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Allarme sicurezza, a chi conviene?

24 Novembre 2025 - di fondazioneHume

Dossier Hume

Sulla criminalità e sulla sicurezza, da qualche settimana, il vento sta cambiando. Ma a farlo cambiare non sono tanto i dati recentemente diffusi dal Viminale  (ancora incompleti,  e solo parzialmente pubblici) quanto l’attenzione dei media e della politica nei confronti di alcuni episodi di violenza particolarmente efferati.

Se stiamo ai dati, e non li manipoliamo come molti politici (di entrambe le parti) stanno facendo in questi giorni, la situazione è molto frastagliata. Quando i confronti vengono fatti correttamente, e si rinuncia alla tecnica dell’anno di appoggio (scegliere come termine di confronto l’anno che conferma le proprie tesi), il quadro che emerge è tutt’altro che univoco, perché alcuni dati segnalano un miglioramento della situazione, altri un peggioramento. Fra i segnali (lievemente) positivi è il caso di segnalare il numero di sbarchi, che nel biennio 2024-2025 risultano stabilizzati intorno ai 65 mila arrivi (-35% rispetto al 2022), e il numero di donne uccise, che negli ultimi anni è sempre diminuito. Fra i segnali (gravemente) negativi l’aumento della violenza di strada, soprattutto giovanile, un fenomeno di cui si parla molto in questi giorni, ma che in realtà è esploso fra il 2019 (ultimo anno senza covid) e il 2022 (primo anno relativamente no-covid). È dall’autunno del 2023, quando uscirono i dati ufficiali del 2022, che lo sappiamo, ma curiosamente se ne parla con la dovuta preoccupazione solo oggi (su questo giornale quei dati, sconcertanti, li pubblicammo due anni fa).

Perché solo oggi?

Credo vi siano soprattutto due motivi. Il primo è la recente mossa di Chiara Appendino – rapidamente fatta propria da Conte – di porre il problema della sicurezza come centrale e ineludibile per la sinistra, in aperta polemica con il resto del Fronte largo. Il secondo motivo, strettamente connesso al primo, è l’avvicinarsi della scadenza elettorale del 2027 (elezioni politiche, presumibilmente intorno a giugno). È proprio per queste ragioni che, negli ultimi tempi, molti esponenti della sinistra hanno sentito la necessità di parlare di sicurezza. Cosa che hanno cominciato a fare sia mostrandosi preoccupati per l’aumento della criminalità, sia accusando il Governo di non garantire la sicurezza ai cittadini. Mossa cui alcuni esponenti della destra hanno goffamente provato a replicare cercando di ridimensionare l’allarme sicurezza: esattamente il contrario di quello che erano abituati a fare quando erano all’opposizione.

Ma è razionale questo scambio di ruoli? O meglio: siamo sicuri che, elettoralmente parlando, alla sinistra convenga cavalcare l’allarme sociale, e alla destra assumere una postura quasi negazionista?

Nessuno può saperlo con certezza (ci vorrebbe una ricerca ad hoc), ma personalmente ho qualche dubbio. Mi pare un po’ ingenua l’idea che l’elettore, avendo constatato che Meloni non ferma gli sbarchi né riesce a reprimere la delinquenza giovanile, e avendo scoperto che la sinistra non snobba più il problema della sicurezza, si decida finalmente a votare a sinistra anziché a destra. Perché ciò accadesse, occorrerebbe che la sinistra – la sinistra tutta, non una sua componente – avesse un piano per combattere la criminalità, che tale piano venisse spiegato pubblicamente, che risultasse diverso da quelli del passato, e naturalmente che fosse convincente per gli elettori.

Se queste condizioni mancano (e al momento mancano), ma nello stesso tempo – per mettere in difficoltà il Governo – si continuano ad alimentare le paure dei cittadini, è possibile che una parte degli elettori trovi ulteriore motivo per votare a destra. Anziché pensare che la sinistra potrebbe riuscire dove la destra ha fallito, non pochi elettori potrebbero ritenere che il problema sia grave precisamente perché neppure la destra riesce a domarlo. E potrebbe persino convincersi, non del tutto senza motivo, che alcuni fallimenti del governo (Albania, criminali rimessi in libertà subito dopo l’arresto) non dipendono dal governo, ma dal modo in cui i magistrati interpretano le leggi e dalla lentezza dell’Europa, che non ha ancora fatto decollare il nuovo “Patto su migrazione e asilo”. Insomma, la reazione potrebbe essere non “visto che Meloni ha fallito proviamo con Schlein”, ma semmai “visto che neppure Meloni ce l’ha fatta, diamole più strumenti”.

Di qui, per la sinistra, un passaggio delicato. Per convincere gli elettori a votarla non le basterà proclamare, numeri alla mano, che “Meloni ha fallito”, ma le occorrerà offrire agli elettori una proposta chiara, concreta, e doppiamente diversa: diversa da quella attuale della destra, ma anche da quelle passate della sinistra.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 novembre 2025]

Intervista a Luca Ricolfi

14 Novembre 2025 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà
  1. Professore, esiste ancora un ceto medio?

Ovviamente sì, ma non esiste una definizione condivisa di ceto medio. La definizione classica è quella di Sylos Labini: lavoratori autonomi + impiegati. Peccato che una parte del lavoro autonomo versi in condizioni assai precarie, e che il confine fra operai e impiegati sia sfocato (l’indagine sulle forze di lavoro ha smesso di fornire la disaggregazione fra operai e impiegati+dirigenti). Per non parlare del problema del lavoro sommerso e dei contratti atipici. Molto all’ingrosso si può valutare che gli impiegati (compresi tecnici e insegnanti, ma esclusi quadri e dirigenti) siano circa 7 milioni, i lavoratori autonomi 5 milioni. Poiché gli occupati totali sono oltre 24 milioni, si può dire che afferisce al ceto medio “classico” circa 1 occupato su 2. Più o meno come mezzo secolo fa, ai tempi di Sylos Labini.

  1. Stante l’esistenza o l’inesistenza di un ceto che possa essere definito così, questa manovra del governo Meloni sembra orientata a premiare la fascia mediana dei redditi della popolazione italiana. 

Non esattamente. Se come base prendiamo il numero totale di contribuenti, le fasce di reddito prossime alla mediana risultano escluse dai benefici della manovra, che si concentrano invece sulle fasce alte del ceto medio. Gli sgravi fiscali partono dai 28 mila euro e arrivano ai 50 mila, ma quasi il 90% dei contribuenti è sotto la soglia dei 28 mila euro. I beneficiari sono indubbiamente ceto medio (non certo “i ricchi”), ma il segmento prescelto corrisponde a circa il 20% dei contribuenti (a spanne: non più di 1 membro del ceto medio su 2).

  1. La vittoria del nuovo sindaco di New York pone nuove domande all’Occidente? È in corso una ribellione da parte dei cittadini che, dovendo muoversi attraverso i mezzi pubblici e dovendosi curare con la sanità pubblica, chiedono più assistenzialismo?

Non credo siano questi i fattori decisivi, la realtà è più semplice: nelle grandi città ci sono più laureati e diplomati, e i ceti istruiti preferiscono la sinistra. Quasi ovunque, oggi come ieri. A questo dato di fondo, poi, si aggiunge la circostanza che il nuovo sindaco di New York ha abbandonato il linguaggio astratto e fumoso di tanta parte dell’establishment progressista. È molto diverso promettere “più inclusione” o promettere “trasporti gratis” e “canoni d’affitto bloccati”.

  1. In Italia vige l’annoso dibattito sui contributi da chiedere alla banche…

Come riformista e liberale dovrei essere contrario, ma invece – in questo caso – sono abbastanza favorevole: se si vuole redistribuire, non è irragionevole partire di lì, specie dopo anni floridi. Molto meglio che una patrimoniale sulle persone fisiche.

  1. Si parla spesso di “tecnodestra” o di “tecnofeudalesimo” in salsa trumpiana. Eppure le cosiddette “masse impoverite” non sembrano rifiutare del tutto (anzi) i modelli politici conservatori o sovranisti. Perchè?

La domanda andrebbe capovolta: perché mai le masse impoverite dovrebbero preferire la sinistra, che si preoccupa di immigrati e minoranze sessuali?

Quanto a Trump e ai sovranisti, credo che il loro appeal abbia due matrici principali. Primo, il fatto di aver messo nel mirino la globalizzazione, che molti elettori percepiscono come causa delle loro difficoltà economiche. Secondo, la mancanza di proposte concrete e praticabili da parte dei leader progressisti.

  1. Lei una volta ha detto che “la sinistra non parla più alla classe media perché costa troppo”. Cosa voleva intendere?

È semplice. Favorire l’accoglienza e proteggere le minoranze sessuali costa pochi miliardi. Ridurre le tasse al ceto medio in modo percepibile costa uno sproposito. Se ne è accorto il governo, che ha varato sgravi onerosi per la finanza pubblica (3 miliardi) ma quasi impercettibili per i destinatari (circa 30 euro al mese).

  1. C’è un tema generazionale (che lei ha spesso posto). Cosa accadrà al ceto medio quando la Gen Z e i millenial arriveranno a contatto con il lavoro. Le cosiddette nuove professioni, secondo l’allarme di Confcommercio, mettono in crisi il sistema pensionistico. E questo perché il reddito medio è di 18mila euro. 

I millenial (nati fra il 1980 e il 1996) hanno da 30 e 45 anni, e quindi sono già sul mercato del lavoro da tempo (almeno quelli che non hanno scelto di farsi mantenere dai genitori o vivere di rendita). Le vere novità verranno dalla generazione zeta e dalla generazione alpha, che è quella immediatamente successiva (nati negli ultimi 15 anni). Il problema, però, a me non sembra il fatto che guadagnino poco, ma che i migliori di loro decidano di emigrare in paesi con salari reali più elevati. Quanto al sistema pensionistico, non credo che il suo collasso sarà provocato dai bassi redditi delle nuove generazioni. Il problema delle pensioni in Italia è che poggiano quasi esclusivamente sul primo pilastro (quello pubblico), così sottraendo risorse preziose ad altri impieghi, come gli asili nido e la sanità. Lo sappiamo perfettamente fin dal 1997, quando il “rapporto Onofri” mise e nudo le due criticità della spesa pubblica italiana: interessi sul debito e pensioni.

[intervista uscita sul Giornale l’11 novembre 2025]

Intervista a Luca Ricolfi

21 Ottobre 2025 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà

Oggi il governo Meloni diventa il terzo più longevo della storia della Repubblica. Soprese? Conferme? Come mai ha un consenso in crescita, cosa più unica che rara dopo un così lungo periodo?

In realtà la popolarità della Presidente del consiglio è molto minore di quella del 2022-2023, come del resto è fisiologico (la “luna di miele” dura poco). Quello che è in crescita, specie dopo le Elezioni Europee dell’anno scorso, è il consenso a Fratelli d’Italia, che traina il consenso complessivo al centro-destra. La ragione di fondo mi sembra la pochezza dell’opposizione, sia prima sia dopo l’avvento di Schlein. Ma c’è anche una seconda ragione…

Quale?

La debolezza delle alternative partitiche a destra: dopo tre anni di governo, i due alleati principali di Fratelli d’Italia – Lega e Forza Italia – non sono stati capaci di espandere i loro consensi, anche se per motivi diversi (Tajani per mancanza di carisma, Salvini per dissipazione del carisma passato).

Il cavallo di battaglia dell’opposizione, tre anni fa, era che la destra al governo sarebbe stata bocciata dai mercati e sarebbe rimasta isolata a livello internazionale. Le agenzie di rating ci hanno rimesso in serie A ed Europa e Usa hanno detto chiaramente di gradire il modello Meloni. Come mai?

Una ragione è semplicemente che, grazie alla faziosità anti-meloniana di gran parte dei media italiani, le istituzioni internazionali e la stampa estera si erano fatte un’immagine del tutto errata di Meloni e del suo partito. Il mero constatare che, andata al governo, Giorgia Meloni non ha fatto nulla di tutto ciò che i suoi nemici si attendevano (o fingevano di attendersi), ha determinato prima stupore e poi un crescente rispetto nei confronti della premier. Se profetizzi che arriva il fascismo e poi non se ne vede neppure la più pallida traccia, non puoi che rivedere le tue credenze. E così è stato.

Poi naturalmente ci sono anche questi anni di governo, in cui l’attivismo di Giorgia Meloni a livello internazionale (dal sostegno all’Ucraina al piano Mattei) ne ha fortemente rafforzato il prestigio.

Lo spartito delle accuse a Meloni da parte dell’opposizione è inevitabilmente cambiato. Oggi Landini le dà della cortigiana di Trump, Renzi dell’influencer che comunica bene ma combina poco e Schlein sostiene che la destra mette a rischio la democrazia. Secondo lei l’atteggiamento del governo tenuto con Trump è corretto?

Più che corretto, profetico: Meloni ha scommesso sulla volontà pacificatrice di Trump e ha vinto la scommessa. In questo è stata molto aiutata dalla cecità dell’opposizione, che ha commesso l’errore di giudicare Trump in termini morali anziché politici.

Cosa ha sbagliato il governo e cosa ha fatto giusto in politica estera, nel rapporto con gli Usa e l’Europa?

In politica estera mi sembra che l’unico vero errore sia stato la gestione del caso Almasri. L’atteggiamento verso l’Europa è stato giustamente critico, visto il disastro green di cui cominciamo solo ora ad avvertire le conseguenze, specie verso l’industria dell’auto e il suo indotto.

La Francia sciovinista, in crisi politica, istituzionale, sociale, e conseguentemente economica, inizia a parlare di un modello Meloni: cos’è, è esportabile e può ambire a guidare l’Europa?

Molte idee di Meloni sono già condivise da altri governi europei, come quello tedesco e quello danese, ad esempio. Sul fatto che il modello Meloni sia esportabile ho due dubbi. Primo, non vedo leader europei di destra dotati del medesimo carisma: un modello Meloni senza Giorgia Meloni potrebbe non funzionare. Secondo, in molti paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia) il modello non è esportabile semplicemente perché i loro partiti di destra sono troppo aggressivi, al limite dell’eversione. Quello che in Italia non si è ancora capito è che, fin dalle sue origini, il partito di Meloni si è collocato in un’area di destra ragionevole, sul modello dei gollisti in Francia e dei conservatori nel Regno Unito. Sembra incredibile, ma la realtà è che la nostra stampa e la nostra sinistra hanno scambiato la schiettezza, e una certa vena istrionico-populista della comunicazione della premier, per estremismo politico. Un errore fatale: in Italia l’estremismo di destra è del tutto marginale (anche perché il precedente storico del fascismo lo delegittimerebbe), mentre il non parlare in politichese è enormemente apprezzato.

La manovra è stata apprezzata dagli industriali, da buona parte del sindacato, tant’è che ha isolato la Cgil, e dall’Europa. L’opposizione quindi si è ridotta a essere quasi esclusivamente ideologica: mancanza di proposte, incapacità di uscire dai vecchi schemi?

In realtà l’opposizione ha ottime proposte (più risorse alla sanità e alla scuola, salario minimo), il problema è che non dice con quali risorse pensa di poterle mettere in atto. E la gente sa benissimo che le promesse senza coperture preludono a maggiori tasse.

Ha recentemente scritto sul Messaggero che Giuseppe Conte sarebbe più apprezzato di Elly Schlein come candidato premier e che i dem sono in calo: il campo largo ammazza il Pd?

Il campo largo erode il consenso al Pd e tarpa le ali al Movimento Cinque Stelle, che senza la zavorra-Schlein potrebbe crescere più velocemente di quanto già sta facendo (dalle Europee a oggi i sondaggi gli dànno circa 3 punti in più).

Però giusto ieri è scoppiato M5S…

Si riferisce alle bizze di Chiara Appendino? Non so se siano dettate dalla volontà di sostituire Conte, completando la femminilizzazione della politica italiana (un tridente Meloni-Schlein-Appendino farebbe dell’Italia l’unico paese europeo che ha espunto i leader maschi dalla politica). Però nel merito mi pare abbia pienamente ragione: il Movimento Cinque Stelle volava quando aveva il coraggio di definirsi “né di destra né di sinistra”, mentre ha cominciato a perdere colpi quando ha scelto di diventare “ora di destra, ora di sinistra”. E dire che avrebbe tutte le possibilità di ritagliarsi uno spazio politico non banale, ad esempio puntando tutte le sue carte sulla domanda di protezione sociale, nella duplice accezione di sostegno ai deboli e di contrasto all’immigrazione irregolare.

Cosa ci fanno i centristi nel campo largo a guida sempre più a sinistra?

Calenda mi pare ormai fuori dal campo largo, il suo ruolo è quello di solitario ed eroico difensore della serietà in politica. Quanto a Renzi (Italia Viva) e Magi (+Europa) mi pare che accodarsi alla sinistra ideologica capeggiata da Elly Schlein sia l’unica carta che hanno in mano per sopravvivere, eleggendo ancora qualche deputato e senatore.

Ma è serio proporre una neofita della politica da sei mesi sindaco di Genova come leader di un campo che unisce otto-dieci anime contro una che fa politica da che aveva quindici anni e ha nell’unità del suo partito e della coalizione uno dei suoi asset?

Non conosco Silvia Salis abbastanza per dire se è all’altezza oppure no. Però il mero fatto che qualcuno pensi di poterla promuovere dall’oggi al domani a leader del campo progressista la dice lunga sulla modestia della classe dirigente di sinistra.

Azzardo: non è che, avanti così, Meloni tra qualche anno rappresenterà sia l’Italia di destra sia quella di sinistra moderata, con una quota importante ma marginale confinata all’estrema sinistra di Conte-Schlein-Fratoianni?

Sì, in effetti la sinistra moderata, che pure esiste, potrebbe un giorno sentirsi meglio rappresentata da Meloni che da Schlein-Conte-Bonelli-Fratoianni. Però manca un passaggio cruciale.

Quale?

L’estinzione della Lega o, più verosimilmente, la rimozione di Salvini e Vannacci come suoi leader. Finché l’immagine della Lega è associata a loro due, è impensabile catturare il consenso degli elettori di sinistra moderati (ma io preferisco chiamarli riformisti: il riformismo vero è radicale, non moderato). Una Lega guidata da Zaia-Fedriga-Giorgetti renderebbe il centro-destra votabile anche da una parte degli elettori di centro-sinistra, tanto più se i partitini che li rappresentano dovessero far parte della coalizione.

Dopo il flop dell’antifascismo, quello su Gaza. Non è che il predominio degli intellettuali d’area confonde le idee ai dem, li priva di punti di riferimento e li fa sbagliare?

Gli intellettuali (e i giornalisti) di sinistra sono la maggiore sciagura cognitiva che si sia mai abbattuta su uno schieramento politico: anziché aiutare a comprendere la realtà, fanno l’impossibile per celarne i lati sgradevoli.

Un libro che consiglia a Elly?

Hillbilly Elegy, del vicepresidente Usa J.D. Vance. La aiuterebbe a capire la vita di chi nasce in basso.

E uno per Giorgia?

Giorgia non ha tempo, e quel poco che riesce a ricavare fa benissimo a dedicarlo alla figlia Ginevra.

[intervista uscita su Libero il 19 ottobre 2025]

A proposito dell’estrema destra in Europa – Fascismo o indietrismo?

12 Maggio 2025 - di fondazioneHume

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Secondo la maggior parte degli osservatori e degli studiosi di politica quello cui stiamo assistendo in Europa è una (ulteriore) avanzata elettorale dell’estrema destra. Qualcuno, pensando agli ultimi sondaggi che indicano l’AfD (Alternative für Deutschland) come primo partito della Germania, arriva a parlare di un pericolo neo-nazista incombente. Né molto più rassicuranti appaiono le notizie che arrivano dalla Francia (successi di Marine Le Pen), dal Regno Unito (successi del trumpiano Nigel Farage), dalla Romania (successo dell’euroscettico George Simion, bollato come “di estrema destra”).

Da questa diagnosi derivano, tipicamente, due contromosse politiche: primo, l’invito all’opinione pubblica a mobilitarsi contro l’onda nera neo-fascista o neo-nazista montante; secondo, il tentativo di usare la legge per impedire a determinati leader e/o a determinate forze politiche di partecipare alla competizione elettorale. Il risultato, tuttavia, per ora è soltanto l’ulteriore crescita di consensi verso i partiti bollati come di estrema destra.

Qui vorrei proporre un’ipotesi: e se l’avanzata di queste forze dipendesse anche dalla nostra pigrizia di analisti? Detto in altre parole, siamo davvero sicuri che l’etichetta di partiti di “di estrema destra”, o peggio ancora di movimenti “neo-nazisti”, colga l’essenza della protesta che avanza in Europa? Siamo sicuri che non esista una definizione più aderente alla realtà? E se, alla base del successo di certe forze politiche, vi fosse anche la nostra incapacità di comprenderne la natura?

Se proviamo a dare una rapida occhiata ai programmi, agli slogan, alle dichiarazioni dei leader, troviamo fondamentalmente quattro idee-forza. Primo, l’immigrazione irregolare è un male che va combattuto, anche con le espulsioni e i rimpatri. Secondo, la cultura woke e il politicamente corretto sono imposizioni arbitrarie e inaccettabili. Terzo, il green deal voluto dalle autorità europee danneggia i ceti popolari. Quarto, il sostegno militare all’Ucraina e il riarmo europeo sono scelte sbagliate e pericolose.

Difficile dire che cosa tenga insieme questi quattro punti, ma mi pare evidente che la connessione con fascismo e nazismo è alquanto debole. Certo, si può arditamente sostenere che chi è contro l’immigrazione irregolare crede – come molti fascisti e nazisti hanno creduto – nel primato della propria etnia, ma altrettanto bene (anzi molto più plausibilmente) si può pensare che chi invoca remigration e rimpatri abbia in mente problemi di sicurezza, o patisca la concorrenza degli stranieri sul mercato del lavoro e nell’accesso ai servizi sociali. Quanto all’ostilità verso le politiche green o ai timori per la deindustrializzazione, problemi tipici del nostro tempo, è evidente che nulla hanno a che fare con il fascismo e il nazismo. Infine, il tema del riarmo europeo: come non vedere che l’estrema destra in Europa, con il suo anti-interventismo bellico, è semmai l’esatto contrario dell’espansionismo e del militarismo nazi-fascista?

Se ne potrebbe concludere che, in realtà, non vi è nulla che plausibilmente colleghi fra loro le quattro idee-forza delle formazioni che i politologi classificano come di estrema destra. E che il loro essere “di destra” poggia sul fatto che tutte e quattro sono contrarie a idee sposate dalla sinistra, che di norma difende l’immigrazione, il green deal, il politicamente corretto, il riarmo dell’Europa. Ma sarebbe una conclusione affrettata, molto affrettata. Intanto, perché ci sono formazioni politiche di sinistra (ad esempio la BSW di Sahra Wagenknecht, o i Cinque Stelle), e intellettuali di sicura fede progressista (ad esempio filosofi marxisti come Michéa e Žižek) che, in parte o in toto, sottoscrivono quelle quattro idee affrettatamente squalificate come di estrema destra, o fasciste, o naziste. E poi perché, a pensarci bene, qualcosa che tiene incollate fra loro quelle quattro idee c’è. Ma che cosa?

Fondamentalmente, la nostalgia. La credenza che il progresso non sia tale, e l’idea che il mondo di ieri fosse migliore, o perlomeno più abitabile, di quello di oggi. Molti di coloro che votano per i partiti maledetti, squalificati dall’establishment europeo, semplicemente pensano che ci stiamo allegramente incamminando verso il baratro, e che sarebbe bello tornare a un mondo più semplice; un mondo in cui regna ancora la pace, ci sono pochi immigrati, le fabbriche di automobili non chiudono, la gente può parlare come vuole, il progresso tecnologico non ci costringe a una continua rincorsa. Il potente motore che scalda gli animi della presunta “onda nera” che avanza in Europa è prima di tutto il rimpianto, che conduce a idealizzare il mondo di ieri e a temere quello di oggi.

Possiamo continuare a chiamarli fascisti, o nazisti, o estremisti di destra, o reazionari. Ma è una scorciatoia che ci fa perdere l’essenziale, ossia il tratto che accomuna le loro  manifestazioni di destra e di sinistra: la profonda sfiducia nell’idea di progresso dell’establishment europeo, unita alla mesta consapevolezza che indietro non si torna. Se dovessi proporre un termine, suggerirei di chiamarli regressisti. O, ancora meglio, indietristi. Come, sia pure in un modo tutto suo, lo era l’inclassificabile Pier Paolo Pasolini, convinto che lo sviluppo non fosse progresso e il mondo di ieri fosse migliore di quello oggi.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 maggio 2025]

Ma il potere ama mettersi in mostra. Come spiega la Roma fascista

7 Gennaio 2025 - di fondazioneHume

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Credo che il recente, bellissimo libro di Ernesto Galli della Loggia, Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista (edito dal Mulino), dia un notevole contributo alla vexata quaestio del vasto consenso di cui godette il regime di Mussolini, almeno fino al 1936 (un consenso che non è mai stato messo in dubbio dai grandi storici liberali, da Federico Chabod a Renzo de Felice). “La Roma che vediamo oggi (…) – scrive Galli – è ancora in buona parte la Roma sorta durante il fascismo come la volle Mussolini. Anche perché fu in quegli anni che la città conobbe una crescita impetuosa compiendo il salto di dimensione che le ha dato il suo volto attuale. Dai circa 700.000 abitanti del 1921, infatti, Roma passò a 1.000.000 dieci anni dopo, e nel 1941 arrivò a 1.400.000 mila, mentre nello stesso periodo il territorio urbanizzato del Comune crebbe di quasi dieci volte”.

Mussolini lasciò agli artisti e agli architetti un’ampia libertà, sicché le molte e varie costruzioni ereditate dal regime, insieme alle opere d’arte che ad esse spesso si accompagnano, hanno finito per rappresentare un capitolo centrale della vicenda artistica e culturale italiana.

A Mussolini, ricorda Galli della Loggia, occuparsi di urbanistica, ma soprattutto di architettura – “a mio giudizio la massima fra tutte le arti”, dirà in un colloquio con Ludwig – piaceva molto. Anche perché sapeva bene che da sempre modellare lo spazio e costruire un edificio rappresenta uno dei segni più tangibili del potere e della personalità di chi lo esercita; inoltre, nel suo intuito per la psicologia delle masse, Mussolini sapeva pure che poche cose colpiscono l’immaginazione di queste come la vista di uno stadio, di un ponte, di una grande strada. Nei lunghi anni del suo regime non solo dunque l’impulso a costruire fu fortissimo in ogni ambito, ma il Duce volle anche essere sempre informato minutamente, visionare e modificare, approvare ogni progetto di qualche importanza. Di qui opere grandiose come la via dei Fori Imperiali, e l’imponente città universitaria, alla quale lavorarono i migliori architetti di allora, per citare solo due costruzioni straordinarie, alle quali molte altre dovrebbero essere aggiunte.

Galli della Loggia mette giustamente in rilievo la profonda differenza, in campo urbanistico-architettonico, fra fascismo e nazismo: perché (“con buona pace della storiografia che mette tutto sullo stesso piano”) ciò che fece la differenza del nazismo rispetto al fascismo fu la personalità diversa di Hitler e di Mussolini. Il primo, “digiuno di ogni frequentazione sociale che non fosse quella di un’accolta di fanatici e di deracinés”, impose i propri gusti a tutta la cultura tedesca; Mussolini, invece, sorretto da una vasta conoscenza di idee, persone, ambienti, maturata negli anni del suo socialismo, e istruito nelle materie artistiche dalla sua lunga relazione con l’intelligentissima e competentissima Margherita Sarfatti, fu abbastanza capace di ‘stare a sentire’.

A un certo punto del suo libro Galli della Loggia si chiede: si può dunque affermare che il fascismo ha fatto anche cose buone (ciò che provoca l’immediata protesta dei custodi dell’antifascismo duro e puro)? E risponde: “Penso proprio di sì: oggettivamente significa che il fascismo ha fatto anche. cose buone”. D’altro canto, non esiste un governo per quanto pessimo che in vent’anni non faccia anche qualcosa di buono, cioè di utile, e il fascismo non fa eccezione. Naturalmente ciò non significa dimenticare le molte cose cattive, anzi pessime, fatte dal fascismo: dalla soppressione delle libertà civili e politiche, alle leggi razziali, all’alleanza col Terzo Reich, all’entrata in guerra.

Giuseppe Bedeschi

(Versione completa di articolo uscito su “Il Giornale”, domenica 29 dicembre 2024)

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