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Sorpasso? – Il circolo vizioso dell’economia italiana

28 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Qualcuno, nei giorni scorsi, si è entusiasmato per i dati appena rilasciati dalla Commissione Europea sulle varie economie del continente. Soprattutto i media che si occupano di economia non si sono fatti mancare i titoli più roboanti: “Pil pro capite, l’Italia raggiunge la Francia; “Pil pro capite, l’Italia cresce e raggiunge la Francia”; “l’Italia raggiunge la Francia per ricchezza pro capite”, “balzo del Pil pro capite italiano che raggiunge quello francese”, “il Pil pro capite dell’Italia ha raggiunto la Francia e superato Giappone e Regno Unito”.

La notizia non è del tutto falsa ma, parafrasando Mark Twain, è un tantino esagerata. Intanto va detto che quello di cui si parla non è il Pil dell’Italia (che è molto inferiore a quello della Francia), e neppure il Pil pro capite (che è un po’ inferiore), ma il Pil pro capite a parità di potere di acquisto (ossia tenendo conto del livello dei prezzi, che sono un po’ più bassi in Italia), che è la migliore misura del benessere economico raggiunto da un paese.

Questo indicatore effettivamente si avvicina a quello francese, ma – secondo le principali fonti statistiche – nel 2024 resta tuttora un po’ al di sotto. L’eventuale aggancio o sorpasso è semplicemente una previsione, o una speranza, che riguarda l’anno in corso, che non è ancora neppure arrivato a metà.

Poco male, si dirà. L’importante è la tendenza, se non succederà quest’anno sarà l’anno prossimo che finalmente scavalcheremo i cugini d’oltralpe. In effetti, può darsi benissimo che accada. E tuttavia il punto è che questa contabilità non sembra tenere nel debito conto il meccanismo complessivo che alimenta la nostra rincorsa.

Ed ecco il meccanismo. Da 10 anni, ovvero dal 2014, l’Italia perde popolazione, perché l’immigrazione non basta a bilanciare il calo demografico. La Francia, invece, continua ad aumentare la sua popolazione (anche grazie ai sussidi economici alle nascite). Questo significa che, mentre il Pil francese si spalma su una popolazione sempre più grande, con conseguente rallentamento del Pil pro capite, il Pil italiano si spalma su una popolazione sempre più piccola, con conseguente accelerazione del Pil pro capite. In 10 anni, dal 2014 ad oggi, l’Italia ha perso quasi 1 milione e mezzo di abitanti, la Francia ne ha guadagnati 2 milioni e mezzo. In breve: in Italia la demografia sostiene la crescita del Pil pro capite, in Francia la rallenta.

Ma a noi che ce ne importa? si potrebbe obiettare. Dopo tutto quello che conta non è il volume del Pil, ma il Pil per abitante. La prosperità di un paese si misura sul tenore di vita del cittadino medio, non sulla grandezza del prodotto interno lordo. Paesi come l’Islanda, il Lussemburgo, la Svizzera se la passano benissimo anche con un Pil (complessivo) relativamente piccolo.

Questo è vero, ma non fa i conti con un dettaglio cruciale: il rapporto debito pubblico/Pil, che è basso in Islanda, Lussemburgo e Svizzera, ma è altissimo in Italia. Un paese che punti, come sembra fare l’Italia, non sulla crescita del volume del Pil ma solo sul Pil pro capite, può permettersi una strategia del genere se ha un debito pubblico modesto, ma non se quest’ultimo è alto. Perché, ai fini della tenuta di conti pubblici, quel che conta non è il benessere del cittadino medio, ma la massa economica complessiva del paese, che è l’unico serbatoio da cui attingere per pagare gli interessi sul debito pubblico.

Detto in altre parole: un paese indebitato che perde popolazione si troverà via via più in difficoltà a ripagare il suo debito pubblico perché i debiti contratti quando aveva tanti abitanti dovranno essere saldati da una popolazione di discendenti sempre meno numerosa.

E non è tutto. Il circolo vizioso dell’economia italiana non è puramente demografico ma anche, per così dire, produttivo. I modesti incrementi del Pil degli ultimi anni sono ottenuti mediante una formula alquanto problematica: una produttività calante compensata da cospicui incrementi occupazionali o, se preferite, cospicui incrementi occupazionali vanificati da una produttività calante. In breve: il calo demografico e l’aumento dell’occupazione assicurano una certa tenuta del benessere, di cui il Pil pro capite a parità di potere di acquisto è l’indicatore sintetico; ma la crescita del Pil è frenata dal ristagno della produttività, che rende sempre più difficile pagare il debito pubblico accumulato in decenni di finanza allegra.

[articolo uscito sulla Ragione il 27 maggio 2025]

Elezione di Ursula von der Leyen – L’arroccamento

20 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Con 401 voti favorevoli Ursula von der Leyen è stata rieletta alla presidenza della Commissione Europea. Ne bastavano 361, ne ha avuti 40 in più. Il numero di voti ottenuti è quasi identico al numero di seggi (401) di cui dispongono i tre partiti – popolari, socialisti, liberali – che da sempre reggono le sorti dell’Unione Europea. Ma la corrispondenza aritmetica è fallace: in realtà, contro von der Leyen hanno votato diverse decine di franchi tiratori della sua stessa maggioranza, ed è solo grazie al soccorso dei Verdi che la maggioranza è risultata ampia. Quanto al partito di Giorgia Meloni, dopo molti dubbi e incertezze, ha finito per votare contro, insieme alle destre-destre.

L’ampio discorso con cui von der Leyen ha chiesto la riconferma conteneva, tra le altre cose, alcune robuste aperture ai Verdi sul Green Deal, e qualche timido segnale ai Conservatori di Giorgia Meloni sul problema migratorio. È abbastanza logico che i
Verdi non si siano fatti sfuggire l’opportunità di entrare in maggioranza, è meno chiaro se abbia fatto bene o male Giorgia Meloni a votare contro.

Le due letture che ascolteremo nei prossimi giorni sono entrambe ragionevoli: gli ultra-europeisti diranno che così l’Italia si è isolata, gli euro-scettici diranno che von der Leyen ha concesso troppo poco sul contrasto all’immigrazione e quasi nulla sui problemi degli agricoltori. Quel che mi sembra difficile negare è che le aperture ai Verdi sul Grean Deal sono state più significative di quelle ai Conservatori sul contrasto all’immigrazione (è mancato, in particolare, qualsiasi riferimento all’esternalizzazione delle frontiere e al modello Albania).

Quanto ai partiti italiani, è interessante notare che il voto su von der Leyen ha spaccato sia la maggioranza di governo sia l’opposizione. Fra i partiti di governo Forza Italia ha votato convintamente a favore, la Lega convintamente contro, mentre Fratelli d’Italia è rimasto incerto fino all’ultimo (salvo poi votare come la Lega). Fra i partiti di opposizione il Pd ha votato a favore, i Cinque Stelle contro, mentre l’alleanza Verdi-Sinistra si è già spaccata fra Verdi (a favore) e Sinistra (contro).

Sul piano internazionale, un aspetto molto importante – e non del tutto scontato – del discorso di von der Leyen è stato il suo netto posizionamento pro-Ucraina (sostegno a oltranza) e il suo altrettanto netto richiamo anti-Israele sugli eccidi di civili nella
striscia di Gaza. Una presa di posizione che non meriterebbe particolare attenzione se non avvenisse nelle stesse ore in cui le dichiarazioni del neo-nominato vice di Trump, il sentore James David Vance, delineano una linea politico-militare statunitense
diametralmente opposta: compromesso territoriale con la Russia di Putin, disco verde a Israele per Gaza. Dobbiamo prepararci, in caso di vittoria di Trump, a un inedito quanto drammatico contrasto strategico-militare fra Europa e Usa?

Non meno gravido di implicazioni è quanto Ursula von der Leyen ha annunciato sul piano politico interno, e cioè il suo impegno nella “lotta agli estremismi”. Un monito chiaramente rivolto a Viktor Orbán e ai nuovi gruppi dei Patrioti e dei Sovranisti, piuttosto che ai Conservatori di Giorgia Meloni o al piccolo gruppo della sinistra estrema. Quel che la neo-presidente ha delineato, per molti versi, è la variante europea della strategia francese del “cordone sanitario” contro la destra estrema, con la sola importante differenza di non aver chiesto i voti dell’estrema sinistra.Questa linea politica non è priva di senso, specie se si crede che la posta in gioco sia la democrazia, che le destre estreme costituiscano una seria minaccia all’ordine democratico, e che la santa alleanza delle forze democratiche – dai Verdi ai Popolari – sia in grado di erigere una robusta e duratura barriera contro la “marea nera” montante. Ma siamo sicuri che sia la lettura giusta, o l’unica possibile? I risultati elettorali mostrano che i tre raggruppamenti di destra cui von der Leyen ha chiuso la porta sono i medesimi che il voto popolare ha premiato. E che il gruppo cui invece la ha aperta (i Verdi) è fra quelli puniti dal voto. Insomma: la nuova Commissione europea ha scelto di muoversi nella direzione opposta a quella dell’opinione pubblica, pur avendo l’opportunità – grazie alla presenza dei Conservatori – di dare un sia pur piccolo segnale di sintonia con le preoccupazioni degli elettori. Quasi che l’avanzata simultanea delle destre – di tutte le destre, compresi Conservatori e Popolari – fosse il sintomo di una malattia, piuttosto che un segnale di preoccupazioni più o meno legittime dei cittadini, come quelle in materia di immigrazione e di politiche agricole.

Che questa scelta di arroccamento dell’establishment europeo sia stata lungimirante o miope, lo vedremo fra qualche anno, quando si tornerà al voto. Per ora sia lecito sollevare il dubbio.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 luglio 2017]

Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

30 Novembre 2017 - di Luca Ricolfi

EconomiaPolitica

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.   Leggi di più

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