Hume PageHume Page

Politica

Prodi superstar?

18 Novembre 2025 - di Paolo Natale

In primo pianoPoliticaSocietà

In tempo di vacche magre per la sinistra italiana, torna di moda il fattore-Prodi, l’unico leader (leggendario) che è stato in grado di vincere le elezioni contro il centro-destra e, in particolare, “il solo capace di sconfiggere Berlusconi per ben due volte”. Così è passato alla storia, come racconta buon ultimo anche Pierferdinando Casini nel suo libro recentemente pubblicato, il ricordo di quanto è avvenuto nel ventennio berlusconiano.

Che continua: “ci è riuscito per via di un suo carisma personale che gli ha permesso di intercettare e convincere una parte dell’elettorato moderato a considerarlo un’alternativa credibile”.

La leggenda rimane tale, ovviamente, perché il risultato è di fatto quello che viene citato. Nessun dubbio su questo. Ma ciò che viene sottaciuto è forse ancora più importante per comprendere fino in fondo le ragioni che hanno permesso questa duplice vittoria. Ragioni che non vanno certo a detrimento della persona di Romano Prodi, ma ci permettono di far luce sulle condizioni che hanno consentito di vincere e che, probabilmente, avrebbero funzionato anche con qualsiasi altro personaggio “credibile” al suo posto.

Detto in altre parole: l’elemento-chiave della vittoria non è stato tanto la presenza di Prodi, quanto piuttosto la particolare configurazione della competizione elettorale. È importante ribadirlo, in un momento di evidente problematicità per le opposizioni e per la sinistra in particolare, perché sottolinea la cronica difficoltà di quest’area politica di diventare maggioranza nel nostro paese.

Ma poi, furono davvero reali vittorie?

Nella prima occasione, quella del 1996, il centro-destra si era presentato privo di quell’alleato che sarebbe divenuto storico nel corso degli anni, cioè la Lega (allora solo Nord) che in quella sola occasione aveva optato per la corsa solitaria, dopo gli screzi tra Bossi e Berlusconi (definito da Bossi stesso in quegli anni “il mafioso di Arcore”). Prodi – investito della leadership della coalizione progressista – si presentò a quelle elezioni come capofila di un maxi-partito in cui erano presenti i popolari, i repubblicani, Unione Democratica e perfino i sudtirolesi; il suo risultato non fu certo eclatante: ottenne infatti soltanto un misero 6% di voti, una quota piuttosto minoritaria di quel 35% dell’intera coalizione dell’Ulivo.

D’altra parte, occorre evidenziare il fatto che nel voto per i partiti, nella parte proporzionale, furono quelli di centro-destra ad ottenere il maggior consenso – senza la Lega, come ho sottolineato – battendo quelli dell’Ulivo di circa otto punti percentuali. Soltanto sommando anche Rifondazione Comunista, che si era presentata separatamente peraltro, si arrivava ad un sostanziale pareggio.

Insomma, il primo esecutivo dell’Ulivo sarebbe restato in piedi soltanto con l’appoggio esterno di Bertinotti, il quale però, dopo molte ripetute minacce quasi giornaliere, quell’appoggio lo tolse, provocando le dimissioni dello stesso Prodi, dopo solo due anni di governo.

La seconda “vittoria” di Prodi avvenne nel 2006, dopo cinque anni di governo Berlusconi che avevano provocato il costante deterioramento della fiducia in lui da parte degli italiani: a gennaio 2006 l’apprezzamento nei confronti del leader di Forza Italia era dell’ordine del 20% circa, il più basso indice di gradimento nei suoi confronti nella sua intera storia elettorale e il più basso tra tutti i Presidenti del Consiglio uscenti in tutta la Seconda Repubblica.

E fu in questa condizione, di enorme vantaggio competitivo, che Prodi si presentò all’elezione come leader dell’Unione, in cui erano confluiti praticamente tutti i partiti che non stavano con Berlusconi, dal centro fino all’estrema sinistra, da Mastella a Bertinotti, dai pensionati fino alla lista dei consumatori.

Nonostante questa lunga lista di partiti e un livello di consenso per Berlusconi ai minimi termini, al Senato la coalizione guidata da Prodi perse in valore assoluto di circa 400mila voti, mentre alla Camera riuscì a strappare la vittoria (e quindi il premio di maggioranza) con uno scarto di appena 25mila voti, pari allo 0,07% dei voti validi.

L’esecutivo successivo fu ovviamente quasi catastrofico dal punto di vista della possibilità concreta di governare il paese, considerata l’estrema varietà dei partiti presenti e la scarsa omogeneità delle proposte e delle direzioni politiche. Dopo costanti tribolazioni, distinguo e minacce di abbandono, Prodi si vide costretto a rassegnare le proprie dimissioni dopo nemmeno due anni dal suo insediamento, verso nuove elezioni politiche.

Alla luce di questa breve disamina, si comprende meno il motivo per cui Romano Prodi viene ricordato come l’unico vero antagonista del centro-destra, l’unico capace di portare l’alleanza progressista al successo elettorale. Molti commentatori hanno addirittura sottolineato come l’Ulivo prima e l’Unione poi abbiano vinto “nonostante” Prodi, e come altri candidati avrebbero potuto far sicuramente meglio di lui nella performance elettorale, portando alla coalizione un valore aggiunto sicuramente superiore.

Come dire: Prodi è riuscito a vincere di misura in due occasioni “facili” dove altri leader, come Rutelli o Veltroni, avrebbero portato ad un successo più significativo e ad un successivo governo con una maggioranza più schiacciante, con maggiori possibilità di manovra e riforme politiche meno frutto di compromessi con gli alleati.

Ma le (comunque indubitabili) vittorie di Prodi vengono utilizzate oggi con il chiaro e specifico obiettivo di dimostrare come il fronte progressista possa battere il suo avversario solo con un occhio privilegiato al riformismo liberal-democratico più centrista rappresentato dallo stesso Prodi. Forse, la cosa più corretta da fare sarebbe quella di proporre una propria linea politica, senza addentrarsi troppo in analisi o costrutti teorici che, come ho cercato di mostrare, sono in parte privi di fondamento storico.

A proposito di lotta ai femminicidi – Sul sessismo dei media

18 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Se si vuole combattere un fenomeno negativo, è più utile darne una descrizione esatta, o deformarlo in base alle proprie esigenze politico-narrative?

Come sociologo e analista dei dati la mia risposta è netta: meglio raccontare le cose in modo esatto, e quindi avalutativo. È questa, del resto, una delle lezioni della grande sociologia europea, da Max Weber (difensore della avalutatività) e di Norbert Elias (per il quale non si può capire la realtà se si è coinvolti politicamente).

Di questa lezione, purtroppo, buona parte dei media se ne fanno un baffo. I fenomeni che si deprecano e che si vuole (o si finge di volere) debellare sono sistematicamente deformati, qualche volta addirittura capovolti, a fini politici. Ne abbiamo avuto un esempio recente con i resoconti delle audizioni della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) sulla Legge finanziaria, resoconti che hanno messo in bocca alle due autorevoli istituzioni diagnosi e critiche che non erano mai state pronunciate. Ma l’esempio che più mi colpisce sono i titoli con cui viene presentato il fenomeno dei femminicidi. Faccio tre esempi, fra i tantissimi che potrei richiamare.

Primo esempio. Qualche settimana fa sul sito del Tgcom24 leggo il seguente titolo “non si ferma la violenza nei confronti del genere femminile: il numero delle vittime continua a salire”. Poi vado a leggere, e scopro che l’articolo spiega dettagliatamente come sia le uccisioni di donne in generale, sia le uccisioni di donne per mano del partner o dell’ex partner siano crollate fra il 2° e il 3° trimetre del 2025. In breve: la notizia è che le uccisioni di donne sono in netto calo, ma il titolo dell’articolo dice esattamente il contrario: “il numero delle vittime continua a salire”. Perché? Poiché non ho motivo di pensare che il titolista sia in malafede, non posso che concludere che il titolo drammatizzante sia dovuto a una combinazione di sciatteria (faccio il titolo senza leggere l’articolo) e di conformismo (mi hanno così tanto riempito la testa con l’aumento “esponenziale” dei femminicidi che non riesco a concepire che possano essere in diminuzione).

Secondo esempio. Qualche giorno fa sul quotidiano La Stampa, in una pagina volta a convincere i lettori dell’assoluta necessità di introdurre l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, viene riportata con grande evidenza una dichiarazione di una esponente del Pd che afferma: “Ciò che dovrebbe far paura è la mattanza di donne che vediamo quotidianamente”. Di nuovo: perché deformare il fenomeno con l’uso di una espressione ‘mattanza quotidiana’ che non lo descrive ma lo deforma? Il termine ‘mattanza’ rimanda alla fase finale della pesca del tonno, con centinaia di esemplari confinati e crudelmente uccisi. Potrebbe andar bene – forse – per descrivere eccidi che hanno come vittime decine o centinaia di donne, e che si ripetono giorno dopo giorno (come può accadere in una guerra). Ma nelle società come la nostra. Fortunatamente, le uccisioni di donne non sono di gruppo, e non sono quotidiane (in 2 giorni su 3 non viene uccisa alcuna donna).

Perché dunque usare un’espressione, “mattanza quotidiana”, del tutto inappropriata? Chi la usa teme che, se non lo facesse, la nostra indignazione di lettori non traboccherebbe con sufficiente impeto? Ci considera così poco umani, così poco intelligenti, da doverci educare con fiumi di retorica e indignazione?

Terzo esempio: le foto in prima pagina. Ma come è possibile che i quotidiani (e i siti internet) ritengano degni di attenzione, esecrazione, pensose riflessioni solo i casi in cui la vittima è giovane e carina?

La ragione – ci viene risposto – è che sono proprio le ragazze le principali vittime dei femminicidi. Ed è l’incapacità del giovane maschio ad accettare un rifiuto la causa delle uccisioni. Ecco perché dobbiamo introdurre l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole: per insegnare ai giovani virgulti a rispettare le decisioni delle loro partner.

Peccato che un quadro del genere, ripetuto ossessivamente da quasi tutti i principali media,

sia del tutto falso. La maggior parte dei femminicidi non riguarda ragazze, e nemmeno giovani donne. L’età media delle vittime si aggira sui 55 anni. Più di metà dei casi ha 50 o più anni. Molte sono sopra i 60 o sopra i 70. Però, di norma, non sono sufficientemente fotogeniche ed evocative per il lavoro dei media. Non permettono di raccontare la solita fiaba-horror stereotipata: lui era possessivo e immaturo, lei lo ha lasciato, lui non ha sopportato l’affronto.

Ancora una volta: a che pro deformare la realtà? Possibile che i media non abbiano alcun interesse a capire il fenomeno, posto che proclamano di volerlo combattere? Che cosa fa loro pensare che darne una rappresentazione parziale e gravemente deformata aiuti a sconfiggerlo? Che cosa li autorizza a trascurare le vittime mature o anziane? Come possono combattere sessismo e ageismo se sono le loro stesse pratiche a discriminare chi non è sufficientemente giovane e bella?

Eppure, se davvero vogliamo combattere contro le uccisioni di donne, dovremmo prima di tutto capire a fondo il fenomeno, anziché accontentarci di esecrarlo. Dovremmo, ad esempio, provare a rispondere a queste due domande:

1 – perché, in Europa, tutti i paesi che hanno introdotto l’educazione sessuale nelle scuole hanno più femminicidi dell’Italia, che invece non la ha ancora introdotta?

2 – perché, fra i paesi occidentali, l’Italia è quello con il numero di femminicidi per abitante più basso?

[articolo uscito sulla Ragione il 17 novembre 2025]

Dimenticare i problemi strutturali

17 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Per anni ho ritagliato gli articoli di giornale più interessanti in materia economico-sociale, distribuendoli in centinaia di cartelline a seconda del periodo e dell’argomento. Nei giorni scorsi, finalmente, mi sono deciso a fare pulizia: ho buttato quasi tutto. Non alla cieca, però: prima di buttare, ogni tanto davo una sbirciata. Così, per curiosità.

Ebbene, è stata un’esperienza sorprendente, e molto istruttiva. La cosa che più mi è saltata all’occhio è la differenza fra ciò di cui si parla oggi e ciò di cui si parlava 10, 15, 20 anni fa. La metterei così: allora il dibattito pubblico era governato da lunghe, lunghissime, insistenti discussioni sui grandi problemi strutturali dell’Italia e sui modi di affrontarli, oggi quasi tutto lo spazio è occupato da questioni contingenti e molto delimitate, nonché dalle opposte prese di posizione delle forze politiche.

Di che cosa si parlava allora?

Un elenco minimale include: spesa pubblica, spending review, sprechi, riforma federalista, pressione fiscale, debito pubblico, efficienza della giustizia, riforma della scuola, riforma dell’università, meritocrazia, spread, globalizzazione, crescita, produttività, mercato del lavoro, crisi del sistema pensionistico. Gli interventi su questi temi erano quotidiani, le posizioni contrastanti ma ben delineate. Oggi non è che non se ne parli mai, qualche articolo prima o poi compare, ma manca la convinzione condivisa che certi nodi siano ineludibili, e che sia urgente discuterne per fermare il declino dell’Italia.

Oggi a me pare che l’unico nodo strutturale in grado di attirare un’attenzione mediatico-politica costante sia quello del calo demografico: ci sposiamo di meno, facciamo meno figli, siamo preoccupati per le conseguenze economiche e sociali di questo “inverno demografico”.

Ma tutto il resto? Possibile che nessuna delle questioni che un tempo ci appassionavano (e su cui spesso ci dilaniavamo) sia ancora importante?

Per certe questioni la nostra attuale disattenzione è comprensibile. Nel caso del debito pubblico, ad esempio, è il buon andamento dello spread che ci induce a non vedere il problema. Nel caso del federalismo, sono stati 25 anni di chiacchiere impotenti che hanno fatto evaporare il tema (ma non il problema degli squilibri territoriali, da cui il sogno federalista aveva preso le mosse).

Per tutto il resto, però, la nostra disattenzione non è giustificata. Possiamo dire che la spesa pubblica è finalmente efficiente, o che la sanità nel Mezzogiorno ha prestazioni comparabili a quelle del Nord? Evidentemente no.

Possiamo dire che il merito è adeguatamente premiato, come prevede l’articolo 34 della Costituzione (“i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”)? Evidentemente no.

Possiamo dire di aver disboscato la selva di adempimenti, lacci e lacciuoli che frenano l’economia? Evidentemente no.

Possiamo dire che la giustizia civile è diventata più veloce, e quella penale commette meno errori? Evidentemente no.

Possiamo dire che la lotta all’evasione ha permesso di ridurre la pressione fiscale e abbassare le aliquote per chi paga le tasse? Evidentemente no.

Possiamo dire che, finalmente, la produttività è tornata a crescere, con benefici per le imprese (più investimenti) e per i lavoratori (più potere di acquisto)? Evidentemente no.

Possiamo dire che finalmente i nostri giovani si sono rimboccati le maniche, e non siamo più il paese dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano)? Ancora una volta, evidentemente no. Dove tutti i nostri “evidentemente” non rimandano a percezioni ma a dati statistici, che implacabilmente testimoniano il perdurare dei nostri maggiori problemi strutturali.

Ma, si potrebbe obiettare, negli ultimi cinque anni (con Draghi e Meloni) abbiamo avuto uno straordinario aumento dell’occupazione: circa 2 milioni di posti di lavoro in più. È vero, tuttavia il problema è che gli aumenti occupazionali non si sono accompagnati a incrementi del Pil abbastanza sostenuti da far crescere la produttività, che ha continuato a ristagnare come fa da circa un trentennio. Quanto agli aumenti occupazionali, sono dovuti più alla permanenza al lavoro di adulti e anziani che non all’immissione di nuove leve. Anzi, diversi indizi suggeriscono che, anche negli ultimi anni, si è rafforzata la tendenza di parti del sistema-Italia a vivere di rendita, o meglio e più precisamente, a “vivere senza lavorare”, come testimoniano tanti fenomeni apparentemente scollegati: lo sfruttamento intensivo delle abitazioni (esplosione degli Airbnb), le donazioni patrimoniali (un flusso annuo di denaro pari a 10 Finanziarie), l’attrattiva delle carriere da influencer, l’aumento del gioco d’azzardo e del trading on line. Tutte attività che assicurano (o promettono di assicurare) un reddito senza la fatica e l’impegno di un vero lavoro.

Colpa della politica? Colpa di questo governo? Colpa di quelli che l’hanno preceduto?

Difficile distribuire meriti e colpe, ma il fatto che dei problemi strutturali del paese si parli poco, comunque molto di meno di dieci o venti anni fa, suggerisce un’ipotesi amara: forse non sono solo i politici, ossessionati dalla ricerca del consenso immediato, ma siamo noi stessi – in quanto cittadini, studiosi, operatori dell’informazione – che ci siamo distratti. Poco per volta la fiducia nella possibilità di cambiare le cose ha lasciato il posto a una visione più scettica e disincantata, per cui le cose non vanno così male da esortarci all’azione, e il costo di affrontare i problemi ci appare superiore ai benefici che potremmo attenderci da riforme radicali.

O non è così?

[articolo uscito sul Messaggero il 15 novembre 2025]

Quando il pluralismo non è preso sul serio. Il caso Valditara

14 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPoliticaSocietà

Lettera 150

Novembre 2025

I fatti sono noti. Una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito dei primi di novembre ha invitato presidi e professori a tener conto della diversità delle opinioni che si possono avere sui grandi temi della politica del nostro tempo. Un informato articolo di ’Repubblica’ firmato v.a., Dibattiti a scuola solo se c’è ‘par condicio’. Polemica su Valditara (8 novembre u.s.) ha spiegato bene la vicenda. «Appare importante—si legge nella circolare– che l’organizzazione e lo svolgimento, all’interno delle istituzioni scolastiche, di manifestazioni ed eventi pubblici aventi a oggetto tematiche di ampia rilevanza politica e sociale, siano caratterizzati dalla presenza di ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza». Le scuole, «nell’ambito della loro autonomia» devono « assicurare il pieno rispetto dei principi del pluralismo e delle libertà di opinione e garantire il dialogo costruttivo e la formazione del pensiero critico». Le iniziative, dunque, devono essere «coerenti con gli obiettivi formativi della scuola e contribuire attraverso il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti, consentendo a ciascuno studente di sviluppare una propria autonoma e non condizionata opinione». Si tratta di direttive pienamente condividibili ma che ingenerano nell’animo una profonda tristezza. Le scuole della ‘società aperta’, infatti, non avrebbero alcun bisogno di essere richiamate a principi tanto evidenti. E inoltre se dal piano delle (legittime) ‘raccomandazioni’ si passasse a quello dei ‘fatti’ e delle concrete proposte operative, sarebbe difficile sottrarsi alla tentazione del Manuale Cencelli, («l’espressione giornalistica riferita all’assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso” poi “spesso utilizzata in senso ironico o dispregiativo per alludere a nomine effettuate in una mera logica di spartizione in assenza di criteri di merito». Wikipedia). Vi immaginate un dibattito sulla guerra russo-ucraina organizzato in un liceo e sottoposto alla discussione del Consiglio d’istituto in cui ciascun docente potrebbe eccepire sull’invito rivolto a un ospite la cui ”specifica competenza e autorevolezza” sia, a suo avviso, per così dire, problematica. Detto ciò l’invito di Valditara «al costante rispetto del pluralismo» è ineccepibile e non si vede lo sdegno suscitato dalle deputate del PD, Irene Manzi e Simona Malpezzi (un volto noto, quest’ultima, grazie ai talk show di Mediaset). « La scuola—dicono le due parlamentari nell’interpellanza rivolta al Ministro—non è un luogo da sorvegliare, ma un luogo dove liberare le idee, perché solo dove si discute liberamente si educa davvero alla cittadinanza». ‘Na penzata ‘e spírito’, vien fatto di commentare, col grande Armando Gil, pensando ai licei e alle Università che, una volta occupati, non possono certo dirsi  luoghi dove’ liberare le idee’. Giustamente Valditara ha commentato «parole inquietanti che lasciano trasparire l’intenzione di voler confondere l’autonomia scolastica con pratiche di indottrinamento. La scuola costituzionale non si merita questa preoccupante confusione».

 E tuttavia alla base di questa vicenda c’è un equivoco non risolto—e da tempo.  Lo Stato, i ministeri competenti hanno il dovere di salvaguardare il pluralismo dell’informazione e di assicurare a tutte le idee, a tutte le opinioni libertà di accesso nelle istituzioni scolastiche. Ma qui non si tratta di pluralismo dell’informazione bensì di pluralismo di manifestazione. Studenti e antagonisti vari partecipano alle occupazioni con lo spirito dei coristi del CAI che si riuniscono per cantare Lassù sulle montagne.. Per loro, non è un problema la conoscenza giacché si sa sin troppo bene ciò che sta accadendo nel mondo e contro cui si protesta. Vogliono, invece, porre fine a qualcosa che assimilano a un genocidio  sicché pretendere  che facciano ascoltare le due campane è, per lo meno, ingenuo. Sarebbe come  se si fosse chiesto a John Brown, l’abolizionista del Connecticut impiccato nel 1859, di dare la parola nei raduni da lui indetti (che potevano portare ad azioni violente come il massacro del Pottawatomie del 1856) anche ai fautori della schiavitù o comunque a quanti, in qualche modo, la giustificavano. Se si protesta conto i Lager o contro i Gulag, non è assurdo far sentire la campana nazista o comunista? Al tempo della Guerra del Vietnam, sui grandi viali di Washington sfilavano, da una parte, i manifestanti che volevano porre fine al conflitto nel Sud-est asiatico e, dall’altra parte, quanti desideravano che continuasse fino alla vittoria sui comunisti (tra loro c’era, almeno idealmente, John Wayne). Due cortei, appunto, impensabili in Italia dove sarebbero vietate de facto—per ragioni di ordine pubblico–manifestazioni in difesa non di Netanyahu ma del diritto dello stato di Israele a esistere. Da noi hanno diritto di parola (e di predica) solo i puri, gli onesti, quanti parlano a nome del Genere Umano.

 E qui veniamo al tumore maligno radicato nel corpo della nazione: la pretesa di essere nel giusto e che le opinioni degli altri, se contrarie alle nostre, nascondano interessi nascosti e disegni inconfessabili. Luca Ricolfi, in un magistrale articolo sul ‘Messaggero ’,A proposito di un’uscita di Elly Schlein. Democrazia a rischio (2 novembre u.s.) ha messo a fuoco due gravi distorsioni del concetto di democrazia, presenti nell’ideologia italiana. «La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale.|…| è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro». La seconda distorsione è «la credenza che una delle due parti politiche—la destra—non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia perché non pienamente democratica».

 A mio parere, qui c’è un vizio antico—che forse risale addirittura all’età del Risorgimento e agli insegnamenti di Giuseppe Mazzini e di Carlo Cattaneo—quello di ritenere che, alla base delle decisioni dei governi e dei loro oppositori, debba esserci una Verità oggettiva, indistinguibile dalle leggi di natura—che prescrive ciò che è giusto, in politica come in economia– e che non tenerne conto sia andare fuori strada, esporre il paese alla rovina. E’ un costume di casa che non riguarda solo le ali estreme dello schieramento politico giacché, a leggere gli editoriali dei columnist moderati e liberali di oggi come di settant’anni fa, si ha sempre la sensazione che, al di fuori delle soluzioni politiche da essi auspicate (centro-destra o centro-sinistra), ci fosse solo il caos. La cultura del Partito d’Azione svolse in tal senso una funzione decisiva: ponendosi come sintesi di liberalismo e di socialismo, i suoi esponenti tendevano a delegittimare moralmente quanti della sintesi  non  volevano saperne e rimanevano attaccati all’una o all’altra delle polarità ‘superate dalla Storia’. Non a caso con qualche luminosa eccezione (v. Guido Calogero) erano portati ad auspicare una democrazia senza partiti giacché questi non avevano più ragion d’essere una volta che il paese si fosse incamminato sulla via maestra del socialismo liberale o del liberalsocialismo.

 Non meraviglia che una sinistra non ancora secolarizzata e laicizzata (e quindi lontana dall’acquisire la consapevolezza che i valori politici stanno tutti sullo stesso piano) a parole riven-dichi il pluralismo dell’informazione ma, col cuore, si ritrovi sempre dalla parte dei ‘monopolisti delle manifestazioni’ ovvero di quanti—magari con mezzi violenti e inaccettabili—‘portano avanti’ le cause giuste. Se nella lotta politica si confrontano il Bene e il Male, quanti si trovano al servizio del secondo, possono anche andare al governo—se gli elettori sottopongono la democrazia a  harakiri—ma restano sempre un pericolo per la democrazia e per le libertà. Tutto in loro diventa subdolo, persino il ‘richiamo strumentale’ al pluralismo. Quest’ultimo, nei loro disegni perversi, diventa un cavallo di Troia destinato a far conoscere, nelle scuole della Repubblica, interpretazioni della nostra storia non in linea con la pedagogia dello Stato democratico fondato sui valori di una Resistenza e di un antifascismo intesi non come restaurazione delle libertà civili e politiche–conculcate dal fascismo– ma come renovatio ab imis, creazione di una nuova civiltà destinata a cancellare le miserie della vecchia Italia. Come ebbe a scrivere Giuseppe Bedeschi sul ‘Giornale’ del 9 giugno 2010, Così Croce sfidò Parri in difesa della libertà, «il Partito d’azione mirava a realizzare un programma di ‘rinnovamento sociale e politico’ con evidenti caratteri massimalistico-giacobini. Persino un uomo come La Malfa (azionista) era convinto che si dovesse chiedere” la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali”, al fine di “recidere alle radici ogni potenza reazionaria del grande capitale’». Quel programma di rinnovamento sociale e politico con evidenti caratteri massimalistico-giacobini continua ad essere il termine fisso d’eterno consiglio per la sinistra italiana, anche dopo aver rinunciato alla nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali. Forse il vero nemico del pensiero egemone oggi è il pluralismo preso sul serio. Potrebbe convincere gli Italiani che a sinistra non c’ è “l’Unto del Signore” come non c’è a destra: giacché, per dirla con Bernard Crick, destra e sinistra stanno tutt’e due sul mercato.

La politica è donna?

12 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

A destra non c’è partita: nessun politico maschio ha un carisma anche lontanamente comparabile a quello di Giorgia Meloni. Ma a sinistra, come stanno le cose? Apparentemente la situazione è più equilibrata: Elly Schlein ha fatto fuori Bonaccini con le primarie, ma tutto il resto del centro-sinistra è dominato dai maschi: maschio è il capo dei cinque stelle, Giuseppe Conte; maschio è il leader dei Verdi Angelo Bonelli; maschio è il leader di sinistra italiana Nicola Fratoianni; maschi sono i leader del Terzo Polo Matteo Renzi e Carlo Calenda. Maschi, infine, sono quasi tutti i “grandi vecchi” – Franceschini, Bettini, Prodi, Bersani, Veltroni – che da dentro o da fuori ancora influenzano la vita del Partito Democratico.

Tutto questo fino a poco fa. Ora però il vento sta cambiando. Nel giro di pochissimo tempo la palude progressista è stata investita da un triplice ciclone femminile. A livello europeo, Pina PiciernoP, eletta nelle liste del Pd e vicepresidente del Parlamento Europeo, si è distinta – nell’ambito della sinistra italiana – come una delle voci più chiare e risolute nel sostegno all’Ucraina, in sintonia con il gruppo dei socialisti europei ma in aperto dissenso con le direttive del Partito Democratico. È uno dei rari casi in cui una donna di sinistra si contrappone duramente e a viso aperto ai vertici del suo partito.

In Italia, invece, a sfidare l’establishment progressista hanno provveduto altre due giovani donne, Silvia Salis e Chiara Appendino. Eletta sindaco di Genova con il sostegno di Elly Schlein, Silvia Salis non ha atteso molto prima di lanciare – sia pure in modo alquanto obliquo – il suo guanto di sfida alla segretaria del Pd come candidata premier della coalizione di sinistra. Quanto a Chiara Appendino, è di pochi giorni fa una sua lettera a Libero in cui sferra un durissimo attacco a tutta la sinistra per la sua incapacità di affrontare il problema della sicurezza.

Le buone ragioni politiche delle due “ragazze terribili” sono più che comprensibili. A favore della renziana Silvia Salis gioca il fatto che, con una candidata premier sbilanciata a sinistra come Elly Schlein, le probabilità di battere Giorgia Meloni sono minime. E tuttavia colpisce la sua improvvisa, repentina popolarità, ovvero il fatto che a lei – con pochissima esperienza politica, e un passato di campionessa di lancio del martello – sia riuscito in pochi giorni quello che da oltre un anno non sta riuscendo a nessuno dei maschi, da Manfredi a Onorato, da Ruffini a Prodi, che vengono ripetutamente indicati come possibili federatori di un centro sinistra ampio e inclusivo. È come se l’essere donna, giovane, sportiva e di bell’aspetto fosse diventato sufficiente a bruciare tutte le tappe di una normale carriera politica.

Il caso di Appendino è diverso, perché il suo curriculum politico è molto più ricco, a partire dalla guida della città di Torino (dal 2016 al 2021), prima donna sindaco nella storia della città. Però anche qui colpisce il modo repentino con cui ha saputo mettere nell’angolo Giuseppe Conte, finora leader indiscusso del movimento Cinque Stelle. Le è bastato dimettersi da vicepresidente del movimento, e subito dopo mettere il dito nella piaga del centro-sinistra, accusato di avere rimosso il tema della sicurezza. Un problema che cova da tempo sotto le ceneri nel M5S, ma che Conte era riuscito abilmente a tenere nascosto persino in occasione dell’incontro-intervista di un anno fa con Sahra Wagenknecht, leader di un partito (la BSW) di sinistra ma chiaramente anti-migranti.

Non sappiamo se, alla fine, il triplice assalto di Picierno, Salis, Appendino all’establishment progressista sarà coronato da successo, e quale potrà essere alla fine il ruolo di Schlein. Ma se l’assalto dovesse riuscire, le prossime elezioni ci riserverebbero uno spettacolo inedito: lo scontro tutto al femminile fra una donna al comando – Giorgia Meloni – e un manipolo di donne che aspirano a prenderne il posto. Una novità assoluta in Italia, e forse non solo in Italia.

[articolo uscito sulla Ragione l’11 novembre 2025]

image_print
1 2 3 113
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy