Hume PageHume Page

Intervista a Luca Ricolfi

14 Novembre 2025 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà
  1. Professore, esiste ancora un ceto medio?

Ovviamente sì, ma non esiste una definizione condivisa di ceto medio. La definizione classica è quella di Sylos Labini: lavoratori autonomi + impiegati. Peccato che una parte del lavoro autonomo versi in condizioni assai precarie, e che il confine fra operai e impiegati sia sfocato (l’indagine sulle forze di lavoro ha smesso di fornire la disaggregazione fra operai e impiegati+dirigenti). Per non parlare del problema del lavoro sommerso e dei contratti atipici. Molto all’ingrosso si può valutare che gli impiegati (compresi tecnici e insegnanti, ma esclusi quadri e dirigenti) siano circa 7 milioni, i lavoratori autonomi 5 milioni. Poiché gli occupati totali sono oltre 24 milioni, si può dire che afferisce al ceto medio “classico” circa 1 occupato su 2. Più o meno come mezzo secolo fa, ai tempi di Sylos Labini.

  1. Stante l’esistenza o l’inesistenza di un ceto che possa essere definito così, questa manovra del governo Meloni sembra orientata a premiare la fascia mediana dei redditi della popolazione italiana. 

Non esattamente. Se come base prendiamo il numero totale di contribuenti, le fasce di reddito prossime alla mediana risultano escluse dai benefici della manovra, che si concentrano invece sulle fasce alte del ceto medio. Gli sgravi fiscali partono dai 28 mila euro e arrivano ai 50 mila, ma quasi il 90% dei contribuenti è sotto la soglia dei 28 mila euro. I beneficiari sono indubbiamente ceto medio (non certo “i ricchi”), ma il segmento prescelto corrisponde a circa il 20% dei contribuenti (a spanne: non più di 1 membro del ceto medio su 2).

  1. La vittoria del nuovo sindaco di New York pone nuove domande all’Occidente? È in corso una ribellione da parte dei cittadini che, dovendo muoversi attraverso i mezzi pubblici e dovendosi curare con la sanità pubblica, chiedono più assistenzialismo?

Non credo siano questi i fattori decisivi, la realtà è più semplice: nelle grandi città ci sono più laureati e diplomati, e i ceti istruiti preferiscono la sinistra. Quasi ovunque, oggi come ieri. A questo dato di fondo, poi, si aggiunge la circostanza che il nuovo sindaco di New York ha abbandonato il linguaggio astratto e fumoso di tanta parte dell’establishment progressista. È molto diverso promettere “più inclusione” o promettere “trasporti gratis” e “canoni d’affitto bloccati”.

  1. In Italia vige l’annoso dibattito sui contributi da chiedere alla banche…

Come riformista e liberale dovrei essere contrario, ma invece – in questo caso – sono abbastanza favorevole: se si vuole redistribuire, non è irragionevole partire di lì, specie dopo anni floridi. Molto meglio che una patrimoniale sulle persone fisiche.

  1. Si parla spesso di “tecnodestra” o di “tecnofeudalesimo” in salsa trumpiana. Eppure le cosiddette “masse impoverite” non sembrano rifiutare del tutto (anzi) i modelli politici conservatori o sovranisti. Perchè?

La domanda andrebbe capovolta: perché mai le masse impoverite dovrebbero preferire la sinistra, che si preoccupa di immigrati e minoranze sessuali?

Quanto a Trump e ai sovranisti, credo che il loro appeal abbia due matrici principali. Primo, il fatto di aver messo nel mirino la globalizzazione, che molti elettori percepiscono come causa delle loro difficoltà economiche. Secondo, la mancanza di proposte concrete e praticabili da parte dei leader progressisti.

  1. Lei una volta ha detto che “la sinistra non parla più alla classe media perché costa troppo”. Cosa voleva intendere?

È semplice. Favorire l’accoglienza e proteggere le minoranze sessuali costa pochi miliardi. Ridurre le tasse al ceto medio in modo percepibile costa uno sproposito. Se ne è accorto il governo, che ha varato sgravi onerosi per la finanza pubblica (3 miliardi) ma quasi impercettibili per i destinatari (circa 30 euro al mese).

  1. C’è un tema generazionale (che lei ha spesso posto). Cosa accadrà al ceto medio quando la Gen Z e i millenial arriveranno a contatto con il lavoro. Le cosiddette nuove professioni, secondo l’allarme di Confcommercio, mettono in crisi il sistema pensionistico. E questo perché il reddito medio è di 18mila euro. 

I millenial (nati fra il 1980 e il 1996) hanno da 30 e 45 anni, e quindi sono già sul mercato del lavoro da tempo (almeno quelli che non hanno scelto di farsi mantenere dai genitori o vivere di rendita). Le vere novità verranno dalla generazione zeta e dalla generazione alpha, che è quella immediatamente successiva (nati negli ultimi 15 anni). Il problema, però, a me non sembra il fatto che guadagnino poco, ma che i migliori di loro decidano di emigrare in paesi con salari reali più elevati. Quanto al sistema pensionistico, non credo che il suo collasso sarà provocato dai bassi redditi delle nuove generazioni. Il problema delle pensioni in Italia è che poggiano quasi esclusivamente sul primo pilastro (quello pubblico), così sottraendo risorse preziose ad altri impieghi, come gli asili nido e la sanità. Lo sappiamo perfettamente fin dal 1997, quando il “rapporto Onofri” mise e nudo le due criticità della spesa pubblica italiana: interessi sul debito e pensioni.

[intervista uscita sul Giornale l’11 novembre 2025]

Occupazione, redditi e produttività – Sostenere il ceto medio?

2 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Che la parola d’ordine della manovra di quest’anno sia “meno tasse al ceto medio” è comprensibile. Sorprendenti, semmai, erano state le manovre precedenti, decisamente sbilanciate nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Dopo un biennio di
politiche di sinistra, è normale che un governo di destra faccia anche qualcosa di destra. Nella prossima manovra, oltre alla conferma delle misure pro ceti bassi, avremo qualche modesta misura a favore dei ceti medi, e forse pure dei ceti alti.

Niente di eclatante, niente di strano. Quel che colpisce, piuttosto, è il ripetersi – da decenni – del medesimo schema: ricerca disperata di “risorse” da ogni rivolo del bilancio pubblico, constatazione che le risorse non bastano a fare quel che si vuol fare, parziale ricorso al deficit per finanziare le misure-bandiera della manovra. Il tutto aggravato, per il futuro, dalla necessità di rispettare impegnativi “piani di rientro” del debito pubblico.

Ma può un governo, un qualsiasi governo, andare avanti così?

Certo che può, e infatti tutti i governi da trent’anni vanno avanti così. La vera domanda è se noi siamo consapevoli che, per questa strada, nessuno dei problemi che tutte le forze politiche denunciano – sanità, scuola, povertà – potrà mai essere risolto, chiunque governi.

L’impressione è che non lo siamo, consapevoli. Se lo fossimo, la smetteremmo di discutere di “politiche palliative”, e ci concentreremmo sulle politiche radicali o “agonistiche” (così le chiama la politologia Chantal Mouffe), ossia su politiche che
provano ad aggredire i problemi alla radice, anche a costo di pagare qualche prezzo in termini di consenso.

Ma qual è la radice dei nostri problemi?

Dipende dalla prospettiva che adottiamo. In astratto la radice è il debito: se il debito fosse al 60% del Pil, anziché al 140%, ogni anno risparmieremmo 40-50 miliardi di interessi sul debito, e con quel “tesorone” potremmo affrontare molti dei nostri
problemi. Peccato che, per arrivare fin lì, ci vorrebbero decenni di austerità, alla fine dei quali potremmo ritrovarci più poveri di oggi.

Se cambiamo angolatura, e diamo il debito come incomprimibile o poco comprimibile, la vera radice dei nostri problemi diventa un’altra. A debito invariato, il nostro guaio è semplicemente il Pil, che è troppo piccolo sia rispetto al debito, sia rispetto al numero di abitanti. Una politica “agonistica”, non meramente palliativa, dovrebbe innanzitutto affrontare il problema del livello troppo basso del Pil pro capite.

Ma perché il nostro Pil pro capite è basso?

Qui è essenziale distinguere due ragioni. La prima è che, da molti decenni, il nostro tasso di occupazione è fra i più bassi dei paesi avanzati. Meno persone che lavorano significa meno redditi che entrano nei bilanci famigliari: la prima causa delle difficoltà economiche di tante famiglie non è il basso livello dei salari orari, ma il fatto che a lavorare sia solo il capofamiglia.

La seconda ragione del nostro basso Pil pro capite è la dinamica della produttività, che ristagna da circa trent’anni. Quando si lamenta che, negli ultimi decenni, i salari reali sono aumentati un po’ dappertutto in Europa, ma in Italia sono rimasti al palo, si
dimentica che la precondizione per l’aumento dei salari orari è l’aumento della produttività del lavoro, che a sua volta dipende in modo cruciale dal progresso organizzativo e dagli investimenti in tecnologie materiali e immateriali.

Rispetto a questi due fattori di crescita del Pil – occupazione e produttività – la situazione del nostro paese è marcatamente asimmetrica. Sul versante occupazionale, le cose vanno benissimo, perché l’occupazione cresce al ritmo annuo di 500 mila
posti, il che significa quasi il 2% all’anno (un risultato particolarmente soddisfacente, perché accompagnato da una riduzione del tasso di occupazione precaria). Sul versante della produttività, comunque la si misuri (produttività totale dei fattori, produttività del lavoro, produttività del capitale), le cose vanno decisamente meno bene: il ritmo di crescita resta ampiamente inferiore a quello degli altri maggiori paesi, con ovvi effetti negativi sulla dinamica salariale.

Se la politica volesse andare alla radice del problema Italia, continuerebbe con le politiche para-keynesiane di sostegno dell’occupazione fin qui adottate, ma le carte residue le giocherebbe sul versante della produttività, con incentivi alle imprese che
innovano e investono in tecnologia. Perché il rischio, se non si agisce anche su questo versante, è che l’aumento dell’occupazione anziché trascinare il sistema nasconda la stagnazione della produttività, che è il nostro vero, troppo spesso dimenticato, tallone
d’Achille.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]

image_print
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy