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Coronavirus, fermare la catastrofe

2 Marzo 2020 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Posso sbagliarmi, lo voglio dire subito. Anzi, spero di sbagliarmi, e che domani – retrospettivamente – tutto quel che sto per dire possa apparirmi esagerato, o fuori bersaglio.
Però non me la sento di non raccontare la situazione come si presenta ai miei occhi di osservatore e di studioso di Analisi dei dati.

1. Il pericolo che l’Italia sta affrontando è molto più grave di come ci viene raccontato. L’epidemia di coronavirus somiglia alla classica influenza stagionale per quanto riguarda la capacità di diffondersi (il che è una pessima notizia: l’influenza raggiunge ogni anno circa 8 milioni di persone), ma è enormemente più letale (3 morti ogni 100 contagiati). Anche considerando come morte per influenza tutte le persone che ogni anno muoiono per complicanze ad essa connesse, il rischio di morte è di 1 caso su 1000, mentre nel caso del coronavirus è di 30 casi su 1000, ossia 30 volte superiore.
In concreto significa questo: se non riusciamo a fermare l’epidemia di coronavirus, e i pazienti contagiati diventano quanti quelli della comune influenza, i morti potrebbero essere dell’ordine di 2-300 mila. Non voglio nemmeno immaginare quel che succederebbe se, come alcuni esperti considerano possibile, l’epidemia di coronavirus raggiungesse una % di contagiati vicina al 100% della popolazione.

2. I dati finora disponibili non sono sufficienti per prevedere la traiettoria del contagio, tuttavia si possono fare alcuni esercizi di simulazione. I risultati dicono che, se la velocità di diffusione dovesse restare analoga a quella attuale, o dovesse ridursi in modo marginale, già a Pasqua (12 aprile) i contagiati potrebbero essere parecchi milioni.
E’ comprensibile che le autorità si ingegnino a sostenere che questa velocità si deve al trauma eccezionale di Codogno-Vo’ (18-20 febbraio), e al fatto che le misure restrittive adottate negli ultimi 10 giorni non hanno ancora avuto il tempo di esercitare i loro effetti. Ma si devono fare tre osservazioni:
a) la velocità del contagio nelle zone del centro-sud è analoga, se non superiore, a quella del nord;
b) il tasso di crescita del numero di contagiati non solo non sta dando segni di rallentamento, ma nella giornata di domenica 1° marzo ha subito una violentissima accelerazione (645 nuovi casi in un solo giorno, contro una media giornaliera di 139 casi nei 7 giorni precedenti, e di 161 il giorno prima);
c) anche il numero dei morti è in costante ascesa: erano 1 al giorno una settimana fa, sono saliti a 12 nella giornata di domenica.

3. A fronte di questi processi, la maggior parte delle autorità si sta muovendo su una triplice direttrice.
Primo, favorire la ripresa delle attività produttive quanto prima, non solo con (doverosi) sussidi a chi ha subito gravi perdite in termini di posti di lavoro e di redditi, ma anche e soprattutto accelerando la riapertura di uffici, fabbriche, negozi, alberghi, musei, scuole, chiese, luoghi pubblici in genere.
Secondo, scaricare sulla popolazione la responsabilità di contenere il contagio. A giudicare dai messaggi ossessivamente ripetuti dagli schermi televisivi, sembra che –fin da oggi fuori della “zona rossa”, e da domani anche in essa – l’unico presidio contro il coronavirus sia la prudenza dei cittadini: lavarsi le mani, disinfettare le superfici, minimizzare i contatti sociali non necessari, non stringersi la mano, non abbracciarsi.
Terzo, contenere l’allarme sociale limitando i tamponi. Molti politici (e molti giornalisti) paiono convinti che se ci sono tanti casi accertati di coronavirus in Italia è perché abbiamo fatto troppi tamponi, e che occorre fare marcia indietro per evitare la catastrofe dell’industria turistica.
Curioso. Prima le autorità fanno di tutto per convincerci che non c’è alcun pericolo di contagio, dalla visita di Mattarella alla scuola con tanti bimbi cinesi alle foto dei politici nei ristoranti cinesi; poi si dichiara lo stato di emergenza, si chiudono massicciamente i luoghi pubblici, si invita a minimizzare i contatti sociali, si segrega la gente in casa; infine, si stigmatizza l’“isteria collettiva” che conduce la medesima gente a fare provviste nei super-mercati…

4. Spero di sbagliarmi ma, studiando i meccanismi di propagazione del coronavirus, mi sono convinto che questa strategia sia perdente, anzi catastrofica. Per tre motivi fondamentali.
Primo motivo. Gli sforzi per far ripartire le attività produttive e commerciali, se concentrati in questo momento, avranno solo l’effetto di accelerare il contagio, rendendo enormemente più difficile e più remota nel tempo la ripresa dell’economia. Meglio perdere un mese di Pil oggi, che subire una catastrofe di dimensioni molto superiori domani.
Secondo motivo. In questo momento la priorità economica fondamentale è evitare il collasso degli ospedali, che già fra pochissimo tempo non saranno in grado di far fronte alla domanda di posti letto, specie nei reparti di terapia intensiva.
E’ triste dirlo, ma è possibile che la Cina, grazie ai poteri speciali di cui godono le dittature, ne esca prima e meglio di noi. Il minimo che possiamo fare è nominare un commissario per l’emergenza coronavirus, con un budget e dei poteri che gli consentano di fare – senza interferenze della magistratura e della politica – quel che la situazione potrà richiedere, ossia assistenza per centinaia di migliaia di persone, molte delle quali in condizioni gravissime.
Terzo motivo. Le simulazioni mostrano chiaramente che, con un contagio così veloce, l’unica strategia di contenimento che ha qualche possibilità di arginare l’epidemia è la ricerca a tappeto dei contagiati e la loro messa in quarantena. Lo ha detto chiaramente una settimana fa Roberto Burioni, suggerendo un tampone anche a chi ha solo 37 gradi e mezzo di febbre: mi chiedo se basterebbe, o non occorrerebbe fare ancora di più, organizzando lo screening più ampio possibile, usando tutte le risorse diagnostiche disponibili.
La velocità del contagio, infatti, ha due fonti fondamentali: la contagiosità intrinseca del virus, che con comportamenti appropriati si può solo attenuare, e il tasso di ritiro dallo spazio pubblico (quarantena) dei già contagiati. E’ solo individuando e mettendo in quarantena coloro che, a propria insaputa, stanno veicolando il virus, che possiamo sperare di vincere la battaglia.
Ecco perché considero enormemente grave, e segno di totale irresponsabilità, il fatto che il premier, anziché accogliere e cercare di rendere attuabile la proposta di Burioni di moltiplicare i tamponi, abbia imboccato la strada opposta. Come se l’immagine dell’Italia all’estero fosse più importante dalla nostra salute, per non dire della nostra sopravvivenza.

[2 marzo 2020]
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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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