Il mito dei “due popoli, due stati”
In primo pianoPoliticaSocietàDue notizie, negli ultimi giorni, hanno monopolizzato l’attenzione riguardo a Israele. Da un lato, la decisione, non condivisa dai vertici dell’esercito, di completare l’occupazione di Gaza entrando a Gaza City, nella speranza di assestare il colpo finale a Hamas e nella presunzione (a mio parere poco fondata) che questo possa favorire la liberazione degli ostaggi. Dall’altro, il via libera a nuovi insediamenti in Cisgiordania, in un territorio (la cosiddetta zona E1) la cui occupazione farebbe crescere ulteriormente la frammentazione della Cisgiordania, rendendo materialmente impossibile la costituzione di uno Stato Palestinese.
La maggior parte dei governi europei, compreso il nostro, ha condannato entrambe le decisioni, invitando Israele a fermarsi. Complessivamente, l’umore delle opinioni pubbliche europee volge sempre più a sfavore di Israele e pro-Palestinesi, costringendo i governi europei a prendere le distanze dal governo Netanyahu, considerato come l’ostacolo che rende impraticabile la soluzione “due Popoli due Stati”, unica via di pacificazione fra i due popoli. Di qui l’idea, agitata per parare le accuse di antisemitismo, secondo cui si dovrebbe distinguere fra popolo israeliano (buono) e Netanyahu (cattivo), così come sarebbe necessario distinguere fra popolo palestinese (buono) e Hamas (cattivo). Insomma: i due popoli non hanno colpe, i veri nemici sono i loro governanti.
Questa narrazione del conflitto ha un suo potere persuasivo, e rende molti buoni servigi a chi desidera manifestare il suo sdegno per le atrocità commesse a Gaza dall’esercito israeliano ma vuole sfuggire all’accusa di antisemitismo. Ma si può dire che sia fondata?
A metterne crudamente in dubbio la plausibilità è intervenuto pochi giorni fa lo scrittore ebreo americano Nathan Thrall, che vive a Gerusalemme Est (possibile capitale di un futuro Stato palestinese). In un’intervista a Repubblica, ha fatto notare diverse cose dimenticate dalle narrazioni prevalenti in Europa. Primo, il 79% degli ebrei israeliani “non è disturbato dalla fame a Gaza”, e i cittadini israeliani “non si stanno ribellando alle uccisioni dei civili a Gaza”. Secondo, l’opposizione all’ingresso a Gaza City è dettata dal timore di compromettere la sorte degli ostaggi, non certo da remore per i costi umani della “soluzione finale” nei confronti di Hamas. Quel che l’opinione pubblica davvero desidera è l’annientamento di Hamas, però non prima di aver recuperato gli ostaggi. Terzo, i progressisti europei si raccontano una bugia quando affermano che il problema è la destra israeliana: “due anni e mezzo fa avevamo un governo guidato dal centrista Likud e da Bennet, e le politiche nei confronti dei palestinesi non erano diverse, hanno costruito persino più insediamenti [in Cisgiordania] dei predecessori”.
Ed eccoci al punto. Oggi, a dar retta ai discorsi prevalenti in Europa, parrebbe che la strada per la pace sia non occupare Gaza City e bloccare il piano di nuovi insediamenti nella zona E1, confinante con Gerusalemme Est. Ma si sorvola sul fatto che, anche se il governo Netanyahu obbedisse pienamente alle ingiunzioni dei governi europei e delle Nazioni Unite, l’agognata soluzione dei “due Popoli, due Stati” resterebbe del tutto impraticabile, anzi per certi versi ancora più impraticabile di prima. Perché, da vent’anni, i due principali ostacoli a quella soluzione restano la sopravvivenza di Hamas e la colonizzazione della Cisgiordania (ovvero della terra fin dal 1947 destinata ai Palestinesi). Una colonizzazione che nessun governo israeliano ha ostacolato, ed ora sta lì come un macigno, e tale resterebbe se domani Netanyahu cadesse e il suo posto venisse preso da un premier di altro colore politico.
Sarò forse un po’ drastico, ma mi pare troppo comodo fare la voce grossa con Israele solo ora, dopo un ventennio in cui si è assistito senza fiatare alla crescita di Hamas a Gaza (alimentata anche dai soldi dell’Europa) e ben poco si è tentato per contrastare la proliferazione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. È allora che l’Europa avrebbe dovuto far sentire la sua voce, senza aspettare il dramma umanitario di Gaza per trovare il coraggio di criticare Israele. Perché quella palestinese è una questione politica, che in termini politici – piuttosto che in termini umanitari – avrebbe dovuto essere affrontata. Porre quella questione ora che i buoi sono scappati può lavare le coscienze, ma difficilmente toglierà Palestinesi e Israeliani dal dramma in cui sono precipitati.
[articolo uscito sul Messaggero il 22 agosto 2025]