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Il fantasma del pluralismo

15 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Anni fa a un imam, residente nel nostro paese, venne fatta la domanda: “Perché volete la moschea a Roma, sede del Vicario di Cristo, e non consentite che si edifichi una Chiesa a La Mecca o a Medina?”. La risposta fu perentoria:” Noi islamici adoriamo il vero Dio, non possiamo quindi ammettere che si veneri un idolo!”. Si può sorridere dell’ingenuità dell’imam solo a patto di dimen-ticare che anche de nobis fabula narratur. La nostra cultura politica, infatti, è stata segnata da un universalismo (cattolico e illuministico) che ripugna a quel sano scetticismo, antico e moderno, che da Pirrone porta a Montaigne a David Hume, a Isaiah Berlin.. Per questo stile di pensiero, la verità è unica e sta da una sola parte: la Chiesa è il porto della salvezza del genere umano o, al contrario, è la costruzione di uno dei tre impostori (Mosè, Cristo, Maometto) di cui parlava il barone d’Holbach: tertium non datur. Oggi, in Italia, è lecito, e per alcuni doveroso, manifestare contro il ‘genocidio’ israe-liano sventolando la stessa bandiera della copertina del libro di Filippo Kalomenidis, La rivoluzione palestinese del 7 ottobre, ma a sventolare quella israeliana – in una manifestazione che ricordi il più atroce massacro di ebrei, dopo quello nazista – si corre il rischio di essere malmenati o aggrediti (prudentemente, le questure invitano gli ebrei italiani ad astenersi dal fare pubblicità alle loro iniziative). E’ il caso di dire che nel nostro paese la pianta del pluralismo è rinsecchita: siamo tutti pluralisti a parole ma siamo tutti convinti, del pari, che le nostre idee siano dettate dalla coscienza morale mentre quelle dei nostri nemici siano farina del demonio. Frutto di questa ‘barbarie della mente’ è l’ostracismo dato, sui grandi giornali e canali televisivi (pubblico e non), al principio delle due campane, che impone di sentire sempre le ragioni dell’altro. Siamo “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”, diceva quel tale. Avrebbe dovuto aggiungere “..e di inquisitori!”. Con l’aggravante che a decidere chi debba essere inquisito e messo a tacere non sono le istituzioni dello Stato di diritto, ma i ‘movimenti’ che nascono dal basso e si fanno portavoce degli ideali di giustizia dei popoli.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[articolo uscito il 14 ottobre su IL GIORNALE DEL PIEMONTE E DELLA LIGURIA]

A proposito del caso Almasri – Ipocrisia?

3 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Credo siano in pochissimi a sapere quel che davvero è successo nelle convulse giornate che hanno portato prima all’arresto, poi alla scarcerazione, infine al rimpatrio su un aereo di Stato italiano, del capo della polizia giudiziaria libica. In compenso siamo in tantissimi ad esserci fatte alcune domande fondamentali: perché il governo ha scelto di rimpatriare Almasri anziché arrestarlo? Perché Giorgia Meloni non ha detto a chiare lettere quello che quasi tutti credono di sapere, e cioè che la vera ragione del frettoloso rimpatrio di Almasri è stato il timore di ritorsioni del governo libico, pronto a scagliare verso il nostro paese orde di richiedenti asilo? E infine: perché Giorgia Meloni non ha fatto come Trump, che non ha esitato a sbandierare ai quattro venti la durezza delle proprie misure contro i migranti illegali? Perché tanta ipocrisia nella vicenda del torturatore libico?

Come cittadino, sono sconcertato come tutti. Ma, come sociologo, non lo sono per niente. Viste con la lente della mia disciplina, le vicende del caso Almasri sono perfettamente comprensibili. Uno dei cardini della sociologia, posto da Max Weber fin dal 1919 nel saggio La politica come professione, è la distinzione fra etica della convinzione, o dei principi (tipica di missionari e predicatori), e etica della responsabilità (che secondo Weber dovrebbe guidare i politici). Agisce secondo l’etica della convinzione chi opera secondo principi ritenuti giusti, senza curarsi delle conseguenze pratiche che ne possono derivare. Agisce secondo l’etica della responsabilità chi valuta le proprie azioni non solo in base a principi etici o morali, ma anche in base alle loro conseguenze. Ad esempio: un cultore dell’etica della convinzione in nessun caso potrebbe sottoporre a sevizie e torture un altro essere umano, ma che fare se torturare un terrorista è l’unico modo per evitare la morte di migliaia di innocenti minacciati da un ordigno a orologeria che solo lui può disinnescare?

Ebbene, alla luce della distinzione weberiana, è chiaro che Giorgia Meloni si è mossa secondo l’etica della responsabilità, mettendo sui due piatti della bilancia sia la palese ingiustizia di lasciare libero un criminale, sia la (meno palese) ingiustizia di esporre i cittadini italiani alle conseguenze di vari tipi di possibili ritorsioni (ripresa degli sbarchi, sequestri di cittadini italiani in Libia, per non parlare degli interessi dell’ENI in quel paese). Nell’ottica di Weber, stupefacente e discutibile sarebbe stato che il governo avesse agito secondo l’etica della convinzione, anziché secondo quella della responsabilità. Se le cose stanno così, a maggior ragione sembrerebbero porsi gli altri interrogativi: perché non proclamare le proprie ragioni davanti ai cittadini? Perché non adottare una postura trumpiana? Perché tanta reticenza e ipocrisia?

Anche qui la sociologia ha molto da dire, benché non sia stata certo la prima a farlo. Secondo Jon Elster, uno dei più grandi scienziati sociali del Novecento, l’ipocrisia praticata nella scena pubblica ha una fondamentale funzione di coesione sociale, di irrobustimento delle istituzioni, di rafforzamento di valori positivi condivisi. A suo modo, e paradossalmente, funziona come una “forza civilizzatrice”. Il cattivo che ipocritamente si finge buono, proprio attraverso quella finzione proclama il valore della bontà. È esattamente quello che, quattro secoli fa, aveva intuito François de La Rochefoucauld con il suo fulminante aforisma: “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio tributa alla virtù”. Il vizioso che si finge virtuoso riconosce con ciò stesso il valore della virtù.

Ed eccoci al tema della mancata postura trumpiana. Perché adottare un profilo basso? Perché non maramaldeggiare assumendo atteggiamenti ostili nei confronti dei migranti detenuti in Libia?

L’interpretazione malevola è che il governo, come i governi precedenti, si vergogni degli accordi con la Libia ma in cuor suo (ammesso che un governo abbia un cuore) ne è ben felice, purché gli accordi funzionino. L’interpretazione del sociologo che ha recepito la lezione di Elster è che siamo in Europa, non in America. Il nostro orizzonte valoriale certo include la necessità di trovare una soluzione al problema della sicurezza e dei confini, ma include anche l’imperativo etico di rispettare i diritti dei richiedenti asilo. È per questo che, in Italia, nessuno – nemmeno la destra – si permette di fare la faccia feroce, come succede in America con Trump e in Germania con l’Afd di Alice Weidel. L’imbarazzo di Meloni è l’ammissione che, nell’affare Almasri, più che fare la cosa giusta il governo ha scelto il male minore, nonché l’implicito riconoscimento che i campi di detenzione in Libia sono un problema, e non da oggi (già nel 2018 ne diedero un resoconto illuminante Franco Viviano e Alessandra Ziniti in Non lasciamoli soli, Chiare Lettere).

Forse è questo il motivo per cui, nonostante la maggioranza degli italiani non approvi il comportamento del governo in questa vicenda, il consenso alla premier e al suo partito restano alti, se non in ulteriore ascesa. Segno che, almeno nei paesi mediterranei, tanto per l’opinione pubblica quanto per la classe di governo quello del rapporto con l’immigrazione resta un tragico dilemma, più che una crociata politica da intraprendere con la baldanza di chi si sente dalla parte della ragione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 febbraio 2025]

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