure palliative, sia tenuto in vita da “trattamenti di sostegno vitale” (senza i quali morirebbe), e sia in grado di autosomministrarsi il farmaco letale. Nella versione più permissiva, invece, si consente l’accesso al suicidio assistito anche a chi non dipende da trattamenti vitali, rifiuta le cure palliative, e non è in grado di auto-somministrarsi il farmaco. Quanto al requisito della volontà liberamente espressa dal paziente, alcuni ritengono che siano sufficienti le indicazioni fornite nelle disposizioni anticipate di trattamento (DAT, o testamento biologico), altri pensano che non si possa “somministrare la morte” sulla sola base di disposizioni formulate in un passato più o meo remoto.

Entrambe le posizioni, quella permissiva e quella restrittiva, hanno le loro buone ragioni. La posizione permissiva difende il diritto all’autodeterminazione e al rifiuto dei trattamenti sanitari, entrambi costituzionalmente garantiti (art. 13 e 32). La posizione restrittiva poggia sulla preoccupazione che, indebolendo sempre di più i requisiti di accesso al suicidio assistito, si finisca per aprire la strada a suicidi indotti dalle pressioni familiari verso quei malati che il welfare domestico non è più in grado di gestire (una preoccupazione forse irrilevante in un paese scandinavo, ma più che comprensibile in Italia, dove lo Stato scarica sulle famiglie l’onere dell’assistenza agli anziani).

Se però esaminiamo da vicino i principali disegni di legge proposti – in particolare quello governativo e quello dell’associazione Luca Coscioni – possiamo notare, in entrambi i testi, una comune presenza e una comune assenza. La comune presenza è quella di una asfissiante burocrazia etico-sanitaria-giudiziaria. Chi vuole essere aiutato a morire è costretto a infilarsi in una trafila estenuante, umiliante, e piena di incertezze. Una trafila che, si noti, non riguarda solo i casi controversi, in cui il dubbio è più che legittimo, ma affligge chiunque, compresi i casi eclatanti e per così dire ovvi di cui si è parlato tante volte (Luana Englaro, Piergiorgio Welby, Dj Fabo, e nei giorni scorsi Martina Oppelli e Laura Santi).

La comune assenza è quella di misure che prendano sul serio i meccanismi di formazione della volontà suicidaria, che non dipende solo dalla gravità della malattia, ma anche dalle condizioni in cui i malati si trovavo a vivere e interagire con gli altri. Anche su questo vi sono state, nei mesi scorsi, testimonianze toccanti, ma di segno opposto. Pazienti come Dario Mongiano, Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon, hanno chiesto di essere ascoltati dalla Corte Costituzionale, allora in procinto di pronunciarsi sul fine vita. Il loro ragionamento ribalta completamente la prospettiva. Anziché chiedere allo Stato di permettere loro di esercitare il diritto alla morte, chiedono allo stato di proteggerli dalla tentazione di ricorrervi. È vero che si tratta di pazienti in condizioni meno estreme di quelle che hanno afflitto i casi più noti, da Englaro e Welby in poi. Ma il loro ragionamento merita attenzione. Per loro quella del suicidio è una tentazione che nasce anche dall’abbandono, dalla mancanza di cure e sostegno. E il concedere il diritto al suicidio rischierebbe di diventare una comoda scorciatoia che lo Stato imbocca perché né lo Stato stesso né la società civile riescono a fare abbastanza per sostenere la volontà di vivere. Se passasse l’idea del suicidio assistito, dice uno di loro (affetto da tetraparesi spastica), “io potrei richiederlo. E non voglio che lo Stato mi dia questa possibilità. La mia vita sarebbe meno protetta perché tutto dipenderebbe esclusivamente dalla mia capacità di resistere al dolore. Sarei lasciato solo, ricadrebbe tutto sulle mie spalle e in alcuni momenti è molto difficile fare affidamento soltanto sulla propria forza di volontà” (corsivo mio).

È una mossa paradossale: si chiede meno libertà, per ritrovare la forza di esercitare la vera libertà, che è quella di voler vivere, nonostante tutto e a dispetto di tutto. Un po’ come Ulisse che chiede ai marinai di legarlo all’albero della nave, perché sa che – se fosse libero – cederebbe al canto delle sirene e morirebbe.

Chi ha ragione?

Forse tutti e nessuno. Il suicidio è l’uscita di sicurezza da una condizione insopportabile e non di rado umiliante. Uno Stato civile non può ergersi ad arbitro di chi può e chi non può passare per quella porta. Ma nemmeno può continuare a fare così poco perché non siano troppi a volervi transitare per quella porta.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 agosto 2025]

Chi ha paura di lavorare?

6 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoSocietà

Hanno suscitato qualche stupore i dati di giugno sul mercato del lavoro che l’Istat ha rilasciato pochi giorni fa. Da essi, infatti, risulta che negli ultimi 12 mesi gli aumenti di occupazione, che continuano ormai da oltre 3 anni, hanno riguardato solo la fascia dei lavoratori più anziani (50-64 anni), mentre tutte le altre fasce d’età accusano un calo occupazionale. Complessivamente, a dispetto di questi cali, si osserva una crescita del tasso di occupazione (+0.6%), che tocca il nuovo record storico del 62.9%. Se però andiamo a vedere in quali segmenti della popolazione gli aumenti sono più significativi, scopriamo che sono soprattutto le donne a sostenere la crescita del tasso di occupazione, con un incremento (+0.8%) doppio rispetto a quello degli uomini (+0.4%).

Altrettanto significativa la dinamica degli attivi (occupati più disoccupati in cerca di lavoro) al netto della componente demografica: in aumento fra gli anziani (50-64 anni), in diminuzione fra i giovani (15-34 anni), in netto calo fra gli adulti (35-49 anni).

La spiegazione standard per questo tipo di dinamiche è che gli anziani restano al lavoro più a lungo per non perdere benefici pensionistici, mentre l’occupazione femminile è più dinamica di quella maschile semplicemente perché il tasso di occupazione delle donne è il più basso d’Europa, e quindi i margini di incremento sono più ampi. Nessuna spiegazione, per quanto ne so, è invece stata avanzata fin qui per il fatto che il ritiro dal mercato del lavoro (verso l’inattività) tocchi più i giovani-adulti (35-49enni) che i giovani-giovani (15-34enni).

Queste spiegazioni non sono sbagliate, ma hanno una caratteristica comune: quella di metterci al riparo dal riconoscere altre, talora sgradevoli, con-cause dei processi in atto. Il fatto, ad esempio, che gli anziani restino al lavoro più degli altri, e lo facciano per massimizzare i benefici pensionistici, non spiega come mai i non-anziani tendono a ritirarsi dal mercato del lavoro. E nasconde la bassa (e calante) propensione al lavoro dei giovani in età lavorativa (25-34 anni).

Così, spiegare la maggiore dinamica del tasso di occupazione femminile con l’ampiezza del “serbatoio” di donne inoccupate, nasconde la circostanza che le donne sono molto, ma molto più istruite dei maschi, e anche semplicemente per questo danno un maggiore contributo alla crescita occupazionale. I giovani maschi, esigenti e spesso poco preparati, sono il vero anello debole del mercato del lavoro.

Quanto alle fasce di età giovanili e quasi-giovanili (dai 15 ai 49 anni) bisogna osservare che le categorie Istat dei 15-34enni e dei 35-49enni ricalcano grossolanamente la distinzione fra la più giovane generazione Z (centennials, o zoomers) e la meno giovane generazione Y (millenials). Ebbene, grazie a ricerche e indagini demoscopiche, qualcosa sappiamo degli atteggiamenti esistenziali di queste due generazioni. Secondo un’indagine dell’istituto Piepoli la generazione Z, essendo cresciuta in un periodo di crisi economica e di disoccupazione, tende – più della generazione Y – a cercare un posto di lavoro stabile e sicuro, e a tenerselo stretto quando lo ottiene. Secondo un’altra indagine, condotta da EURES (European employment services), i Millenials (generazione Y) tendono a dare una particolare importanza all’equilibrio fra tempo libero e lavoro, e a cercare attivamente nuove opportunità se un dato lavoro non li soddisfa. Di qui un maggiore attaccamento al lavoro della generazione più giovane (Z) rispetto a quella precedente (Y).

Il che, guarda caso, è precisamente quel che l’andamento occupazionale degli ultimi 12 mesi registra: la fuga verso l’inattività, che accomuna entrambe le generazioni, è più accentuata per la fascia 35-49 anni (millenials) che per la fascia 15-34 anni (centennials). Forse, contrariamente a quanto spesso si sente affermare, l’anello debole della catena lavorativa non sono i giovani-giovani, i cosiddetti nativi digitali, ma gli ex-giovani, che la rivoluzione di internet l’hanno attraversata.

Zuppa di Porro

4 Agosto 2025 - di Dino Cofrancesco

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L’intervista che spiega cos’è il pensiero egemone di sinistra

Intollerabile: ormai ‘Il Mulino’ è diventata una rivista conservatrice

L’intervista di Piero Ignazi a Caterina Giusberti (‘La Repubblica’ del 1° agosto) è da incorniciare. Spiegherà ai posteri cos’è stato il pensiero egemone in Italia, a partire dagli anni sessanta, meglio di tante analisi sociologiche.

Già Professore ordinario di ‘Politica comparata’, Ignazi è il tipico ideologo di regime. Giuseppe Bottai lo avrebbe accolto trionfalmente nello staff di ‘Critica fascista’. Nato sotto la Repubblica, ha collaborato alla ‘Repubblica’ e poi al ‘Domani’: lo stile di pensiero, passando dalla camicia nera alla camicia rossa, non cambia. Nella noiosa controversia sul ‘Mulino’, volta ad accertare se ha mutato pelle, Ignazi non si chiede -il weberiano lavoro intellettuale come professione è roba dell’altro ieri – se la rivista, diretta da Paolo Pombeni, sia una buona rivista, aperta alle problematiche storiche, culturali sociologiche del mondo moderno, ma se sia ancora di sinistra ovvero se abbia ancora i requisiti per essere considerata una pubblicazione rispettabile. Nel Medio Evo, quando i dottori della Sorbona volevano dare il colpo di grazia ai loro avversari teologi insinuavano un terribile sospetto: ”Ma allora non credi in Dio?” Oggi il sospetto infamante è: “Vuoi vedere che non sei di sinistra?.

Nella sinistra italiana—sempre antagonista de facto, al di là delle retoriche liberali adottate dopo il secondo ’89—la mannaia ormai cade regolarmente sulla testa di chi è conservatore. Faccio fatica, scrive Ignazi, a individuare ‘Il Mulino’ “come sinistra. Le posizioni di sinistra sono aperte ai nuovi diritti civili, portano alla riduzione delle disuguaglianze e alla giustizia sociale”. E sappiano tutti che stare a destra significa opporsi ai diritti civili, promuovere le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, plaudire al genocidio palestinese etc. Se pensiamo che la stragrande maggioranza degli scienziati politici italiani (più politici che scienziati, per la verità) la pensa come Ignazi c’è da tremare per il futuro delle nostre Facoltà umanistiche.

Per quanto riguarda ‘Il Mulino’, va ricordato che nacque sulla base di un programma culturale e politico degasperiano – l’incontro tra cattolici non tradizionalisti e laici anticomunisti. Se Ignazi dovesse ricostruirne la storia, farebbe come gli stalinisti evocati da Milan Kundera nel bellissimo Libro del riso e dell’oblio: cancellerebbe nella foto dei primi redattori della rivista nomi scomodi, come Augusto Del Noce e, forse, persino Nicola Matteucci.

IL RITORNO DELLA GUERRA

4 Agosto 2025 - di Secondo Giacobbi

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Dunque la guerra è tornata, sorprendendo molti, che si illudevano che il fenomeno guerra potesse ormai considerarsi in via, se non di estinzione, di crescente contenimento.  Quasi impensabile poi che la guerra esplodesse in Europa ove, da tre quarti di secolo, si viveva nella pace e nell’abbondanza.  Così nel 2011 uscì un libro di Steven Pinker sul “declino della violenza” nella nostra epoca che, pur controverso, corrispondeva a persuasioni comuni.  La riesplosione della guerra in Europa (Ucraina) in forme brutalmente convenzionali e in Palestina, in forme vicine a pratiche di genocidio, ci interroga profondamente e ripropone un dilemma che sembrava superato: la guerra e la violenza provengono da cause circostanziali e da una pluralità di fattori scatenanti che non implicano necessariamente la presenza dentro l’uomo di una sua spinta intrinseca alla violenza oppure il richiamo della violenza è pur presente in noi, almeno potenzialmente, come parte ineludibile di noi stessi? Propendo, ahimè, per questa seconda ipotesi. Peraltro già proprio Kant, nel suo “Per la pace perpetua” scrisse: “lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale (stato “naturalis”), è piuttosto uno stato di guerra”. E a Foucault è attribuita la definizione per cui “ la politica è la guerra continuata con altri mezzi “, che rovescia e inverte la nota definizione di von Clausewitz secondo cui “ la guerra è la politica continuata con altri mezzi “. E’ una dichiarazione che ha fatto osservare allo psicoanalista James Hillman “allora la guerra è una conseguenza della nostra natura politica?”. Si pone qui una questione di estremo, e drammatico, interesse: per lo più anche in quei pensatori che ritenevano che la spinta alla violenza faccia parte di una “natura umana”, a tale spinta veniva contrapposta una, ancor più forte, spinta alla socialità ed allo spirito di collaborazione. Ricondotta ad una simile antinomia dualistica la socialità, sia nella sua forma inter-individuale sia nelle sue forme più complesse e istituzionali, appariva la risorsa cui affidare principalmente il contenimento della violenza, che nell’uomo, ricordiamocene, va ben al di là della “aggressività” presente in tutti gli animali e che in essi è al servizio dell’autodifesa, del controllo del territtorio, della ricerca del cibo e dell’accoppiamento.  Nell’uomo, poi, la violenza trova anche una sua forma legittimata e istituzionalizzata, la guerra appunto. Una simile forma di violenza organizzata non solo non è in antitesi alla socialità, ma trova in essa anche alimento e potenza distruttiva. Le guerre che gli uomini sono in grado di portare avanti con tanta frequenza presuppongono, infatti, e utilizzano, forme diverse ed estremamente complesse di coesione, condivisione identitaria e organizzazione gerarchica e sociale. Già ai primordi della storia della nostra specie fu certamente soprattutto la capacità di cacciare in gruppo a consentire ad un animale quasi privo di armi corporee (né zanne, né artigli e ridotta potenza muscolare) di diventare da facile preda lui stesso  un predatore che, grazie anche all’invenzione di armi sempre più efficaci, si trasformò nel più temibile antagonista degli altri animali, “Homo necans” secondo la definizione che Walter Burkert, sulla scia di Konrad Lorenz, ha proposto per la specie “sapiens”. L’antropologo Francesco Remotti ha sottolineato come lo straordinario successo predatorio dell’uomo e la sua attitudine a organizzare eserciti per la guerra trovava origine dalla sua capacità di produrre “coordinamento sociale delle azioni offensive di gruppo”. Ed il filosofo Sadun Bordoni, interrogandosi sui venti di guerra che tornano a minacciare l’Europa e il mondo, sottolinea che recenti sviluppi nelle scienze biologiche e antropologiche consentono di rileggere la storia evolutiva della nostra specie, riconoscendo nella guerra un fenomeno che ha profonde radici nella nostra storia naturale. Del resto già Freud, scrivendo proprio sul tema della guerra, sosteneva la presenza di spinte potentemente aggressive e autodistruttive nello psichismo umano e concludeva che “quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro”.

BIBLIOGRAFIA

Sadun Bordoni G. “Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale”, Il Mulino.

Burkert W., “Homo necans. Antropologia del sacrificio”, ed. Jouvence.

Clausewitz von C., “Pensieri sulla guerra “, ed. Theoria.

Foucault M., “Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti”, Mimesis.

Freud S.,  “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte “, Bollati Boringhieri.

Hillman J., “Un terribile amore per la guerra”, Adelphi.

Lorenz K.,  “L’aggressività. Il cosiddetto male”, Il Saggiatore.

Kant I., “Per la pace perpetua”, Editori Riuniti.

Pinker S., “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”, Mondadori.

Remotti F., “Guerra: perché sì, perché no”, in L’Educazione sentimentale, aprile 2023, rivista di Psicosocioanalisi, Franco Angeli.

Requiem per il mito dei due Stati

31 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non bastavano le divisioni su tutto il resto. Ora, grazie alla mossa di Macron (annuncio che a settembre la Francia riconoscerà lo stato di Palestina), l’Europa è ancora più divisa di prima pure sulla Palestina. Fino a pochi mesi fa nessuno dei grandi paesi europei riconosceva lo Stato palestinese, ora Spagna e Francia controbilanciano le posizioni più prudenti (o timide, secondo i critici) di Germania, Italia, Regno Unito. Su una cosa, tuttavia, la maggior parte dei governi europei (e più in generale di quelli occidentali) pare essere d’accordo: in prospettiva, la soluzione non può che essere quella dei “due Popoli, due Stati”. Anche l’Italia è su questa linea. In un’intervista a Repubblica la premier si è spinta a formulare il dubbio che “il riconoscimento dello Stato di Palestina, senza che ci sia uno Stato della Palestina, possa addirittura essere controproducente” in quanto distoglierebbe l’attenzione dal vero problema, che è di renderlo effettivamente possibile, uno Stato palestinese.

E tuttavia anche questa posizione, e a maggior ragione quella dei critici di Giorgia Meloni, mi sembra eludere il problema preliminare: quali dovrebbero essere i confini di questo fantomatico Stato di Palestina?

Alcuni parlano dei confini stabiliti dall’ONU nel 1947 (un po’ meno del 50% della Palestina storica ai Palestinesi), confini che già nel conflitto del 1948 Israele aveva modificato  a ulteriore proprio favore. Altri parlano dei “confini del 1967”, intendendo quelli anteriori alla “Guerra dei 6 giorni”, ovvero i confini emersi alla fine del conflitto del 1948, particolarmente favorevoli a Israele. Altri ancora si accontenterebbero di assegnare allo Stato di Palestina la striscia di Gaza e l’intera Cisgiordania (la cosiddetta West Bank), oggi quasi interamente (per più dell’80%) controllata da Israele. Senza parlare dello spinosissimo problema di Gerusalemme, che Israele si è annessa ma che l’Onu avrebbe voluto sotto controllo internazionale.

Tutti però sembrano ignorare che ciascuna di queste soluzioni, compresa l’ultima – la più favorevole a Israele – è di fatto impraticabile. Gli Israeliani non possono cedere di nuovo Gaza (da cui si erano ritirati nel 2005) senza la previa distruzione di Hamas. Quanto alla Cisgiordania, troppo spesso si dimentica che è un labirinto controllato dall’esercito israeliano (la zona A, l’unica interamente soggetta all’autorità palestinese, è puntiforme, completamente priva di continuità territoriale, e copre meno del 20% del territorio). Se davvero volesse cedere l’intera Cisgiordania ai palestinesi, Israele dovrebbe convincere centinaia di migliaia di coloni, blanditi negli ultimi decenni a fini elettorali, ad abbandonare terre che ormai considerano loro.

Insomma, vie di uscita ragionevoli e praticabili non se ne vedono. Anche se l’intera comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, fosse favorevole alla soluzione dei “due Popoli, due Stati”, resterebbero il dato di fatto che, a dispetto dei molti crimini di guerra commessi, Israele non è stata in grado di cancellare Hamas, e il dato di realtà per cui, anche senza Netanyahu, sarà difficilissimo estirpare i coloni israeliani dalla Cisgiordania.

Ecco perché baloccarsi con la formula “due Popoli, due Stati”, pur ragionevole in linea di principio, è una ipocrisia. Il vero dramma dei due popoli che si contendono la Palestina sono i governanti che si sono scelti e che, soprattutto negli ultimi 20 anni, hanno fatto deragliare il processo di pace, già molto fragile dopo gli accordi di Oslo (1993). La striscia di Gaza sarebbe un posto fiorente se i miliardi dollari che la comunità internazionale le ha destinato negli ultimi 20 anni fossero stati usati per il benessere dei suoi abitanti anziché per rimpinguare gli arsenali di armi contro Israele. La Cisgiordania sarebbe oggi pronta per far nascere lo Stato palestinese se dopo gli accordi di Oslo gli israeliani vi avessero progressivamente ridotto i propri insediamenti, anziché moltiplicarli.

Ora Gaza è distrutta, e la Cisgiordania è ipotecata. Noi continuiamo a parlare dei due Stati, della crudeltà di Israele, del dramma dei palestinesi. Ma nessuno osa ammettere che nessuna vera soluzione è alle porte e che, anche se Hamas si arrendesse e Netanyahu andasse in prigione, la loro eredità è così pesante da ipotecare il futuro prossimo. Speriamo non anche il futuro remoto.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2025]

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