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A proposito dell’estrema destra in Europa – Fascismo o indietrismo?

12 Maggio 2025 - di fondazioneHume

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Secondo la maggior parte degli osservatori e degli studiosi di politica quello cui stiamo assistendo in Europa è una (ulteriore) avanzata elettorale dell’estrema destra. Qualcuno, pensando agli ultimi sondaggi che indicano l’AfD (Alternative für Deutschland) come primo partito della Germania, arriva a parlare di un pericolo neo-nazista incombente. Né molto più rassicuranti appaiono le notizie che arrivano dalla Francia (successi di Marine Le Pen), dal Regno Unito (successi del trumpiano Nigel Farage), dalla Romania (successo dell’euroscettico George Simion, bollato come “di estrema destra”).

Da questa diagnosi derivano, tipicamente, due contromosse politiche: primo, l’invito all’opinione pubblica a mobilitarsi contro l’onda nera neo-fascista o neo-nazista montante; secondo, il tentativo di usare la legge per impedire a determinati leader e/o a determinate forze politiche di partecipare alla competizione elettorale. Il risultato, tuttavia, per ora è soltanto l’ulteriore crescita di consensi verso i partiti bollati come di estrema destra.

Qui vorrei proporre un’ipotesi: e se l’avanzata di queste forze dipendesse anche dalla nostra pigrizia di analisti? Detto in altre parole, siamo davvero sicuri che l’etichetta di partiti di “di estrema destra”, o peggio ancora di movimenti “neo-nazisti”, colga l’essenza della protesta che avanza in Europa? Siamo sicuri che non esista una definizione più aderente alla realtà? E se, alla base del successo di certe forze politiche, vi fosse anche la nostra incapacità di comprenderne la natura?

Se proviamo a dare una rapida occhiata ai programmi, agli slogan, alle dichiarazioni dei leader, troviamo fondamentalmente quattro idee-forza. Primo, l’immigrazione irregolare è un male che va combattuto, anche con le espulsioni e i rimpatri. Secondo, la cultura woke e il politicamente corretto sono imposizioni arbitrarie e inaccettabili. Terzo, il green deal voluto dalle autorità europee danneggia i ceti popolari. Quarto, il sostegno militare all’Ucraina e il riarmo europeo sono scelte sbagliate e pericolose.

Difficile dire che cosa tenga insieme questi quattro punti, ma mi pare evidente che la connessione con fascismo e nazismo è alquanto debole. Certo, si può arditamente sostenere che chi è contro l’immigrazione irregolare crede – come molti fascisti e nazisti hanno creduto – nel primato della propria etnia, ma altrettanto bene (anzi molto più plausibilmente) si può pensare che chi invoca remigration e rimpatri abbia in mente problemi di sicurezza, o patisca la concorrenza degli stranieri sul mercato del lavoro e nell’accesso ai servizi sociali. Quanto all’ostilità verso le politiche green o ai timori per la deindustrializzazione, problemi tipici del nostro tempo, è evidente che nulla hanno a che fare con il fascismo e il nazismo. Infine, il tema del riarmo europeo: come non vedere che l’estrema destra in Europa, con il suo anti-interventismo bellico, è semmai l’esatto contrario dell’espansionismo e del militarismo nazi-fascista?

Se ne potrebbe concludere che, in realtà, non vi è nulla che plausibilmente colleghi fra loro le quattro idee-forza delle formazioni che i politologi classificano come di estrema destra. E che il loro essere “di destra” poggia sul fatto che tutte e quattro sono contrarie a idee sposate dalla sinistra, che di norma difende l’immigrazione, il green deal, il politicamente corretto, il riarmo dell’Europa. Ma sarebbe una conclusione affrettata, molto affrettata. Intanto, perché ci sono formazioni politiche di sinistra (ad esempio la BSW di Sahra Wagenknecht, o i Cinque Stelle), e intellettuali di sicura fede progressista (ad esempio filosofi marxisti come Michéa e Žižek) che, in parte o in toto, sottoscrivono quelle quattro idee affrettatamente squalificate come di estrema destra, o fasciste, o naziste. E poi perché, a pensarci bene, qualcosa che tiene incollate fra loro quelle quattro idee c’è. Ma che cosa?

Fondamentalmente, la nostalgia. La credenza che il progresso non sia tale, e l’idea che il mondo di ieri fosse migliore, o perlomeno più abitabile, di quello di oggi. Molti di coloro che votano per i partiti maledetti, squalificati dall’establishment europeo, semplicemente pensano che ci stiamo allegramente incamminando verso il baratro, e che sarebbe bello tornare a un mondo più semplice; un mondo in cui regna ancora la pace, ci sono pochi immigrati, le fabbriche di automobili non chiudono, la gente può parlare come vuole, il progresso tecnologico non ci costringe a una continua rincorsa. Il potente motore che scalda gli animi della presunta “onda nera” che avanza in Europa è prima di tutto il rimpianto, che conduce a idealizzare il mondo di ieri e a temere quello di oggi.

Possiamo continuare a chiamarli fascisti, o nazisti, o estremisti di destra, o reazionari. Ma è una scorciatoia che ci fa perdere l’essenziale, ossia il tratto che accomuna le loro  manifestazioni di destra e di sinistra: la profonda sfiducia nell’idea di progresso dell’establishment europeo, unita alla mesta consapevolezza che indietro non si torna. Se dovessi proporre un termine, suggerirei di chiamarli regressisti. O, ancora meglio, indietristi. Come, sia pure in un modo tutto suo, lo era l’inclassificabile Pier Paolo Pasolini, convinto che lo sviluppo non fosse progresso e il mondo di ieri fosse migliore di quello oggi.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 maggio 2025]

Ma il potere ama mettersi in mostra. Come spiega la Roma fascista

7 Gennaio 2025 - di fondazioneHume

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Credo che il recente, bellissimo libro di Ernesto Galli della Loggia, Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista (edito dal Mulino), dia un notevole contributo alla vexata quaestio del vasto consenso di cui godette il regime di Mussolini, almeno fino al 1936 (un consenso che non è mai stato messo in dubbio dai grandi storici liberali, da Federico Chabod a Renzo de Felice). “La Roma che vediamo oggi (…) – scrive Galli – è ancora in buona parte la Roma sorta durante il fascismo come la volle Mussolini. Anche perché fu in quegli anni che la città conobbe una crescita impetuosa compiendo il salto di dimensione che le ha dato il suo volto attuale. Dai circa 700.000 abitanti del 1921, infatti, Roma passò a 1.000.000 dieci anni dopo, e nel 1941 arrivò a 1.400.000 mila, mentre nello stesso periodo il territorio urbanizzato del Comune crebbe di quasi dieci volte”.

Mussolini lasciò agli artisti e agli architetti un’ampia libertà, sicché le molte e varie costruzioni ereditate dal regime, insieme alle opere d’arte che ad esse spesso si accompagnano, hanno finito per rappresentare un capitolo centrale della vicenda artistica e culturale italiana.

A Mussolini, ricorda Galli della Loggia, occuparsi di urbanistica, ma soprattutto di architettura – “a mio giudizio la massima fra tutte le arti”, dirà in un colloquio con Ludwig – piaceva molto. Anche perché sapeva bene che da sempre modellare lo spazio e costruire un edificio rappresenta uno dei segni più tangibili del potere e della personalità di chi lo esercita; inoltre, nel suo intuito per la psicologia delle masse, Mussolini sapeva pure che poche cose colpiscono l’immaginazione di queste come la vista di uno stadio, di un ponte, di una grande strada. Nei lunghi anni del suo regime non solo dunque l’impulso a costruire fu fortissimo in ogni ambito, ma il Duce volle anche essere sempre informato minutamente, visionare e modificare, approvare ogni progetto di qualche importanza. Di qui opere grandiose come la via dei Fori Imperiali, e l’imponente città universitaria, alla quale lavorarono i migliori architetti di allora, per citare solo due costruzioni straordinarie, alle quali molte altre dovrebbero essere aggiunte.

Galli della Loggia mette giustamente in rilievo la profonda differenza, in campo urbanistico-architettonico, fra fascismo e nazismo: perché (“con buona pace della storiografia che mette tutto sullo stesso piano”) ciò che fece la differenza del nazismo rispetto al fascismo fu la personalità diversa di Hitler e di Mussolini. Il primo, “digiuno di ogni frequentazione sociale che non fosse quella di un’accolta di fanatici e di deracinés”, impose i propri gusti a tutta la cultura tedesca; Mussolini, invece, sorretto da una vasta conoscenza di idee, persone, ambienti, maturata negli anni del suo socialismo, e istruito nelle materie artistiche dalla sua lunga relazione con l’intelligentissima e competentissima Margherita Sarfatti, fu abbastanza capace di ‘stare a sentire’.

A un certo punto del suo libro Galli della Loggia si chiede: si può dunque affermare che il fascismo ha fatto anche cose buone (ciò che provoca l’immediata protesta dei custodi dell’antifascismo duro e puro)? E risponde: “Penso proprio di sì: oggettivamente significa che il fascismo ha fatto anche. cose buone”. D’altro canto, non esiste un governo per quanto pessimo che in vent’anni non faccia anche qualcosa di buono, cioè di utile, e il fascismo non fa eccezione. Naturalmente ciò non significa dimenticare le molte cose cattive, anzi pessime, fatte dal fascismo: dalla soppressione delle libertà civili e politiche, alle leggi razziali, all’alleanza col Terzo Reich, all’entrata in guerra.

Giuseppe Bedeschi

(Versione completa di articolo uscito su “Il Giornale”, domenica 29 dicembre 2024)

“Alcuni spunti sul libro di Ricolfi sul follemente corretto” – Lettera per Luca Ricolfi

29 Ottobre 2024 - di fondazioneHume

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Buongiorno, riguardo al libro di Ricolfi volevo chiedere una cosa : visto che nel libro sul follemente corretto ha citato il libro sulla generazione ansiosa in cui si ipotizza un legame tra uso dello smartphone e aumento di ansia e depressione nelle minorenni in preadolescenti e adolescenti – e visto che il libro si occupa anche di fenomeni di transizione – volevo chiedere se e’ ipotizzabile un legame tra uso dello smartphone aumento della sofferenza per femmine minorenni preadolescenti e adolescenti e aumento dei percorsi di transizione ftom – perche’ se vi fosse questo legame una chiave di lettura potrebbe essere che in mancanza di un femminismo capace di proporre soluzioni collettive e politiche ai disagi della condizione femminile vi e’ un aumento di risposte di tipo individuale a tale disagio : in questo caso una risposta di fuga dalla condizione femminile. Siccome ho sentito vagheggiare una ipotesi di questo tipo anche in un libro di Luigi Zoja sulla recessione sessuale mi piacerebbe avere qualche informazione in proposito.

Un caro saluto, Francesco Gelmini

Intervista di Tommaso Rodano (Il Fatto Quotidiano) a Luca Ricolfi – Il follemente corretto e la sinistra

24 Ottobre 2024 - di fondazioneHume

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1. Luca Ricolfi, dopo dieci anni di indagine sul tema ha messo a punto un termine: “follemente corretto”. Cosa intende?
In prima approssimazione si potrebbe direi che il follemente corretto è la “malattia senile” dei politicamente corretto, la sua estrema degenerazione. Ma in realtà una definizione rigorosa è impossibile, perché il vero tratto distintivo del follemente corretto è il suo meccanismo di propagazione, che si fonda sul potere intimidatorio: nell’era dei social tutti possono diventare censori indignati, ma tutti sono, al tempo stesso, potenziali vittime, esposti al rischio di venire lapidati da censori ancora più fanatici.

2. Il suo elenco degli orrori del pensiero “woke” è notevole. Personalmente, sono rimasto impressionato dalla tabella dei nuovi pronomi di genere: “ve”, “xe”, “ze”, ma quali sono gli episodi che l’hanno colpita di più mentre lavorava al libro? 
Difficile fare una graduatoria, anche perché le follie sono molto eterogenee. Ci sono follie che impattano drammaticamente, come l’ammissione dei trans biologicamente maschi nei reparti femminili delle carceri, e follie che fanno semplicemente ridere, come Lufthansa che proibisce ai piloti di dire “gentili signore e signori benvenuti a bordo” perché qualcuno potrebbe non sentirsi né signora né signore.                                                                                                                                                                                       Comunque, come persona che per mestiere scrive e insegna, forse l’episodio che più mi dà da pensare è la pretesa di ripulire l’opera di Roald Dahl, un caso in cui coesistono sia la gravità della cosa (attacco alla libertà di espressione), sia la ridicolaggine (gli interventi effettuati sul testo sono bigotti e demenziali).

3. La sua tesi è che il politicamente corretto sia uno strumento di lotta di classe al contrario: invece di combattere le disuguaglianze, crea nuove élite. Quali?
Ne menzionerei tre: le vestali della Neolingua, ossia l’esercito di comunicatori che, nelle burocrazie, nelle università, nei media, nelle aziende, si occupa di ripulire il linguaggio; le lobby del Bene, ovvero le potentissime organizzazioni, soprattutto LGBT+, che
interferiscono quotidianamente con le attività di aziende e istituzioni; infine quelle che io chiamo le “guardie rosse della diversity” ossia gli staff che, nelle università e nelle aziende, si occupano di “sensibilizzare” dipendenti e opinione pubblica, e di garantire che le politiche siano inclusive, attente alla diversità, eccetera.

4. Sì è parlato tanto di schwa sui giornali, tra gli intellettuali e tra i politici, ma nei fatti non la usa quasi nessuno. E se va al mercato, sarà difficile trovare qualcuno che si ponga il problema del pronome o delle parole da usare con chi appartiene a una minoranza sessuale. Non pensa che la preoccupazione sul politicamente corretto stia diventando a sua volta una paranoia? 
In effetti di certi aspetti del follemente corretto la gente comune se ne infischia, e nessuno la redarguisce o la penalizza per questo. Il problema è che, non appena una persona comune prova a fare capolino in ambienti culturali/intellettuali/politici, la non padronanza del linguaggio corretto tende a diventare fonte di stigma ed emarginazione.
Riguardo a quel che succede nei mercati le do pienamente ragione: sono il posto più libero del pianeta, anche perché di norma i paladini del follemente corretto non ci mettono piede (tutt’al più ci mandano la servitù, eufemisticamente chiamata “personale di
servizio”).

5. Sono peggio le forzature ridicole del “follemente corretto” o quelle speculari, a destra, del politicamente scorretto a tutti i costi? Mi vengono in mente alcuni esempi di successo, da Vannacci alle flatulenze radiofoniche della Zanzara. 
Non so se sono speculari, perché il follemente corretto è per lo più raffinato, anzi fin troppo raffinato, mentre il politicamente scorretto estremo è semplicemente volgare: sono fenomeni diversi, più che opposti. Diciamo che, se devo scegliere, preferisco il follemente corretto, perché almeno fa ridere. Mentre la satira di destra, spesso, non è affatto divertente.

6. Il follemente corretto, scrive lei, è un problema della sinistra italiana. Crede che possa condizionare anche le elezioni americane?
Tantissimo. Sono in molti a ritenere che, nel 2016, Trump abbia vinto le elezioni anche perché una parte della società americana non ne poteva più del politicamente corretto. Adesso la storia rischia di ripetersi: non prendendo le distanze dalle istanze LGBT più estreme, Harris mette a repentaglio l’elezione. Diverse femministe hanno minacciato di votare Trump, o perlomeno di non votare Harris, se la candidata democratica non prenderà esplicitamente le distanze da obbrobri come l’utero in affitto e le terapie precoci di cambio di sesso/genere, basate su ormoni e talora su operazioni chirurgiche.

7. Che ne sarà del “follemente corretto”? É destinato a cambiare i connotati alla società italiana o a sgonfiarsi nel tempo?
Penso che si sgonfierà, ma non è detto. La sinistra potrebbe essere così stupida e autolesionista da continuare a difenderlo. Su alcuni temi, come quello dei pronomi o della schwa, si può anche pensare che, dopotutto, non cambiano la vita delle persone. Ma su altre cose, come l’utero in affitto, o la difesa degli spazi femminili, perseverare nella difesa delle istanze LGBT+ potrebbe rivelarsi un azzardo.

Doccia scozzese

8 Maggio 2024 - di fondazioneHume

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Che in materia di diritti l’Europa sia un ginepraio si vede a occhio nudo. Che si parli di aborto, matrimonio gay, identità di genere, cambio di sesso, eutanasia, le differenze sono abissali. Ma come dobbiamo leggere questa diversità?

Una lettura molto comune è che i vari paesi si trovino in stadi diversi del cammino che li condurrà tutti, prima o poi, a riconoscere determinati diritti fondamentali, visti come mete di imprescindibili battaglie di civiltà. Un’altra lettura, vede il medesimo processo come una pericolosa deriva, che non afferma affatto la civiltà ma ne scandisce il declino. Quel che accomuna le due letture è l’idea che, comunque, la freccia del tempo punti in una direzione precisa, quella dell’espansione dei diritti. E che, essenzialmente, i vari paesi differiscano solo per la velocità con cui progrediscono (o regrediscono, a detta dei conservatori).

Ma siamo sicuri che la freccia del tempo punti in una direzione sola, quella dell’espansione dei diritti?

Fino a qualche anno fa lo si poteva ragionevolmente pensare, oggi molto più difficile. Segnali di rallentamento, o di vere e proprie inversioni di tendenza, si osservano in più di un paese, sia a livello legislativo, sia a livello di opinione pubblica. Il caso più clamoroso, probabilmente, è quello della Scozia, governata dal (progressista) Scottish National Party, prima con la carismatica leader Nicola Sturgeon (in carica per 10 anni), poi con il suo successore, l’ultra-progressista musulmano Humza Yousaf. Ebbene, nel giro di 15 mesi la situazione è completamente cambiata.

Alla fine del 2022 la Scozia aveva approvato il Gender Recognition Act, una legge che consente il cambiamento di genere (self-id) già a 16 anni, e senza pareri medici o legali. All’inizio di aprile di quest’anno è stato approvato lo Hate Crime Act, una legge che – sulla carta – punisce chi non riconosce come donne i maschi transitati a femmine (Mtf trans). Inoltre, da tempo veniva ventilata la possibilità di varare una legge molto permissiva sul suicidio assistito.

Apparentemente, una marcia trionfale per le battaglie di civiltà dei progressisti. In realtà le tappe di una vera débâcle. La legge sul self-id ha provocato una vivacissima reazione delle donne, compresa Joanne Rowling (l’inventrice di Harry Potter), preoccupate per l’invasione degli spazi femminili (comprese le carceri) da maschi auto-identificati come femmine. Di qui le repentine dimissioni della Sturgeon, benevolmente interpretate dai nostri media come sagge decisioni di una donna sopraffatta dalle fatiche del potere (la medesima interpretazione data per le dimissioni della Ardern in Nuova Zelanda e di Sanna Marin in Finlandia). Passa un anno, il Gender Recognition Act viene bocciato dal governo centrale britannico, e il successore della Sturgeon, Humza Yousaf, è costretto a sua volta alle dimissioni, travolto dall’ondata di critiche, ancora una volta guidate da Joanne Rowling, contro il potenziale liberticida dello Hate Crime Act, una legge in base alla quale – secondo alcuni attivisti trans – avrebbero dovuto finire in carcere quanti la pensassero come la Rowling, e – secondo altri – pure il premier Yousaf, che in passato si era prodotto in discorsi d’odio contro i bianchi (anche qui, l’interpretazione benevola è che il governo sarebbe caduto per dissensi con il partito dei Verdi sulla politica ambientale). Nel medesimo periodo, anche la Scozia, sulla scia dell’Inghilterra – deve frenare sulla somministrazione di bloccanti e ormoni ai minorenni, mentre i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è sempre più scettica sulla proposta di legge per facilitare il suicidio assistito.

Di qui due domande. Primo, siamo sicuri che, sul terreno dei diritti civili, la freccia del tempo punti ancora al loro ampliamento? Secondo, siamo sicuri che i leader progressisti abbiano il polso delle loro opinioni pubbliche?

L’impressione è che, per molti politici di sinistra, gli attivisti e le lobby LGBT+ contino di più dei rispettivi elettorati, e che questa distorsione percettiva li renda ciechi e potenzialmente autolesionisti. È successo con Sturgeon e Yousaf in Scozia. Ma era già successo in Italia con Enrico Letta e la battaglia perduta sul ddl Zan. E potrebbe risuccedere con Joe Biden fra qualche mese, alle elezioni presidenziali americane.

 [articolo uscito su La Ragione il 7 maggio 2024]

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