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Politica

Dopo il discorso di J.D. Vance – Valori occidentali?

3 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Nella sua breve visita in Europa il vicepresidente americano J.D.Vance ha attaccato duramente i politici europei, accusandoli di aver tradito i “valori occidentali”. Ma che cosa sono i valori occidentali?

Nel suo discorso, o meglio nella sua requisitoria, Vance si riferiva chiaramente a due valori in particolare: la libertà di parola, o free speach, e la democrazia, ovvero la scelta del governo mediante libere elezioni. Gli europei avrebbero tradito la prima con un ricorso eccessivo alla censura (caccia a presunte fake news) e la seconda con l’annullamento delle elezioni in Romania, ufficialmente per interferenze russe, in realtà (secondo Vance) perché gli elettori avevano premiato un candidato sgradito a Bruxelles.

Ma che cosa sono i valori occidentali?

Una possibile risposta è che, dopo la rivoluzione francese e la progressiva introduzione del suffragio universale, i valori che si sono affermati in occidente sono fondamentalmente tre: la libertà, l’eguaglianza, la democrazia.

Su questi tre valori c’è un larghissimo consenso non solo fra la gente, ma pure fra le forze politiche. E allora perché se ne discute tanto animatamente, e ci si divide così spesso, come è successo pochi giorni fa in occasione del discorso di Vance a Monaco?

La ragione è semplice: i grandi valori non vengono solo sottoscritti, ma anche interpretati. E l’interpretazione è il passo più importante, perché da essa dipende fino a che punto si è disposti a difenderli. E da che punto in poi si è disposti ad abbandonarli, o annacquarli, o modificarli. Ogni valore, prima o poi, incontra un limite. Ed è su questo limite, dove si trovi e quando non lo si possa attraversare, che le nostre opinioni divergono.

Prendiamo la libertà. Siamo tutti per la difesa delle libertà fondamentali, ad esempio la libertà di parola e la libertà di movimento.
Ma durante il covid questo nostro accordo di fondo è stato messo a dura prova dalla campagna vaccinale e dalla battaglia sulle fake news. Per alcuni la libertà di movimento andava limitata in nome della sicurezza collettiva (da cui: lockdown, obbligo vaccinale, green pass), per altri quella limitazione era un abuso, un’ingiustificata compressione di diritti fondamentali. Idem per le fake news: per alcuni la circolazione delle opinioni andava severamente limitata sui social, sulla stampa, in tv, per altri quelle limitazioni costituivano un grave attacco alla libertà di opinione e al free speach. Il medesimo discorso si ripropone per la lotta ai discorsi d’odio: c’è chi pensa che certe opinione siano inammissibili e vadano punite, c’è chi pensa che la libertà di parola o è totale o non è.

Prendiamo l’ideale dell’eguaglianza. Pochi lo contestano come idea regolativa, come principio generale. Ma è sul modo di interpretarlo che si combattono le battaglie più aspre fra chi lo intende come eguaglianza delle opportunità, e chi pensa che l’eguaglianza possa essere imposta con le quote riservate per le categorie protette. C’è chi privilegia l’inclusione (le atlete trans devono poter gareggiare con le atlete donna), e chi privilegia il principio di equità (nessuno può partire con vantaggi o handicap). C’è chi interpreta l’eguaglianza come estensione illimitata dei diritti umani, e chi pensa esistano anche i diritti dei popoli, che a quella estensione possono porre un limite.

E la democrazia? Almeno su quella sembrerebbe che siamo tutti d’accordo. Ma non è così. Alcuni pensano che le regole elettorali vadano sempre applicate, e il risultato del voto accettato. Senza eccezioni. Altri, invece, pensano che alcuni partiti, considerati non democratici o nemici della democrazia, vadano esclusi dalla competizione elettorale, o quantomeno esclusi dal governo, se non si riesce a scioglierli prima.

Ed eccoci di ritorno al discorso di Vance. Chi ha tradito i valori occidentali? Chi li difende veramente?

La risposta è che nessuno, né Trump né von der Leyen, è il vero paladino dei valori della nostra civiltà. Perché quei valori li interpretiamo in modi diversi. Per Trump la libertà di opinione è un assoluto, nessuna forza politica può essere esclusa dal voto (di qui i buoni rapporti con l’AfD), l’equità è più importante dell’inclusione. Per l’establishment europeo (ma anche per quello americano prima di Trump) la lotta alle fake news e ai discorsi d’odio giustifica la censura, certi partiti vanno tenuti fuori dal governo (dottrina del “cordone sanitario”), l’inclusione deve prevalere sull’equità.

L’unica cosa che, forse, accomuna le due culture atlantiche, è l’incapacità di prendere atto che, nella società moderna, il “politeismo dei valori” – ovvero la coesistenza, così ben descritta da Max Weber, fra valori contrastanti nessuno dei quali può pretendere di sovrastare gli altri – è un tratto per così dire costitutivo. Nessuno ha veramente tradito i valori occidentali, perché quei valori devono essere interpretati. E nessuno degli attori in campo è nella posizione di fissarne l’interpretazione autentica.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 marzo 2025]

Calcio, sondaggi e Meloni

26 Febbraio 2025 - di Paolo Natale

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Sappiamo che i risultati dei sondaggi sono come quelli delle partite di calcio: si vive alla giornata. Titoloni sui giornali, online o cartacei, che sottolineano la debacle di Fratelli d’Italia o del Partito Democratico se questi indietreggiano di 0,2% nelle rilevazioni demoscopiche settimanali.

Oppure: “Fuga in avanti di Forza Italia!”, se il partito migliora di 0,3% rispetto a sette giorni prima.

Gli statistici, i metodologi, i politologi sorridono increduli: loro sanno bene che esiste una cosa chiamata “intervallo di confidenza”, qualcosa che riguarda il margine di errore di un campionamento, che con un migliaio di interviste si situa solitamente attorno almeno al 2-2,5%. E peraltro sarebbe bene che lo sapessero – o lo dicessero, se lo sanno – anche i giornalisti, togliendo quei ridicoli punti esclamativi dai loro commenti.

Con un margine di errore almeno del 2%, non ha nessun senso affermare che un partito indietreggia o avanza di 0,2-0,3%, dato che sono tutti incrementi o decrementi falsi, che stanno tutti appunto all’interno del margine di errore statistico. Bisognerebbe apparire in tv al lunedì sera e raccontare agli italiani: nessun cambiamento dalla scorsa settimana per quanto riguarda le stime del comportamento di voto degli elettori intervistati. Stop. Poco appealing, vero? E quindi si perpetra questa abitudine un po’ insensata di attribuire tramonti o rinascite a questo o a quel partito. Come nel calcio, appunto.

Anche nel campionato di calcio i titoli dei giornali risentono infatti in maniera quasi pavloviana dei risultati dell’ultima giornata: se la Juve batte l’Inter una certa domenica, questo è ovviamente il simbolo di una chiara rinascita della compagine bianconera, ma se sette giorni dopo gli capita di perdere, allora torna di nuovo il mantra: non è che il segnale di una evidente rovina.

Ogni partita, come ogni sondaggio, ci racconta una storia che può essere ribaltata sette giorni dopo, da un risultato negativo o positivo, da un incremento o da un decremento di 0,2% nelle dichiarazioni di voto. Fotografie, istantanee che ci raccontano un momento, solo un episodio di un lungo campionato, di una tendenza elettorale di medio-lungo periodo.

Con una differenza: nel calcio, nel campionato di calcio, per fortuna esiste anche la classifica, che ci rende edotti del rendimento di ogni squadra dall’inizio della stagione. Se il Monza o il Parma vincono una partita, possiamo gioire per loro, ma non dimentichiamo cosa è accaduto nelle precedenti giornate, relegandole nelle ultime posizioni. La storia, cioè, è ben chiara.

Per la politica molto spesso non è così. Prendiamo ad esempio la fiducia in Giorgia Meloni: nella consueta rilevazione settimanale, ad esempio, possiamo scoprire che il suo consenso è cresciuto dello 0,3% rispetto al precedente sondaggio, passando dal 40,2% al 40,5%. Bene, diranno gli elettori di centro-destra. Male, diranno quelli di centro-sinistra. Punto interrogativo, dirà lo statistico.

Al di là del risultato di giornata, non possiamo certo comprendere com’è lo stato di salute della Presidente del Consiglio da un solo dato, da un incremento o un decremento di una sola settimana. Pare in miglioramento, negli ultimi giorni, essendo cresciuta di qualche frazione decimale, però lo statistico, per il noto problema dell’errore di campionamento, sa bene che non può certo pronunciarsi. Ha bisogno della “classifica”, che nel nostro caso si chiama trend, o tendenza, in italiano. Qual è dunque il trend della fiducia di Giorgia Meloni?

Per rispondere, occorre andare a riprendere i risultati dei sondaggi (anche settimanali, perché no?) almeno degli ultimi cinque anni, per comprendere se e quanto la sua figura nel medio periodo susciti o meno approvazione. Ecco, dunque, ciò che ci dicono le rilevazioni demoscopiche.

Fino al momento della sua vittoria nelle ultime elezioni politiche, diciamo tra il 2020 e il 2022 Meloni aveva un livello di fiducia intorno al 36-37%, con qualche picco più alto o più basso. Dopo il suo successo elettorale, divenuta Presidente del Consiglio, i consensi sono aumentati fino alla cifra record del 58%, alla fine del 2022, vale a dire nel periodo della consueta luna di miele tra elettorato e vincitori delle elezioni. Per tutto l’anno successivo, l’indice è rimasto posizionato ben sopra l’asticella del 50%: oltre la metà degli italiani forniva su di lei una valutazione positiva. Infine, a cominciare dai primi mesi del 2024 fino ad oggi, i consensi si sono progressivamente contratti, più o meno nell’ordine di un punto al mese, 10-12% in meno in un anno, per giungere al dato attuale di poco superiore al 40%, che avevamo anticipato più sopra.

E da qui si può facilmente arguire come i giudizi rispetto a Giorgia Meloni appaiono, da almeno un anno, in relativo peggioramento. E sono soprattutto gli elettori “centristi” e gli indecisi coloro che hanno progressivamente perso fiducia nei suoi confronti. Questo è dunque il modo corretto per intendere le valutazioni degli elettori all’interno delle rilevazioni demoscopiche e così dovrebbero venir divulgate: un sogno che, temo, non si realizzerà mai.

Università degli Studi di Milano

Elezioni in Germania – Grosse Koalition alla prova

26 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Apparentemente le elezioni in Germania non hanno riservato sorprese.

Le previsioni dei sondaggi sono state sostanzialmente rispettate, i popolari della CDU/CSU del futuro cancelliere Friedrich Merz hanno vinto, i socialdemocratici dell’SPD e i liberali della FDP sono crollati, il temuto partito di estrema destra AfD ha superato il 20%, miglior risultato dalla sua fondazione nel 2013. I popolari della CDU/CSU e i socialdemocratici della SPD (partito del cancelliere uscente Olaf Scholz) si apprestano ad avviare le trattative per formare un governo di Grosse Koalition.

A guardar bene, però, di risultati non scontati ve ne sono parecchi. Non era scontato, ad esempio, che i liberali e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht (BSW) sarebbero rimasti fuori del parlamento, non raggiungendo la soglia del 5%. Se la BSW avesse raggiunto il 5% (vi è andata vicinissima, con il 4.97%), il neo-cancelliere sarebbe stato costretto ad allearsi anche con i Verdi (o con la BSW stessa), varando un governo più eterogeneo e quindi più instabile: con i Verdi al governo, ad esempio, la promessa marcia indietro sulle politiche green sarebbe stata meno facile da attuare, e più foriera di tensioni entro il nuovo esecutivo.

Anche le percentuali dei vincitori, pur abbastanza vicine a quelle previste dai sondaggi, non erano così scontate. Il nuovo cancelliere aveva chiesto agli elettori di dargli forza contrattuale (verso la SPD) conferendogli almeno il 30% dei voti, ma si è dovuto accontentare del 28.5%. Quando alla AfD di Alice Weidel, non erano in pochi – dopo gli ultimi attentati in Germania e in Europa – a scommettere su uno sfondamento più ampio della barriera del 20% (ha ottenuto “solo” il 20.8%).

Ancora meno scontata era la resurrezione della Linke, il partito di estrema sinistra guidato da Heidi Reichinnek, che ha preso l’8.8% (i sondaggi gli davano solo il 7%), quasi raddoppiando i consensi delle precedenti elezioni politiche. Un successo che, verosimilmente, ha determinato l’esclusone dal parlamento della BSW di Sahra Wagenknecht e la disfatta dei Verdi, che hanno ottenuto ancora meno voti di quanti gliene assegnassero i sondaggi.

Ma la vera sorpresa, che nessuno aveva previsto nelle dimensioni in cui si è manifestata, è l’exploit della partecipazione elettorale, passata dal 76.4% delle ultime elezioni politiche all’82.5%, il valore più alto dai tempi dell’unificazione tedesca. Tutto lascia pensare che, alla radice del boom dei votanti, vi sia il timore per l’avanzata della AfD, un timore che ha richiamato alle urne elettori che normalmente non votano, ma che sono sensibili ai richiami anti-fascisti e anti-nazisti. Sono questi quasi 4 milioni di elettori in più che hanno conferito ai risultati la loro specifica curvatura, non sempre evidente nei commenti delle ultime ore. Se Afd non è andata molto oltre il 20% e l’estrema sinistra (linke + BSW) ha triplicato il suo peso elettorale rispetto alle ultime elezioni è perché la matrice del surplus di mobilitazione è stata prevalentemente progressista.

Il risultato complessivo di questi sommovimenti è che, nel giro di meno di 4 anni (dal settembre 2021 a oggi), l’elettorato tedesco si è enormemente radicalizzato e polarizzato. I partiti anti-sistema (Afd, Linke, BSW), tutti guidati da donne carismatiche e fortemente sostenuti dall’elettorato giovanile, raccolgono oggi quasi il 35% dei voti, contro il 15% di 4 anni fa. Specularmente, i due partiti cardine del sistema (SPD e CDU/CSU), che si apprestano a formare il governo, raccolgono appena il 45% dei consensi, ancora meno di quanti (il 50% scarso) ne raccogliessero nel 2021.

Vista da questa angolatura la vicenda tedesca è singolare, anche se non unica (qualcosa di simile è in corso in Francia). Il sistema politico si polarizza, i partiti di sistema implodono, scendendo al di sotto del 50% dei consensi, ma al governo riescono ad andarci lo stesso perché si coalizzano tra loro e perché la legge elettorale li premia. In Germania CDU/CSU e SPD controllano il 52% dei seggi con appena il 45% dei voti.

In Francia centristi e forze moderate governano, ma il consenso popolare premia le ali estreme (Marine Le Pen e Mélanchon). In entrambi i casi, il governo delle forze pro-sistema è il frutto della dottrina del “cordone sanitario” (in tedesco: Brandmauer, muro tagliafuoco), che sbarra la strada del governo all’estrema destra, ma al tempo stesso non riesce a stabilire solide alleanze con l’estrema sinistra.

In queste condizioni, è arduo profetizzare al governo tedesco un cammino sereno. Se vorrà mantenere le promesse elettorali sui migranti e sulle politiche green, il cancelliere Merz potrà essere costretto ad accettare i voti dell’estrema destra. Ma se farà marcia indietro su entrambi i versanti per compiacere l’alleato di governo, difficilmente potrà evitare, alle prossime elezioni, un’ulteriore avanzata dell’Afd.

Non è una novità, bensì il solito, irrisolto, dilemma dell’antifascismo: provare a normalizzare le destre radicali associandole al governo, o tenerle lontane a costo di rafforzarle?

Germania e Francia sembrano aver imboccato quest’ultima strada, quella dell’arroccamento dei partiti moderati. Quanto all’Italia, il diritto di governare le destre se lo sono conquistato con il voto. E, per ora, nulla di drammatico pare esserne seguito.

[articolo uscito sul Messaggero il 25 febbraio 2025]

Educazione sessuale e violenza di genere – Il paradosso nordico

26 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Di educazione sessuale a scuola si parla da almeno cinquant’anni, ma la questione è tornata di attualità dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin (autunno 2023), una vicenda che molti hanno visto anche come conseguenza di un deficit di educazione sentimentale.

Per molti osservatori gli episodi di bullismo, violenza fisica e sessuale, aggressione, fino allo stupro e all’uccisione, potrebbero essere contenuti ove l’Italia seguisse la strada percorsa dalla maggior parte dei paesi europei, che da tempo hanno introdotto l’educazione sessuale nei programmi scolastici.

Anche su questo sinistra e destra tendono a dividersi. La sinistra non ha dubbi sull’utilità e l’efficacia dei programmi di educazione sessuale, specie se mettono in discussione gli stereotipi di genere e sono attenti alle problematiche LGBT. La destra, invece, di dubbi ne ha molti: è scettica sull’efficacia dell’educazione sessuale come mezzo di contrasto della violenza di genere, pensa che a occuparsene debba essere la famiglia, paventa rischi di indottrinamento woke.

Curiosamente, però, nessuno sembra porsi una semplice domanda: che cosa dicono i dati?

Eppure, se è vero che più di metà dei paesi europei prevede programmi più o meno avanzati di educazione sessuale, e molti di essi li hanno introdotti molto tempo fa (la Svezia nel 1955), non varrebbe la pena analizzare le loro esperienze? Più esattamente, se è fondata la fede progressista nella capacità dell’educazione sessuale di contrastare la violenza di genere, non dovremmo osservare risultati incoraggianti nei paesi che, a differenza dell’Italia, l’hanno già introdotta da tempo?

A prima vista i dati disponibili (fermi al 2022) deludono completamente le aspettative. I casi di violenza sessuale denunciati in Italia sono circa 9 ogni 100 mila abitanti, ma nella modernissima e civilissima Svezia sono 200, più di venti volte tanti. Se allarghiamo l’orizzonte, e distinguiamo fra i 16 paesi europei segnalati come virtuosi in base ai rapporti Unesco (Svezia inclusa) e i rimanenti paesi UE (Italia inclusa), il contrasto si attenua, ma non sparisce affatto: nei paesi con l’educazione sessuale a scuola le violenze sessuali sono 55 ogni 100 mila abitanti, negli altri paesi sono solo 11, ossia 5 volte di meno.

Dobbiamo concludere che l’educazione sessuale è dannosa?

Ovviamente no, perché i fattori che spiegano la violenza sessuale sono anche altri, e potrebbero agire a sfavore dei paesi avanzati. Inoltre, non si può escludere che, essendo i dati delle violenze sessuali basati sulle denunce, i tassi dei paesi avanzati riflettano tassi di denuncia più alti, e quelli dei paesi arretrati siano sgonfiati da tassi di denuncia più bassi.

Per evitare questa possibile fonte di distorsione, conviene rivolgere l’attenzione al numero di donne uccise per milione di abitanti, uno dei pochi reati sostanzialmente privi di “numero oscuro” (ossia di casi non denunciati). Se procediamo così il quadro si fa più complesso. L’Italia ha uno dei tassi di donne uccise più bassi dell’Unione Europea (solo Irlanda e Lussemburgo hanno valori inferiori ai nostri), la civilissima Svezia ne ha il 31% in più, la Danimarca il 69% in più, la Finlandia il 133% in più. È il cosiddetto “paradosso nordico”, che nessuno studio è finora riuscito a spiegare in modo soddisfacente.

Nello stesso tempo, è vero che se – come per le violenze sessuali – confrontiamo il blocco dei paesi virtuosi (nordici e non) con quello dei paesi restanti (mediterranei e non), i conti tornano più in linea con il senso comune: i paesi più avanzati in termini di educazione sessuale hanno meno donne uccise per abitante (anche se va detto che il risultato è fortemente influenzato dal dato della Lettonia, circa 10 volte più severo di quello dell’Italia).

Conclusioni?

Impossibile fare affermazioni perentorie senza prendere in considerazione molti più paesi e molte più variabili. Quel che possiamo dire è solo che, nell’Unione Europea, l’Italia è uno dei paesi meno pericolosi per le donne, almeno per quel che riguarda il rischio di venire uccise. E che, quanto all’impatto dell’educazione sessuale, l’entità (e il segno) dei suoi effetti sulla violenza di genere sono ancora tutti da verificare, come il “paradosso nordico” si incarica di ricordarci. Destra e sinistra dovrebbero farsene una ragione.

[articolo inviato alla Ragione il 23 febbraio]

Il pluralismo preso sul serio. Una riflessione sulla cultura politica italiana

26 Febbraio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nel recente saggio L’incanto del mondo. Un’introduzione al pluralismo (Ed. Meltemi), il filosofo del diritto Mauro Barberis–un profondo conoscitore del liberalismo ottocentesco e autore di importanti studi che si collocano tra la filosofia morale, il diritto, la storia e la politica—ha scritto che :”la maggioranza detta ‘America profonda”, raccolta attorno al Partito repubblicano spesso formata da autentici psicolabili che però ignorano di esserlo, si riconosce in Trump, altro psicopatico che si ritiene normale”. Considerando che il libro è destinato anche (se non soprattutto) agli allievi del suo corso di ‘Teoria del diritto in ambito filosofico’ e che le parole citate si trovano nel capitolo V, “Pluralismo”, ci si chiede se Barberis sia sempre consapevole del fatto che la divisione tra i giudizi di fatto e i giudizi di valore—alla base del pluralismo conoscitivo, che registra appunto i fatti—debba precedere ogni discorso sul tema in questione. Si possono avere tutte le riserve possibili su Donald Trump e la maggioranza degli americani che lo ha votato ma il dovere dello studioso non è quello di riaprire i manicomi a chi non la pensa come lui bensì quello di capire quali valori, bisogni, interessi abbiano inciso su quel voto. Sine ira ac studio, come dicevano gli antichi. Nella celebre lectio, La scienza come professione (1918), Max Weber aveva scritto: “Nell’aula, ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza — per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo–per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni politiche invece di recare loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche. ”.

Non si possono buttare lì, en passant, opinioni politiche, in privato più che legittime, come se fossero verità autoevidenti. Gli allievi di Barberis debbono leggere gli articoli di Federico Rampini per capire il ‘trumpismo’ e le ragioni del suo successo? Chi vuole studiare seriamente il fascismo non lo farà, certo, leggendo Mussolini il capobanda (2022) di Aldo Cazzullo ma l’imponente opera di Renzo De Felice su Mussolini. Analogamente non sono i furtivi, provocatori, cenni di Barberis a liqui-
dare Trump e quello che ha rappresentato e rappresenta per l’America d’oggi.

ALLE ORIGINI DI UNO STILE

Alle origini di questo stile di pensiero’, c’è un fraintendimento—incomprensibile in uno studioso che da anni legge gli scritti di Berlin– di ciò che significa ’pluralismo’. Nel nostro paese, questo termine, rinvia a valori buoni—quelli della tradizione liberale e democratica—che talora possono confliggere e che dovrebbero, pro bono pacis, trovare un qualche bargaining. Contro la faciloneria di chi mette insieme tutte le cose buone, Norberto Bobbio aveva fatto rilevare in Presente e avvenire dei diritti dell’uomo nell’Età dei diritti (Ed. Einaudi, Torino 1990): “Quando dico che i diritti dell’uomo costituiscono una categoria eterogenea, mi riferisco al fatto che, dal momento che sono stati considerati come diritti dell’uomo anche i diritti sociali, oltre ai diritti di libertà, la categoria nel suo complesso contiene diritti tra loro incompatibili, cioè diritti la cui protezione non può essere accordata senza che venga ristretta o soppressa la protezione di altri. Si fantastichi pure sulla società insieme libera e giusta, in cui siano globalmente e contemporaneamente attuati i diritti di libertà e i diritti sociali; le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere. Tanto per intenderci, chiamo ‘libertà’ i diritti che sono garantiti quando lo stato non interviene, e ‘potere’ quei diritti che richiedono un intervento dello stato per la loro attuazione. Ebbene: spesso libertà e poteri non sono, come si crede, complementari, bensì incompatibili. Per fare un esempio banale, l’aumentato potere di acquistare l’automobile ha diminuito sin quasi a paralizzarla la libertà di circolazione. Un esempio un po’ meno banale: l’estensione del diritto sociale di andare a scuola sino a quattordici anni ha soppresso in Italia la libertà di scegliere un tipo di scuola piuttosto che un’altra. Ma forse non c’è bisogno di fare esempi: la società storica in cui viviamo, caratterizzata dalla sempre maggiore organizzazione per l’efficienza, è una società in cui acquistiamo ogni giorno un pezzo di potere in cambio di una fetta di libertà. Questa distinzione tra due tipi di diritti umani, la cui attuazione totale e contemporanea è impossibile, è consacrata, del resto, dal fatto che anche sul piano teorico si trovano di fronte e si contrastano due concezioni diverse dei diritti dell’uomo, la concezione liberale e quella socialista”.

LA LEZIONE DI BOBBIO

Parole da meditare quelle di Bobbio—” le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere”–. specie se si considera che il filosofo rimase sempre legato alla political culture di ‘Giustizia e Libertà’ e agli ideali di Carlo Rosselli e del Partito d’Azione che a lui si ispirava. L’onestà intellettuale gli precludeva facili sintesi ma non di vedere nella libertà e nell’ eguaglianza i valori più alti del nostro tempo. Sennonché, per chi abbia meditato a fondo la lezione di Isaiah Berlin, al di là del conflitto tra libertà ed eguaglianza, ve n’è uno che si riferisce a valori che la cultura politica—si direbbe ‘l’ideologia italiana’—non riconosce come tali. Per citarne qualcuno: l’Autorità, la Nazione, la Tradizione, la Fede, la Famiglia etc.

IL PLURALISTA DIMEZZATO

Il pluralista dimezzato prende in considerazione solo l’area dei valori buoni: i due citati e quelli che contrappongono dimensioni sociali ed etiche talora in guerra—Antigone e Creonte, la Morale e il Diritto, il Mercato e lo Stato—valori presenti in ogni società civile. Il pluralista imparziale– lettore dei magistrali studi di Berlin sul romanticismo politico, su Herder, su Hamann, sui tradizionalisti francesi, studi, peraltro, che inducevano Bobbio a mettere in discussione la qualifica di liberale data al suo pensiero– al contrario, sa che “anche se ne aborriamo le teorie, consideriamo Torquemada, Giovanni di Leida o Stalin–inquisitori e sterminatori– non semplice-mente come agenti umani di questo o quel grado di importanza nel causare cambia-menti storici, ma come esseri umani a cui riconosciamo un valore morale (e politico) positivo, in virtù della sincerità e comprensibilità dei loro motivi” (v. Berlin Isaiah, Tra filosofia e storia delle idee. La società pluralistica e i suoi nemici, Intervista auto-biografica e filosofica, Ed. Ponte alle Grazie,1994). Per il pluralista dimezzato, Autorità Tradizione, Radici, Destino sono la spazzatura della storia. E’ il vaglio della ragione che decide cosa (quel poco) del passato può essere conservato. Immanuel Kant, nello scritto Che cos’è l’Illuminismo del 1784, aveva decretato: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il motto dell’Illuminismo.” Ciò significava che quanto di irrazionale i secoli avevano depositato nella società e nelle istituzioni doveva venir senz’altro rimosso. Sennonché tutti i fini umani fanno riferimento a valori che sono un’eredità non una acquisizione: quelli che riguardano la comunità non sono universalizzabili–ovvero condivisi da tutti in virtù della loro razionalità– ma non per questo sono meno ‘valori’. Come scriveva ancora Berlin, “Tutti i fini sono fini. Il fatto è che non sono mai riuscito a capire la nozione di un fine razionale|… la nozione di un fine razionale| di cui parlano tutti—uno scopo razionale è un concetto filosofico ben noto: esisteva già ai tempi di Platone è per me incomprensibile. Penso che i fini siano semplicemente fini. La gente cerca di ottenere quello che vuole ottenere. Naturalmente non una varietà infinita di fini, ma un numero limitato”.

Pensando alle categorie classiche Gemeinschat/Gesellschaft (Comunità/Società) mirabilmente fissate da Ferdinand Toennies, si può dire che il pluralista dimezzato vede valori solo nella Gesellschaft e ricaccia tra le deità infernali tutto ciò che ha a che fare con la Gemeinschaft. E poiché il punto di approdo della comunità è ritenuto  universalmente—ma discutibilmente– il fascismo (sono le radici che portano al Lager) tutto ciò che ne proviene diventa una figurazione—sempre diversa nel tempo—del Male. Se si obietta che anche il razionalismo illuministico degenerato in ingegneria sociale porta al Gulag, la risposta è che il secondo processo nasce da un ‘errore fatale’ mentre la degenerazione della comunità ne rappresenta un esito naturale.

INTENDERE I MOVIMENTI TOTALITARI

Non è casuale che, nel nostro paese, l’area culturale più vicina al neo-illuminismo sia quella meno attrezzata intellettualmente per intendere il fascismo e, in genere, i movimenti totalitari. Non li vede come vini andati a male ovvero vini tramutati in aceto per colpa di classi dirigenti liberali incapaci di cogliere i bisogni di sicurezza e di identità dei popoli, per colpa di assetti internazionali di potere che non facevano spazio, crollati i grandi imperi nel 1918 ,alle autodeterminazioni nazionali, per colpa di un’intellighèntzia desiderosa di mettersi a capo della riforma morale e intellettuale dei connazionali (riforma che il liberale Benedetto Croce demolì in un memorabile passo delle Pagine sulla guerra mostrandone le potenzialità illiberali): li vede come malattie mortali, che minacciano la fine del genere umano. Per la cultura che, si richiama al pluralismo senza intenderne a fondo lo spirito, il problema è quello delle masse “psicolabili che, però, ignorano di esserlo” e si riconoscono in psicopatici che si ritengono normali, per citare Barberis. La rebelión de las masas (ma non nel senso del grande Josè Ortega u Gasset il cui libro è più citato–per il titolo–che letto) è il passe-partout che consente di comprendere tutto ciò che, in qualche modo, viene collocato al fuori della ‘società aperta’, nazionalisti e populisti, postfascisti e vannacciani, tradizionalisti politici e fondamentalisti religiosi, meloniani e salviniani. Il neo-illuminismo, insomma, fa di tutte le erbe ed erbacce un solo fascio: non è questa la lezione del grande Isaiah Berlin.

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