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Invecchiamento e welfare – Anziani, perché è un problema (soprattutto) italiano

29 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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I recenti dati Istat sulla spesa per gli anziani, di cui si è ampiamente parlato nei giorni scorsi, pongono certamente un problema di equità territoriale: la spesa è squilibrata non solo fra nord, centro e sud (a danno del sud e a favore del nord), ma anche fra zone urbanizzate e piccoli centri delle zone interne. E tuttavia, se guardiamo le cose in prospettiva, quello degli squilibri territoriali è il problema minore, quanto meno nel senso che è risolvibile: si tratta “solo” (si fa per dire) di ripartire meglio le scarse risorse disponibili.

Il vero problema, che darà filo da torcere alle prossime generazioni, è il rapidissimo processo di invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati, europei ed extra-europei. Un fenomeno in atto da decenni, che ha due determinanti fondamentali: il crollo delle nascite, in buona misura dovuto alle scelte esistenziali dei cittadini dei paesi ricchi, e l’allungamento della speranza di vita, in buona misura dovuto ai progressi della medicina.

Le conseguenze del rapido invecchiamento della popolazione sono note. Una quota elevata di anziani mette in crisi il sistema pensionistico, ponendo la politica di fronte al dilemma: pensioni più basse o maggiori prelievi contributivi su chi lavora? Una durata maggiore della vita, infatti, fa lievitare i costi del sistema sanitario, che non dipendono solo da quanti vecchi ha in carico, ma anche da quanto è lunga la loro vita residua.

Quello su cui forse non riflettiamo abbastanza, però, è quanto differenti siano le situazioni dei vari paesi, anche all’interno della comune famiglia europea, e quanto particolare (per non dire drammatica) sia la situazione dell’Italia.

Nel nostro paese, infatti, si cumulano tutti i fattori che rendono esplosivo il problema degli anziani. Tanto per cominciare, il tasso di fecondità (numero di figli per donna in età fertile) è fra i più bassi del mondo: fra le società avanzate, solo Singapore, Malta e Spagna fanno meno figli di noi. Di qui un inevitabile squilibrio fra la popolazione in età da lavoro e la popolazione anziana, le cui pensioni – specie in un sistema a ripartizione come il nostro – dipendono dai contributi versati dagli occupati. Uno squilibrio, questo, aggravato dal fatto che in Italia non hanno mai decollato i sistemi pensionistici complementari (secondo e terzo pilastro della previdenza).

Questo squilibrio è aggravato dal fatto che il nostro tasso di occupazione, a dispetto dei notevoli progressi degli ultimi anni (il milione di nuovi occupati vantato da Giorgia Meloni), resta uno dei più bassi dell’occidente. E meno lavoratori occupati significa meno contributi previdenziali, che a loro volta significano meno risorse per le pensioni degli anziani.

Infine, non si può non menzionare un fattore per tanti versi ultra-positivo, ma che  aggrava il problema: l’aspettativa di vita è una delle più alte al mondo, con conseguente pressione sui costi del sistema sanitario.

In breve, in Italia si concentrano i tre fattori che rendono esplosivo il problema dell’invecchiamento della popolazione: meno nascite, meno occupati, più speranza di vita. Con un unico risvolto positivo: l’esercito dei nonni, finché sono in salute, fornisce un contributo fondamentale all’educazione (e alla felicità) dei ragazzi, e di fatto costituisce un pilastro fondamentale del nostro welfare, in questo diversissimo dal sistema che vige nei paesi scandinavi, dove i vecchi sono tenuti lontani dai familiari e abbandonati a sé stessi.

Si possono contrastare queste derive?

Per certi versi no: il crollo della fecondità è un processo planetario, che in Italia è solo più avanti che altrove, e tutt’al più potrebbe essere rallentato.

Per altri versi sì: portare il tasso di occupazione vicino a quello dei paesi nordici si può fare, e in parte si sta già facendo.

Per altri versi ancora, invece, non è proprio il caso: l’allungamento della speranza di vita è una conquista, e sarebbe stolto invidiare i paesi in cui guerre, malattie e modi di vivere dissennati accorciano la vita. Quello che è certo, però, è che le risorse per rendere vivibili (e dignitosi) gli ultimi anni sono, oltreché mal distribuite, gravemente insufficienti. E per renderle adeguate le vie sono solo due: rendere territorialmente meno squilibrata la spesa pro capite, ovviamente, e aumentare la quota di Pil dedicata alla sanità e all’assistenza, compresi i necessari investimenti in ricerca, infrastrutture, edilizia.

Il problema è che – a parte la consueta, ignorata e non decisiva via della spending review – tale aumento di spesa può essere realizzato solo in due modi: sottraendo risorse ad altri impieghi (ma quali? scuola, trasporti, infrastrutture, armi…), o permettendo all’economia di crescere e creare nuovi posti di lavoro. Che sono l’unica polizza di assicurazione per il futuro del nostro stato sociale.

[articolo uscito sul Messaggero il 27 settembre 2025]

Femminicidi, un problema degli anziani?

4 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

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A mia memoria, non era mai successo che un problema sociale attirasse un’attenzione così enorme come quella suscitata dal dramma di Giulia Cecchettin, e al tempo stesso fosse così poco studiato, almeno in Italia. Il fatto che quasi tutti abbiano un’opinione sulle cause e sui rimedi, non deve ingannarci: in realtà non sappiamo quasi nulla, se per “sapere” intendiamo conoscere chi sono le vittime, quali sono le cause, quali possono essere i rimedi efficaci.

Finora, quasi tutte le analisi del fenomeno si sono basate su dati molto aggregati, senza riuscire a scendere nel dettaglio – caso per caso, individuo per individuo – come sarebbe necessario se vogliamo cominciare a capire. Per questo meritano una speciale riconoscenza le donne dell’associazione Non Una Di Meno (NUDM), che da alcuni anni raccolgono in un database tutte le informazioni disponibili su ogni evento in cui una donna viene uccisa, indipendentemente dal fatto che l’omicidio possa essere classificato come femminicidio oppure no (al momento non esiste una definizione statistica condivisa e facile da applicare).

Sono andato a curiosare nel database, che descrive i 110 casi del 2023, e ho provato a fare alcuni calcoli, confrontando i profili di tre insiemi: le donne uccise, i loro uccisori, la popolazione italiana di almeno 10 anni. Ed ecco alcuni risultati.

Cominciamo da quella che considero la maggiore sorpresa: l’età media. Come la maggior parte delle persone che – a titolo di curiosità – ho interrogato in questi giorni, pensavo che le fasce di età a maggiore rischio fossero quelle intorno ai 20-30 anni, o tutt’al più fino ai 40. Ebbene, niente di più sbagliato. Nella fascia 20-40 anni rientra solo 1 donna uccisa su 4. La fascia a maggiore rischio è la fascia delle donne con almeno 60 anni, e il rischio aumenta passando alla fascia delle ultra-70enni. E infatti l’età media di tutte le donne uccise è 53 anni, e quella dei loro assassini (quasi tutti maschi) è 54 anni, entrambe maggiori dell’età media degli italiani  che è di 46 anni (50 se escludiamo i bambini).

In concreto, questo significa che il rischio di essere uccisa di una donna anziana è maggiore di quello di una donna giovane o adulta. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che, nelle uccisioni di donne, rientrano anche i casi che non configurano un femminicidio. Ma ripetendo il calcolo per i soli femminicidi in base a due definizioni e a due dataset diversi (è stato pubblicato anche un secondo dataset, molto meno ricco), il risultato non cambia, anzi si rafforza: il rischio di essere uccisa di una anziana di almeno 60 anni è del 46% più alto di quello di una donna sotto i 60, e quello di una donna di almeno 70 anni è del 69% più alto di quello di una donna sotto i 70. In breve: il caso di Giulia non è in nessun modo tipico.

Ma questa non è l’unica sorpresa. Nel database di NUDM ci sono molte altre informazioni che, in teoria, potrebbero aiutarci a costruire un profilo tipico delle vittime e dei loro assassini. Ebbene, quel che si scopre facendo i confronti con la popolazione, è che un tale profilo non c’è, anche se – su alcune variabili – emerge una qualche specificità del campione dei femminicidi (lo chiamo così per brevità). I 108 casi registrati sono avvenuti in quasi tutte le regioni; in comuni piccoli, medi e grandi; gli autori del delitto sono operai, impiegati, dirigenti, commercianti, pensionati, disoccupati, tutti in proporzioni comparabili a quelle della popolazione maschile generale.

Solo su alcuni particolari aspetti, è possibile rintracciare scostamenti – talora grandi, talora al limite della significatività statistica – fra il campione e la popolazione. Uno scostamento macroscopico, ma forse non sorprendente, è che metà degli aggressori o si suicida (oltre 1 su 3) o è comunque in una condizione di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, vagabondaggio, eccetera). Un secondo scostamento riguarda la nazionalità delle vittime e degli aggressori. In entrambi i casi sono sovrarappresentate le persone di nazionalità straniera, ma con una importante asimmetria: nel campione il rischio che una donna italiana sia uccisa da uno straniero è quasi 7 volte più alto del rischio opposto, ossia che una donna straniera sia uccisa da un italiano.

Prendere spunto da questi dati per fare affermazioni generali sulle radici dei femminicidi sarebbe una mossa avventata. Però, forse, una piccola considerazione possiamo farla: la visione che abbiamo dei femminicidi è molto stereotipata. Il caso della giovane donna vittima di un partner possessivo, ma per il resto “normale”, è decisamente minoritario. Le donne di meno di 40 anni uccise dal partner o dall’ex sono 20 su 110, e scendono a 16 se trascuriamo i casi in cui l’aggressore è un deviante o si suicida. In altre parole: i casi analoghi a quelli di Giulia e Filippo, anche a voler considerare tutta la fascia di età fino ai 40 anni, riguardano circa il 15% delle uccisioni di donne. E tutto il resto?

Sul resto dobbiamo indagare e riflettere, sapendo però che – al centro – ci sono le donne che attraversano “il terzo tempo” della loro vita, come lo ha chiamato Lidia Ravera in un suo libro recente sulla vecchiaia. Un gruppo sociale al quale, notava fin dagli anni ’80 un’altra scrittrice – Natalia Ginzburg – la nostra società riserva una sola, ipocrita, cortesia, quella di chiamarle anziane anziché vecchie.

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