Intervista a Luca Ricolfi

  1. Lei ha insegnato quasi tutta la vita all’Università di Torino. E’  la  prima volta che si verifica un  simile condizionamento da parte dei collettivi universitari?

No, purtroppo. Nella nostra università, ma più in generale nella città di Torino, piegarsi alle richieste (e talora alle intimidazioni) dei collettivi studenteschi è una lunga tradizione Ricordo, per fare un esempio remoto, quando – più di venti anni fa – a Marcello Veneziani fu impedito di parlare a Palazzo Nuovo, ma anche vari atti di intolleranza al Salone del libro, da ultimo quello verso il ministro Eugenia Roccella.

Quel che è inquietante è che, nella maggior parte dei casi, queste manifestazioni di intolleranza e prevaricazione, sono condotte in nome dell’antifascismo.

  1. Secondo lei si sarebbe potuto dire di no alla mozione scritta da alcuni docenti e poi condivisa dagli studenti?

Certo, si sarebbe dovuto dire no.

  1. Una fetta di accademici parla di “Rettorato debole”. Lo fanno anche attraverso una lettera aperta condivisa (ormai) da un’ottantina di professori.  Che ne pensa?

Meno male che c’è una reazione, sono rimasto sconvolto quando ho appreso che in Senato accademico solo la professoressa Susanna Terracini aveva votato contro la decisione anti-Israele. Ho appena letto la mozione, molto chiara e coraggiosa. La condivido bit per bit, anzi ne approfitto per aggiungere il mio nome.

Ho solo due piccoli dubbi.

  1. Quali?

Innanzitutto, mi chiedo se il Rettore non dovrebbe dimettersi. E poi mi stupisco di quanti colleghi che conosco benissimo (almeno un centinaio) NON siano presenti fra i firmatari: spero che sia solo una questione di tempo, e che domani l’elenco sarà molto più lungo.

  1. Non crede che il retropensiero della questa mozione del Senato accademico possa essere una forma di antisemitismo strisciante?

Io parlerei di antisemitismo conclamato, più che strisciante. Anche se, a mio parere, quello cui siamo di fronte non è semplicemente antisemitismo, ma una forma inedita di razzismo, che perseguita – o invita a perseguitare – le persone non per gli atti di cui sono responsabili, ma per i loro caratteri ascritti: etnia, nazionalità, sesso. E’ la fine della civiltà liberale, che era basata sulla tolleranza, e sul principio di responsabilità personale.

  1. C’è una saldatura inedita tra Me Too e antisemitismo?

Certo, ma non completamente inedita. Le manifestazioni dell’8 marzo scorso, silenti sulle donne israeliane uccise da Hamas, anzi ostili alla ragazza che coraggiosamente cercava di ricordarle, sono un precedente agghiacciante.

  1. Al di là dei fatti di Torino, che cosa sta accadendo, professore, nelle università italiane?

Quel che accade da 60 anni, ma ora con frequenza inquietante: si impedisce di parlare a chi la pensa in modo non gradito ai collettivi studenteschi.

  1. C’è un collegamento con la cultura woke, che dilaga negli States?

Eccome se c’è. Per la cultura woke la missione principale delle università non è più è la ricerca scientifica, l’indagine obiettiva e disinteressata, l’avanzamento della conoscenza, bensì il perseguimento della Social Justice, un concetto vago e pervasivo cui tutto il resto viene subordinato. Un cambiamento epocale, che in diversi atenei americani ha portato addirittura a cambiarne gli statuti. Noi ci stiamo arrivando, senza bisogno di cambiare gli statuti: ci basta un senato accademico sottomesso.

  1.  Possiamo dire che si sta cercando di politicizzare la scienza? E’ giusto farlo?

Non solo la scienza. Si sta politicizzando tutto, dai rapporti interpersonali ai codici etici delle imprese e delle istituzioni. La faziosità e la politica stanno invadendo quelle che, a mio parere, dovrebbero semprerestare zone franche sacre: la ricerca scientifica, la letteratura,  l’arte, la musica, il teatro, lo sport. Ma ci rendiamo conto che, un paio di anni fa, l’università di Milano è arrivata a sopprimere il corso di Paolo Nori su Dostoevskij perché Dostoevskij è russo? E che, sempre due anni fa, gli atleti disabili sono stati esclusi dalle Paralimpiadi in quanto russi o bielorussi?

  1. L’Università dovrebbe essere un luogo di scambio di esperienze e di contaminazione: escludendo qualcuno o qualcosa non si rischia di perdere per strada valori e conoscenze?

Certo, si perde tantissimo sul piano scientifico-culturale. Ma si perde molto anche sul piano politico-diplomatico. Peccherò forse di ingenuità, o di idealismo, ma sono convinto che, se avessimo avuto il coraggio di mantenere zone franche, le vie del dialogo sarebbero oggi meno impervie.

E poi c’è un’altra ragione, per cui credo nelle zone franche.

  1. Quale?

Per spiegarla devo fare una premessa. A mio parere, il tratto fondamentale del nostro tempo è il rifiuto di riconoscere l’umanità dell’altro, un rifiuto che in questo momento colpisce i russi in quanto russi, gli israeliani in quanto israeliani, le donne israeliane a dispetto del loro essere donne. L’esistenza di zone franche, in cui le persone si incontrano come scienziati, scrittori, atleti, musicisti, sarebbe un prezioso contro-veleno rispetto al dilagare dell’odio neo-razzista.

  1. L’attacco alla professoressa Chiara Saraceno, costretta a intervenire e difendere la sua storia accademica e di femminista, che cosa rappresenta?

E’ la rappresentazione plastica dell’imbarbarimento di una componente significativa del femminismo, che ormai ha assunto tratti neo-razzisti.

Chiara Saraceno, che è stata mia direttrice quando ero al Dipartimento di Scienze Sociali, è una grande studiosa, femminista coerente, donna coraggiosa. Che le ragazze di oggi siano arrivate al punto di contestare Chiara Saraceno, la dice lunga sul livello di faziosità e intolleranza cui si è arrivati.

Le esprimo tutta la mia solidarietà. Ma vorrei metterle una pulce nell’orecchio: siamo sicuri che l’indulgenza del mondo progressista verso la mentalità woke, la timidezza nel condannare i tanti episodi di squadrismo “antifascista”, la iper-politicizzazione delle nostre discipline sociali, la costante demonizzazione degli avversari, non abbiano contribuito a chiudere gli spazi del dialogo e della tolleranza?

[intervista uscita su La Stampa, 22 marzo 2024]




Intervista di Mirella Serri a Luca Ricolfi

Nel suo libro “La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli) lei ha elaborato un insolito modello interpretativo per decodificare gli ultimi inaspettati cambiamenti politici: ovvero come mai destra e sinistra si sono scambiate da qualche tempo la base sociale e, mentre i più poveri e gli operai votano a destra, i più abbienti si volgono a sinistra. Adesso ripropone questo excursus tra vecchie e nuove povertà con una nuova introduzione (Un’altra sinistra è possibile?) in cui si rivolge direttamente alla sinistra riformista italiana.

La sinistra italiana è impegnata soprattutto nelle cosiddette “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti lgbtq+. La parola d’ordine è “inclusione”. Basta per convincere gli strati popolari a votarla?

Ne dubito, se non altro perché fra le categorie di cui – in nome dell’accoglienza – si auspica l’inclusione vi sono anche gli immigrati irregolari, che ai ceti popolari creano almeno tre problemi: pressione al ribasso sui salari (il cosiddetto dumping), insicurezza nei quartieri popolari e nelle periferie, competizione nell’accesso al welfare, specie sanitario. È il caso di ricordare che il tasso di criminalità degli irregolari è dell’ordine di 20-30 volte quello degli italiani, e che l’immigrazione irregolare – a differenza di quella regolare – è essenzialmente un costo, perché non paga né le tasse né i contributi. La sinistra ha tutto il diritto, anzi il dovere, di proporre soluzioni diverse da quelle della destra, ma non può continuare a ignorare o minimizzare il problema, almeno se vuole recuperare una parte del voto popolare.

Lei ha sempre considerato un suo punto di riferimento “L’età dei diritti” di Norberto Bobbio. Lo è ancora oggi?

Sì, perché Bobbio istituisce una distinzione cruciale – oggi perlopiù ignorata – fra legittime aspirazioni e diritti in senso proprio. Oggi si tende a chiamare diritti, e a trattare come diritti naturali e universali, aspirazioni (ma talora Bobbio le chiama pretese) che non hanno ancora un riconoscimento giuridico che ne garantisce il godimento effettivo. È il caso, per fare due esempi di attualità, del matrimonio egualitario e dell’eutanasia.  

È un punto molto importante, perché spiega due cose. Primo, come mai nel nostro sistema sociale sono così diffusi vittimismo, frustrazione, aggressività, rabbia. Secondo, come mai da decenni non si osservano più grandi movimenti sociali e grandi lotte, come quelle del ciclo 1967-1980.

Perché mai la rivendicazione di diritti dovrebbe ostacolare le lotte?

È semplice: perché se pensi che hai diritto a qualcosa il tuo atteggiamento è di esigerla dallo Stato, questa cosa cui hai diritto; se invece pensi che la tua sia solo un’aspirazione, magari anche un po’ controversa, ti poni il problema di portare dalla tua parte chi non è d’accordo, e di lottare per ottenere ciò cui aspiri, come mezzo secolo fa è successo per divorzio e aborto. Le aspirazioni producono impegno, i diritti presunti risentimento.

In questo, pur riconoscendo l’importanza del contributo di Bobbio, mi sento più in sintonia con Simone Weil, che tendeva a ragionare in termini di doveri e di conquiste, più che di diritti.

Esiste una sindrome vittimistica che prevale a sinistra?

Eccome, ci sono studi di psicologia sociale che lo hanno documentato in modo molto preciso, usando la “scala di Rotter”, una geniale invenzione degli anni ’50. La tendenza a chiamare sempre in causa la società, il sistema, la situazione, i condizionamenti, sottovalutando tutto ciò che dipende dall’individuo, è tipico della mentalità progressista. È un problema, perché questo atteggiamento disincentiva l’assunzione di responsabilità, che è un ingrediente essenziale di qualsiasi sistema sociale.

Secondo lei l’accettazione acritica della modernizzazione è un problema?

Lo è perché i progressi tecnologici in campo bio-medico, militare, elettronico, informatico, hanno ricadute pesantissime sulla vita quotidiana e sulla salute. Di recente, statistici e psicologi hanno documentato i danni mentali (fino all’autolesionismo e al suicidio) che i social stanno provocando sui ragazzi, e ancor più sulle ragazze. Altre ricadute della tecnologia, invece, le vedremo solo fra un po’, quando l’intelligenza artificiale e l’automazione verranno sfruttate estensivamente da organizzazioni criminali e stati-canaglia (naturalmente, so benissimo che anche solo accennarne suscita l’accusa di luddismo).

In cosa sbaglia la sinistra in crisi? Trascura tematiche fondamentali come occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e protezione sociale? Sottostima le diseguaglianze?

Ho scritto La mutazione anche per dire lo sconcerto che in tanti, a sinistra, proviamo di fronte all’involuzione dell’establishment progressista. Di fatto, negli ultimi decenni la sinistra ha abbandonato tre bandiere fondamentali: la difesa dei ceti popolari “nativi”, in omaggio all’accoglienza; la difesa della libertà di pensiero, in nome del politicamente corretto e delle minoranze Lgbt; l’idea gramsciana dell’emancipazione attraverso la cultura, con la distruzione della scuola e il rifiuto del merito. Il guaio è che le prime due idee sono migrate a destra, e la terza lo sta facendo, con la decisione di Giorgia Meloni di attuare gradualmente l’articolo 34 della Costituzione, che prevede borse di studio per i “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (“l’articolo più importante”, secondo Piero Calamandrei). Tutto questo ha fortemente depauperato il patrimonio ideale della sinistra, e ha finito per arricchire quello della destra: il valore sottratto al campo progressista si è tramutato in valore aggiunto per il campo conservatore.

È una situazione irrimediabile?

Spero proprio di no, non dobbiamo rassegnarci. E a giudicare da quel che sta accadendo in Europa qualche speranza di cambiamento possiamo nutrirla. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, Svezia sono in corso diversi esperimenti politici per costruire una “sinistra blu” (da blue collar), meno sorda alle istanze popolari. Questo tipo di sinistra contende efficacemente il sostegno popolare alla destra perché incorpora sacrosante istanze securitarie, diffida del politicamente corretto, privilegia i diritti sociali rispetto a quelli civili, non ignora gli effetti anti-popolari della transizione green.

L’ascensore sociale si è bloccato? La cultura alta è ancora strumento di emancipazione dei ceti popolari attraverso l’istruzione?

L’ascensore è bloccato perché – con l’illusione di includere – si è drasticamente abbassato il livello degli studi nella scuola e nell’università, e nulla si è fatto per premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”. È uno dei tanti paradossi italiani che tocchi a Giorgia Meloni attuare il sogno di Piero Calamandrei.

(intervista uscita su “La Stampa” il 26 febbraio 2024)




Italia Oggi intervista Luca Ricolfi

Professore, in Francia, grazie ai voti di Rn e senza la sinistra, è stata approvata una legge che inasprisce le misure contro l’immigrazione irregolare e rende più facile anche revocare i permessi di soggiorno. Macron è più a destra del governo di destra italiano?

Per quel che capisco, il punto è che Macron non dispone di una maggioranza autonoma, e quindi è in balia delle opposizioni, di destra e di sinistra. Ma forse la riflessione che la vicenda di questa legge suggerisce è anche che abbiamo un po’ troppo idealizzato il sistema francese, e che dobbiamo compiacerci di non averlo preso come modello per la riforma del nostro sistema. Tra l’altro, trovo stupefacente che un primo ministro – in questo caso la semisconosciuta Mme Élisabeth Borne – sia costretta a varare una legge dicendo che probabilmente è incostituzionale. Almeno, in Italia le accuse di incostituzionalità provengono da chi le leggi non le ha votate…

Quanto alla sostanza del problema, credo che la chiave sia molto semplice: fra 6 mesi si vota per il Parlamento europeo, e i politici stanno capendo che l’opinione pubblica – oggi più che mai – vede gli immigrati come un problema, più che come una risorsa.

Non è strano per i politici di destra e centro-destra, ma è una novità per quelli di sinistra, che sono spaccati fra chi comincia a capire il nesso fra immigrazione e criminalità e chi resta abbarbicato alle vecchie parole d’ordine cosmopolite.

Perché l’immigrazione irregolare è diventata tema così sentito anche nell’elettorato di sinistra?

Non è una novità assoluta, il problema è sentito a destra almeno da 30 anni. Quel che è nuovo, forse, è che ormai anche i progressisti si rendono conto che c’è un conflitto insanabile fra imperativo dell’accoglienza e sicurezza dei cittadini. In Italia è chiarissimo: gli immigrati sono meno del 9% della popolazione, ma commettono circa il 40% dei reati, compresi quelli più odiosi, come le aggressioni in strada e gli stupri. E, a giudicare dagli ultimi dati ufficiali e consolidati (fermi al 2022), dopo il Covid i minorenni stranieri stanno dando un apporto sempre maggiore alla criminalità.

Alcuni le risponderebbero che se ci sono più minori stranieri che delinquono rispetto agli italiani è perché non siamo stati capaci di fare abbastanza integrazione. Siamo noi a essere inadeguati.

Certo, in astratto è così. Ma vale in tutti i campi. C’è sempre qualcosa che la società avrebbe potuto fare per evitare centinaia di emergenze sociali. Avremmo potuto mettere più medici e infermieri negli ospedali, più insegnanti nelle scuole, più alloggi popolari nelle periferie, più badanti nelle case, più psicologi alle calcagna di ogni sbandato, più cultura e meno violenza/sesso/droga nei media, più sport e meno telefonini, più concerti e meno trapper, più scienziati e meno influencer, ma la domanda è: con quali risorse, con quali priorità, con quali restrizioni alla nostra libertà?

Più specificamente: la precondizione di un’accoglienza riuscita è la possibilità di regolare il flusso degli ingressi sulle risorse disponibili per accoglienza e integrazione. È illogico teorizzare il diritto di entrare liberamente in Europa, e poi stupirsi se le condizioni di vita di una parte degli immigrati non sono degne di un paese civile.

L’accoglienza diffusa dei migranti resta uno dei cavalli di battaglia del Pd di Elly Schlein. Quanto vale elettoralmente questa posizione?

A occhio, direi che vale un -10% di consensi, che poi è precisamente quel che manca alla sinistra per diventare maggioranza.

Romano Prodi è tornato a evocare la necessità di un federatore per il campo del csx. Conte ha subito replicato che forse servirà per le correnti del Pd. Che cosa si giocano i due partiti alle prossime Europee?

Come partiti, non si giocano molto. Avranno comunque il 35% dei seggi europei destinati all’Italia, e difficilmente si assisterà a un trionfo di Schlein su Conte, o di Conte su Schlein. La vera posta in gioco dell’appuntamento europeo, a mio parere, non è il destino di Pd e Cinque Stelle, ma il colore della prossima Commissione, che potrebbe – per la prima volta – escludere o marginalizzare i socialisti. Quanto a Conte e Schlein, ho l’impressione che non saranno né lei né lui a federare il centro-sinistra alle prossime elezioni. Mi aspetto che, di qui al 2027 emergano altre figure, un po’ meno scialbe.

Certo, è anche possibile che a cavare le castagne dal fuoco dello schieramento progressista non sia l’apparizione di un federatore (o di una federatrice), ma che ci pensi il governo in carica, che potrebbe inciampare in qualche guaio così grosso da far rimpiangere il Pd e i Cinque Stelle. Ma se questo non dovesse accadere, ai progressisti resterebbe il problema di trovare un leader o una leader in grado di reggere il confronto con Giorgia Meloni. E secondo me è più verosimile che un leader nuovo e carismatico emerga dal mondo Cinque Stelle piuttosto che dalla nomenklatura del Pd.

Quindi lei pensa a uno schieramento di sinistra-centro in cui a federare sia il M5s?

No, penso che anche la mia ipotesi sia improbabile, ma non così improbabile come l’ipotesi che dai 20 capicorrente del Pd miracolosamente salti fuori un leader capace di controllare il partito e imporre la propria guida anche ai Cinque Stelle.

Sta formulando una specie di endorsement dei Cinque Stelle?

Per niente. La mia opinione sui Cinque Stelle resta negativa, se non altro perché hanno scassato i conti pubblici (se Giorgia Meloni dovrà remare tutta la Legislatura per tentare di varare qualche straccio di riforma economico-sociale, è solo perché i Cinque Stelle hanno devastato la finanza pubblica).

In realtà la mia apertura – possiamo chiamarla così? – verso i Cinque Stelle nasce da una considerazione sociologica: il problema del centro-sinistra è recuperare i ceti popolari, e i Cinque Stelle sono l’unica forza politica (nominalmente) di sinistra ancora in grado di attirarne i voti. Il compito storico del Pd è tenersi i voti dei ricchi e dei “ceti medi riflessivi”, cosa per la quale Elly Schlein è fin troppo attrezzata con le sue idee sul green, la transizione energetica, i diritti LGBTQIA+ (ho dimenticato qualche lettera?). Il compito dei Cinque Stelle è riportare a sinistra nuovi segmenti dell’elettorato popolare.

Sarebbe la fine della centralità del Pd…con quali effetti sul csx?

Malefici, se i Cinque Stelle non riusciranno a liberarsi del qualunquismo e della superficialità che si portano dietro dall’origine. Benefici, se la cultura politica dei Cinque Stelle evolvesse, e dovesse riuscire a sinistra quel che, negli ultimi 10 anni, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto a destra: convogliare verso di sé una parte dei voti popolari così cospicua da rompere l’egemonia del partito più grande (Forza Italia) e del leader più ingombrante (Berlusconi).

A più di un anno dall’insediamento del governo Meloni, come è cambiata la politica italiana? Le esperienze dei governi tecnici sono alle spalle?

Direi proprio di sì. Se si farà, la riforma presidenzialista renderà impossibile la formazione di “governi del Presidente” (che poi questo sia un bene, è tutto da vedere, anche se è difficile negare che è stato proprio un certo abuso del potere presidenziale a legittimare il cambio di assetto istituzionale). Quanto ai mutamenti della politica italiana nell’era Meloni, direi che sono essenzialmente due, strettamente interdipendenti: poche riforme economico-sociali (perché le risorse sono state prosciugate dallo sciagurato bonus del 110%), e conseguente spostamento dell’asse dell’azione di governo sul teatro internazionale. Dove, a quanto pare, Meloni ha una marcia in più.




La fallacia oscurantista: dove sbagliano i nemici del merito – In esclusiva un estratto dal nuovo libro di Luca Ricolfi

Qualcuno potrebbe pensare che l’ostilità che il dibattito pubblico riserva al merito sia soprattutto il risultato di credenze errate o indimostrate. Molti non sanno quanto sia debole la corrispondenza fra classe di origine e risultati scolastici. O quanto numerosi siano i ragazzi poveri che vanno bene a scuola e i ragazzi ricchi che vanno male.  O quanta importanza abbia l’impegno negli studi.

Più in generale, molti adottano una visione alquanto determinista della vita sociale, che sottovaluta i gradi di libertà dell’individuo, e amplifica i condizionamenti dell’origine sociale, del corredo genetico, delle circostanze della vita.

Ma è solo questo?

No, se vogliamo capire fino in fondo perché a tanti l’idea di premiare i capaci e meritevoli non piace, o addirittura suscita un moto di ribellione, dobbiamo cercare di entrare nella testa dei detrattori del merito. Dobbiamo provare a ricostruirne la logica. Perché una logica esiste. È una logica sbagliata, ma è comunque una forma di ragionamento.

Possiamo riassumerlo così:

1 – i capaci e meritevoli, proprio perché sono tali, hanno meno bisogno di aiuto;

2 – chi ha veramente bisogno di aiuto sono i ragazzi in difficoltà, ossia i non capaci e meritevoli;

3 – se aiutiamo i primi, senza aver prima aiutato i secondi, amplifichiamo le diseguaglianze.

4 – quindi lo svolgimento dei programmi scolastici va tarato sui ragazzi in difficoltà.

Di qui due idee, entrambe risalenti a don Milani. Prima idea: la classe deve stare ferma “finché Gianni non ha capito”. Seconda idea: occuparsi dei capaci e meritevoli significa fare della scuola “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Non fa una grinza, apparentemente. Ma è radicalmente sbagliato, oltreché alquanto oscurantista. Ragionare così significa non aver compreso come funziona la macchina della disuguaglianza.

Qual è la fallacia logica?

La fallacia di base è di trattare quel che accade nel piccolo cosmo della classe come se fosse una versione in scala ridotta di quel che succede, o meglio di quel che succederà, nel più vasto mondo della società. Certo, fermare la classe in attesa di Gianni, a prima vista parrebbe ridurre la distanza fra Pierino e Gianni. Ma che succederà poi?

Poi succedono fondamentalmente due cose, una fra i ragazzi capaci e meritevoli, l’altra fra quelli che non vanno bene negli studi. Due gruppi che, è bene ricordarlo, non sono costituiti in blocco l’uno da ricchi e l’altro da poveri, ma contengono entrambi, sia pure in proporzioni diverse, ragazzi di estrazione sociale bassa e alta.

Ebbene, nel gruppo dei capaci e meritevoli, succede che il mancato sostegno economico a quanti sono “privi di mezzi” (ossia la mancata attuazione dell’articolo 34) fa un enorme favore ai cosiddetti pierini. Buona parte dei bravi a scuola poveri, infatti, rinuncerà ai percorsi di studio più prestigiosi (licei) e più lunghi (università e dottorato), permettendo ai pierini, che hanno mezzi economici e conoscenze familiari, di fare la loro corsa indisturbati, senza la fastidiosa concorrenza dei capaci e meritevoli provenienti dai ceti medio-bassi. La classe dirigente continuerà a formarsi attingendo quasi esclusivamente dai ceti privilegiati, in aperto contrasto con i sogni egualitari dei Padri costituenti.

E nel gruppo dei non capaci e meritevoli, che succederà?

Anche qui, come sappiamo, ci sono sia ragazzi dei ceti bassi (circa 2 su 3), sia ragazzi dei ceti alti (circa 1 su 3). Ebbene, il fatto che la classe sia stata ferma, e abbia imparato meno del dovuto, produrrà effetti di segno opposto ai due estremi della scala sociale. I figli dei ceti medio-alti andranno avanti a dispetto di tutto, perché il deficit di preparazione verrà compensato dalle risorse familiari: reddito, ricchezza, ripetizioni private, possibilità di prolungare indefinitamente gli anni di studio; e poi, sul mercato del lavoro, la preziosa risorsa delle conoscenze familiari. Mentre i figli dei ceti medio-bassi, le cui uniche risorse sono la conoscenza e la preparazione, pagheranno carissime le lacune e i deficit accumulati nei primi cicli di studio. Se, dopo l’obbligo, realisticamente intraprendono un percorso di studio breve, finiranno per doversi accontentare di occupazioni modeste, precarie o mal pagate. Se ne intraprendono uno lungo e/o impegnativo, correranno il rischio di interrompere prematuramente gli studi per mancanza di basi adeguate. Perché la scuola senza qualità, rinunciando a tenere alto per tutti il livello degli studi, ha tolto loro l’unica arma con cui avrebbero potuto misurarsi alla pari con i figli dei ceti medio-alti.

Ironia della sorte, è quel che capitò a suo tempo a diversi allievi di don Milani. Non tutti lo sanno o amano ricordarlo, ma Lettera a una professoressa venne scritto per vendetta, per punire una insegnante che, a causa della loro impreparazione, aveva respinto alcuni allievi di don Milani.

Come si vede, in entrambi i gruppi, quello dei bravi e quello dei non bravi, la linea di ragionamento anti-merito può avere effetti egualitari all’interno del micro-cosmo della classe – perché nessuno è bocciato e i bravi sono abbandonati a loro stessi – ma ne ha di drammaticamente disegualitari nel vasto mondo della vita adulta.

Pensare che quel che accadrà nella vita sia una sorta di proiezione o estrapolazione di quel che accade all’interno della classe è la fallacia logica fondamentale della guerra contro il merito. Una fallacia che, inevitabilmente, conduce a esiti oscurantisti.

Oscurantista è non riconoscere il merito dei bravi a scuola, e rinunciare a sostenerli negli studi quando sono “privi di mezzi”. Ma oscurantista è anche pensare che, per quelli che bravi a scuola non sono, la via maestra non sia quella di seguirli, aiutarli, supportarli fino a fargli raggiungere un livello di preparazione adeguato, ma sia quella di abbassare gli standard. Queste due rinunce, a sostenere economicamente i più bravi, e a elevare culturalmente i meno bravi, sono gli ingranaggi fondamentali della macchina della disuguaglianza.

[estratto dal libro La rivoluzione del merito, Rizzoli 2023]




La rivoluzione del merito

(Intervista di Nicola Mirenzi a Luca Ricolfi, uscita sul Foglio il 7 settembre 2023)

“La rivoluzione del merito” – l’ultimo libro di Luca Ricolfi – appena uscito in libreria con Rizzoli dovrebbe già essere sulla scrivania di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Il libro racconta la storia della lotta contro il merito, e contiene anche, alla fine, una “modesta proposta” per istituire un generoso sistema di borse di studio per i ragazzi capaci e meritevoli ma poveri.

“La presidente del consiglio”, racconta Ricolfi, “condivide l’idea lanciata dalla Fondazione Hume e ripresa nel mio saggio. E, a quel che ne so, è determinata a realizzarla fin dalla fine di questo anno scolastico”. Ricolfi è ossessionato dal problema del merito fin dai tempi delle riforme di Luigi Berlinguer, fine anni ’90. “Ancora non riesco a darmi ragione del silenzio di tutte le forze politiche, a partire da quelle che si proclamano progressiste, per il destino dei ragazzi ‘bravi a scuola’ ma provenienti da famiglie modeste”.

Sociologo dotato dell’abilità di scrivere con chiarezza illuministica, Ricolfi è nato nel 1950, lo stesso anno in cui Piero Calamandrei, a Roma, pronunciò davanti a maestri e professori uno strepitoso discorso in difesa della scuola, raccontato nel primo capitolo del libro. Un discorso poco conosciuto, che parla dell’articolo 34 della Costituzione. Quello che recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi”. Secondo Calamandrei, “l’articolo più importante della Costituzione”. Di cui è necessario ricordare “il valore politico e sociale”. Perché solo attraverso il sostegno ai capaci e meritevoli la scuola può far crescere “i migliori” e garantire un proficuo ricambio della classe dirigente. “I partiti progressisti hanno dimenticato la lezione di Calamandrei. Anzi hanno sconsideratamente tradito l’articolo 34 per abbracciare la bandiera del ‘diritto al successo formativo’, che ha danneggiato proprio le persone che ai progressisti dovrebbero stare più a cuore: le più umili”.

La difesa della cultura come strumento di emancipazione – un tempo centrale anche nella politica del Pci di Togliatti – è diventata di destra? “È ancora presto per dirlo. Al momento, si può solo prendere atto che la bandiera della cultura è in un limbo: i progressisti l’hanno abbandonata, la destra non l’ha ancora raccolta”. La novità è che, a sinistra, la parola merito è diventata quasi una bestemmia, dopo essere stata posta a fianco di “istruzione” nel nome del ministero guidato da Giuseppe Valditara. “Mentre sarebbe ancora oggi il discorso più di sinistra che si possa fare”. Ma né Elly Schlein, né nessun altro dei segretari precedenti del Pd, ha mai invitato Ricolfi a un incontro di partito. È stata piuttosto Giorgia Meloni a chiedergli di partecipare, nella primavera scorsa, alla convention di Fratelli d’Italia per parlare di scuola. Già in passato Ricolfi aveva avuto scambi di idee con la presidente del Consiglio. La prima volta che si videro era il 2014, quando Fratelli d’Italia era ancora un giovane e piccolissimo partito. Fu a proposito del maxi-job, una proposta che la Fondazione Hume aveva lanciato dalle pagine del quotidiano “La Stampa”. La proposta (azzerare i contributi per le imprese che aumentano l’occupazione) era piaciuta a Giorgia Meloni, che andò a Torino per farsela raccontare in dettaglio. “Una vera sorpresa per me: una donna politica interessata ai minimi dettagli tecnici, e che prende un aereo per andare a parlarne con un sociologo della parte politica avversa”.

Conservatore? No, Ricolfi si definisce “un uomo di sinistra”. In politica economica, addirittura radicale. “Io sono un sessantottino. La mia generazione è cresciuta nel mito della rivoluzione. E nemmeno io sono immune dal suo fascino. Certo, non ho mai pensato che il potere dovesse essere conquistato con la violenza, come predicavano gli estremisti degli anni Settanta. Ma, anche quando ho scelto il riformismo, sono rimasto fedele all’idea che, per cambiare davvero le cose, qualsiasi riforma deve essere radicale, decisa, senza mezze misure. L’Italia va rivoltata come un calzino. Tutto il resto è acqua fresca”. L’immagine del Ricolfi rivoluzionario è poco nota. “Ero vicino al Psiup, allora guidato da Pino Ferraris. Ma lasciai nel 1971, quando, a una manifestazione, Lotta Continua e gli psiuppini se le diedero di santa ragione con le aste delle bandiere per prendere la testa del corteo. Così io salii sulla mia Fiat 850 e mi rifugiai in montagna, dove rimasi per circa un anno, scendendo solo a dare esami. Per quasi un anno mi dedicai solamente a studiare i miti greci e a tradurre (malissimo) la Einbahnstrasse di Walter Benjamin. Di quel tipo di politica lì, di quella competizione senza senso fra gruppetti extraparlamentari, non volli saperne più niente”.

Seppur sessantottino, Ricolfi è stato in polemica anche con la propria generazione, a cui oggi imputa parte della responsabilità di aver contribuito alla distruzione del merito. “Credevo che per fare la rivoluzione fosse necessario studiare. Non puoi cambiare il mondo, dicevo, se prima non fai lo sforzo di conoscerlo a fondo. La mia generazione tendeva invece a credere che anche l’istruzione fosse uno strumento del dominio di classe. Di qui l’idea degli esami collettivi e del voto politico. Che detestavo non perché i miei compagni, senza studiare, prendessero gli stessi voti che prendevamo noi, studiando. No. Quello che odiavo davvero è che poi non sapessero nulla neanche di Marx, di cui si riempivano in continuazione la bocca”.

Il corpo a corpo più drammatico del libro lo ingaggia con Don Lorenzo Milani. Eroe del suo tempo e ancora oggi icona del progressismo. “In ‘Lettera a una professoressa’ è evidente il suo disprezzo per la cultura alta, in particolare quella umanistica, vissuta semplicemente come uno strumento di oppressione borghese. Ma in Don Milani c’era ancora un elemento che poi nei suoi epigoni è sparito del tutto. Il valore dello studio, e del tempo pieno per i ragazzi in difficoltà. Nella scuola di Barbiana non c’erano vacanze. Si stava in classe tutto il giorno. Anche nel fine settimana. Per questo ritengo necessario distinguere Don Milani dal ‘donmilanismo’. Nel primo, c’è parecchio da rifiutare ma anche qualcosa da custodire. Nel secondo, c’è solo la rinuncia a trasmettere la cultura alta ai figli delle classi basse.”.

E invece Meloni sarebbe una rivoluzionaria autentica? “A suo modo, credo sia una donna radicale. Anche in politica economica. Il suo chiodo fisso è l’occupazione. L’idea della flat tax non la entusiasma. Credo che, finché potrà, eviterà di applicarla nelle sue versioni iper-liberiste. Per una ragione semplice: in fondo, lei è una vera keynesiana”. Ma è davvero rivoluzionario essere keynesiani, in Italia? “No, se si commette l’errore di confondere l’intervento pubblico con l’assistenzialismo, che è quello che in Italia è sempre andato di moda. Ma il fine delle politiche keynesiane, si dimentica spesso, non è la spesa pubblica in sé: è l’investimento pubblico per raggiungere la piena occupazione, creare lavoro. E su questo sono in piena sintonia con Meloni: nessun aumento salariale, nessun reddito di cittadinanza, nessun sussidio, potrà mai avere, dentro una famiglia, l’impatto che ha uno stipendio in più”.

Delle conseguenze della propria radicalità, Luca Ricolfi si rimprovera una sola cosa: “Il libro che ho scritto su Tangentopoli, “L’ultimo parlamento”. Rigoroso nei numeri, ma così ferocemente giustizialista che oggi mi vergogno di averlo scritto. Non perché il fine non fosse sacrosanto: rinnovare il sistema politico italiano in profondità. Ma perché oggi so che nessun fine può essere distinto dai mezzi che si adoperano per raggiungerlo. E i mezzi usati da Di Pietro e dal pool di Mani Pulite furono (dico oggi) non degni di un paese civile, per non dire mostruosi”.

Dalla parola radicale, sente di potersi allontanare solo quando parla dei valori culturali. “In questo non nascondo di essere un conservatore”. La società opulenta e permissiva ha creato ben poco di buono, secondo Ricolfi. “Per esempio, è stato un errore – in nome di una falsa inclusività – sbarazzarsi della trasmissione del sapere, che la scuola aveva garantito in passato. Come è stato sbagliato, in nome della sovranità assoluta dell’io, liberarsi completamente del senso del pudore. Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Ma attraverso i social è stata abolita l’intimità. Oggi è quasi vietato starsene per i fatti propri. La timidezza e l’introversione sono state bandite dal modo di essere uomini e donne”. Ma anche nell’educazione sentimentale sono stati fatti danni. “Abbiamo fatto molto male a demonizzare le nostre tradizioni culturali. C’era in esse un patrimonio di gesti, di codici di comportamento, di approcci tra uomo e donna senza i quali, oggi, in assenza di qualsiasi altro codice, più facilmente si riprecipita nella violenza e nella prevaricazione. Fino ad arrivare all’estremo dello stupro di gruppo. Com’è accaduto nel recente caso di Palermo”.

Si dovrebbero recuperare allora le culture antiche? “Non penso né che si possa, né che sia giusto farlo. Io sono per andare avanti, ma custodendo il buono che c’è – anzi che c’era – nel mondo che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ad esempio: la trasmissione della cultura, la capacità di differire la gratificazione, il rispetto dei ruoli, l’esercizio dell’autorità nell’educazione dei figli. Più in generale, l’accettazione del limite, che è il vero nucleo della visione conservatrice del mondo, da Edmund Burke a Roger Scruton, da Raymond Aron a Simone Weil”.

E i conservatori italiani? “L’Italia ha una particolarità. È un Paese in cui non si scontrano due grandi visioni del mondo. Ma ne esiste solo una: quella progressista. È la sinistra che conduce le battaglie di civiltà. Afferma diritti. Combatte privilegi. Sempre in nome di un’idea più alta. La destra non fa altro che reagire a questa spinta. Rintuzzare gli eccessi. Scalpitare per non essere soffocata. La destra non ha un’idea di mondo alternativa a quello progressista. Si limita a schierarsi contro. Passando spesso per reazionaria, oscurantista, appunto perché non oppone a un’idea di mondo un’altra idea di mondo, ma si limita a reagire all’unica idea in campo. Ecco in cosa consiste la vera egemonia culturale della sinistra. Non il potere. Non le poltrone. Non i ruoli. Ma un’idea di civiltà”.