A proposito dell’epidemia di solitudine – Le conseguenze dell’amore
In primo pianoPoliticaSocietàI sociologi americani se n’erano accorti già a metà degli anni ’80, allorché Robert Bellah ebbe a pubblicare il volume Le abitudini del cuore (sottotitolo: Individualismo e impegno nella società complessa): l’individualismo esasperato della società americana (ma il discorso vale per quasi tutte le società occidentali) erode inesorabilmente il senso di comunità e l’impegno civico. E 15 anni dopo un altro sociologo americano, Robert Putnam, sembrò chiudere definitivamente il discorso con un libro sconsolato, Bowling Alone (giocare a bowling da soli), in cui constatava la distruzione del tessuto comunitario, il declino dell’associazionismo, la contrazione delle relazioni faccia a faccia.
In queste analisi, tuttavia, la preoccupazione principe degli studiosi era l’erosione del “capitale sociale”, fatto di partecipazione e impegno pubblico, più che la condizione dell’individuo. È vero che la condizione umana che traspariva da quelle analisi era quella di individui sempre meno connessi, e quindi sempre più soli, ma è solo recentemente che, grazie soprattutto ad alcuni psicologi sociali americani (Haidt e Twenge su tutti), la solitudine del singolo individuo è diventata l’oggetto e il centro degli studi. Oggi, diversamente da ieri, si parla esplicitamente di “epidemia di solitudine”, e il fenomeno è diventato oggetto di attenzione da parte di psicologi, medici, operatori sociali, schiere di terapeuti di ogni specie. Persino l’Organizzazione mondiale della sanità, un paio di anni fa, ha definito la solitudine “una preoccupazione globale per la salute pubblica”. Per non parlare dei governi che, come quello britannico e quello giapponese, non hanno trovato di meglio che istituire un “ministero della solitudine”.
In effetti i dati, sia quelli comportamentali (come usi il tuo tempo?), sia quelli soggettivi (come ti senti?), supportano pienamente l’idea di una epidemia di solitudine, soprattutto fra le ultime generazioni (Millenials e Zoomers), e in special modo specie nei paesi occidentali.
Ma qual è l’origine di questa ondata di solitudine?
I sociologi tendono a rispondere: è l’individualismo, bellezza! La ricerca ossessiva della felicità e l’imperativo dell’autorealizzazione tolgono spazio alle forme tradizionali della socialità, basate sull’associazionismo e i riti comunitari. Gli psicologi sociali osservano che l’epidemia di solitudine e i sintomi di disagio si sono moltiplicati dopo l’invenzione dell’iPhone4, che ha enormemente facilitato l’accesso a internet e ai social.
Uno sguardo più lungo, tuttavia, suggerisce che, forse, un fattore importante sono state anche le modificazioni della nostra concezione dell’amore, e più in generale dei rapporti con l’altro sesso. Modificazioni che non datano da oggi, ma risalgono ai primi anni ’70, quando è iniziato il lungo processo di disgregazione (o superamento?) della famiglia tradizionale. Secondo il filosofo francese Pascal Bruckner è proprio l’affermazione del matrimonio d’amore, basato sulla passione e la libertà individuale anziché sull’interesse e sul bisogno di sicurezza, che ha reso le relazioni più instabili, più brevi, più a rischio (Il matrimonio d’amore ha fallito?, 2011). E questo ben prima dell’avvento di internet e della vita online: il crollo dei matrimoni e la moltiplicazione di separazioni e divorzi hanno preceduto di diversi decenni la nascita dei social, che hanno dovuto attendere l’invenzione dell’iPhone4 (2010) per decollare veramente.
Ma, anche qui, forse la novità più importante non è che i social hanno confinato un paio di generazioni di giovani nelle loro stanzette, sottraendo tempo ed energie alle interazioni faccia a faccia. La vera novità è che, insieme ai social, sono nate le piattaforme di incontri (come Tinder, Bumble, Hinge), che hanno consentito a tutti, giovani e meno giovani, di inaugurare una nuova stagione nella ricerca del partner. Una stagione in cui la visione romantica, dominante nella seconda metà del secolo scorso, sta progressivamente cedendo il posto a una concezione disincantata, pragmatica, o mercatista, in cui ciascuno opera come mero consumatore, che sfoglia il catalogo dei partner che la piattaforma gli sottopone, alla ricerca più o meno ansiogena di “match”, ossia di potenziali corrispondenze fra domanda e offerta.
Che cosa c’entra questo con la solitudine?
Lo spiega bene un recente report di Tomas Pueyo, brillante analista dei dati attivo negli Stati Uniti: le app di incontri hanno fallito, gli utenti si stanno rendendo sempre più conto che ne beneficiano solo due minoranze (i maschi molto attraenti e le donne che cercano solo sesso) e che la base di tutto è la finzione (profili inventati, ora anche con l’aiuto dell’intelligenza artificiale). La conseguenza è l’aumento del senso di solitudine, aggravato da una circostanza: avendo passato troppo tempo online, e avendo rinunciato a imparare l’arte del corteggiamento durante gli anni giovanili, diventa sempre più difficile rientrare nel mondo reale, un po’ come accade ai reduci di una guerra quando tornano a casa. Se la prima ondata di solitudine, quella iniziata negli anni ’70 del secolo scorso, era il (paradossale) risultato del trionfo dell’amore romantico, la seconda ondata sembra essere, semmai, il frutto dell’abbandono degli ideali romantici, travolti dagli algoritmi di match fra utenti alla ricerca del partner ideale.
Cumulando i loro effetti, le due ondate hanno prodotto uno degli esiti più sconcertanti del nostro tempo: la proliferazione delle “famiglie unipersonali”, ossimoro con cui i demografi indicano le persone che vivono da sole. Il peso di queste “famiglie non-famiglie” era rimasto prossimo al 10% per tutta la storia d’Italia, fino alla fine degli anni ’60. Era balzato al 25% alla fine del millennio, dopo 30 anni di femminismo. Oggi, dopo 20 anni di internet e di social, è arrivato a sfiorare il 40%: niente meglio della demografia ci mostra “le conseguenze dell’amore”, per dirla con il celebre film di Paolo Sorrentino.
[articolo uscito sul Messaggero l’8 giugno 2025]