A proposito dell’inizio dell’anno scolastico – Ciao maschio

Niente telefonini a scuola, anche nei licei. Chi fa scena muta all’esame di maturità sarà bocciato. Il voto in condotta peserà di più. Chi verrà sospeso per più di due giorni non potrà cavarsela stando a casa, ma dovrà svolgere attività di “cittadinanza solidale” presso strutture convenzionate. Quanto ai programmi, ci sono dei cambiamenti ma decorreranno solo 2026-27.

Queste le principali novità dell’anno scolastico che sta iniziando. Novità che, a ben vedere, sono semplicemente una rivincita del senso comune. Tardiva ma necessaria, al limite dell’ovvietà. La domanda, semmai, è come sia stato possibile, per anni, consentire l’uso dei cellulari nella scuola secondaria superiore, o elargire promozioni a dispetto di gravi violazioni di elementari norme di comportamento.

Bene, siamo tornati alla normalità. Ma di che cosa è fatta la normalità della scuola italiana?

Di tante cose. Alcune note, se non conclamate: il divario nord-sud nei livelli di apprendimento, la difficile integrazione degli studenti stranieri, il bassissimo numero di laureati. Altre eternamente discusse, ma senza pervenire a una diagnosi condivisa: disagio giovanile, bullismo, baby gang, studenti che aggrediscono gli insegnanti, genitori che difendono i figli a oltranza. C’è una cosa, però, che stranamente non entra mai nel dibattitto sulla scuola: lo svantaggio sistematico di un particolare gruppo sociale.

C’è un determinato gruppo sociale (dirò fra poco quale) che, da oltre 30 anni, si laurea molto di meno del resto della popolazione. Che, in terza media, ha voti più bassi in tutte le materie. Che, negli ultimi anni, ha beneficiato meno dell’aumento occupazionale. Insomma: un disastro su tutta la linea.

Chi sono costoro?

Un piccolo gruppo di emarginati, svantaggiati, disabili? O di stranieri, immigrati, provenienti da qualche paese lontano? O sono gli abitanti di una regione o provincia italiana particolarmente povera?

Niente di tutto questo. Il gruppo di cui mai si parla mettendone in rilievo lo svantaggio sono i giovani maschi. È dal 1991 che si laureano meno delle ragazze: oggi il divario è salito al 50% (per ogni 15 ragazze che si laureano vi sono solo 10 laureati maschi). Nella scuola media inferiore, già al terzo anno le ragazze hanno voti migliori dei ragazzi, in tutte le materie, compresa la matematica. E le differenze si riproducono sul mercato del lavoro: nell’ultimo triennio il tasso di occupazione dei maschi è aumentato meno del 6%, quello delle donne di oltre il 12%, più del doppio.

Perché tutto questo?

È abbastanza semplice: i ragazzi studiano di meno delle ragazze, e proprio perché studiano di meno accumulano difficoltà crescenti nel percorso scolastico. Non studiare alle elementari non ha effetti immediati, tutti vengono promossi a prescindere. Ma man mano che si va avanti i deficit di preparazione costano sempre più cari: per quanto permissivo e di manica larga sia il sistema dell’istruzione, gli è impossibile promuovere tutti dalla licenza elementare alla laurea. È come in una corsa ad ostacoli: per chi studia poco gli ostacoli diventano sempre più alti man mano che si procede nei vari gradi (o “scalini”) del percorso di studi. Il risultato è una selezione spietata dei giovani maschi, che pagano il deficit di preparazione uscendo anzitempo dal percorso degli studi. Non a caso, nel confronto europeo, l’Italia non è messa affatto male se si comparano i tassi di conseguimento della laurea delle ragazze, ma occupa una posizione sconfortante se si comparano quelli dei ragazzi: le ragazze laureate sono il 37%, vicine all’obiettivo europeo del 45% entro il 2030, i ragazzi sono fermi al 24%, poco più della metà dell’obiettivo europeo.

Se questo è quel che raccontano i dati, ci si potrebbe chiedere perché se ne parla così poco. Qualsiasi gruppo sociale che presentasse numeri come quelli dei giovani maschi diventerebbe immediatamente oggetto di attenzione, di pensosi dibattiti, di proposte e iniziative per colmare il divario. Per i maschi invece no, questa attenzione non c’è quasi mai.

La ragione è semplice, e la dice molto lunga sul tipo di cultura in cui siamo immersi: dei maschi non si parla perché sono sì un gruppo svantaggiato, ma lo sono per responsabilità propria. Non possono rivendicare lo status di vittima. Non c’è una condizione sociale, un trauma, una tara psicologica o mentale che ne giustifichi il ritardo nella corsa della vita.

Di qui il silenzio. Un silenzio che, per una volta, si potrebbe provare a interrompere. Almeno nei giorni in cui per tutti, giovani ragazzi e ragazze, comincia l’avventura degli studi.

[articolo uscito sul Messaggero il 14 settembre 2025]




Genocidio e pulizia etnica

L’orrore suscitato dalle rovine di Gaza, che fanno pensare a Hiroshima e a Nagasaki, ha indotto politici, studiosi, cittadini comuni ad accusare il governo Netanyahu di genocidio. Capisco chi ritiene il premier israeliano un’criminale di guerra’ ma l’uso del termine ‘genocidio’ mi sembra del tutto inappropriato. La violenza cieca ed efferata nei confronti di chi occupa un territorio che l’aggressore considera destinatogli da Dio o dalla Storia o dal Progresso, è un fenomeno costante nella storia: si pensi solo alle stragi di indiani compiute in America o al massacro degli armeni per mano turca (e non furono i ministri retrogradi e reazionari  della Sublime Porta a farlo ma i Giovani Turchi del partito Unione e Progresso!) In questi e in altri casi, l’imperativo è <non vogliamo gente estranea a casa nostra!>. Nella Democrazia in America del 1835, Tocqueville, inorridito dal trattamento riservato, nei civilissimi States, a indiani e ‘negri’, scriveva: «Non si direbbe, nel vedere ciò che avviene nel mondo, che l’europeo è per gli uomini delle altre razze quello che l’uomo stesso è per gli animali? ». Per i pionieri, in realtà, le immense praterie del Nord America, piene di laghi, di fiumi, di pascoli erano la Terra Promessa che Iddio aveva assegnato alla razza bianca anglosassone, in considerazione delle sue eccelse virtù, e non a caso il Vecchio Testamento ricorreva così frequentemente nei loro nomi e nei loro riti religiosi. Forse si dimentica che le giustificazioni ideologiche del colonialismo sono la missione religiosa e il dovere di espandere i lumi e la scienza in tutti gli angoli del mondo. Contro il richiamo ai lumi e all’esportazione della civiltà un repubblicano, come Georges Clemenceau, ammoniva, nel Discorso alla Camera del 30 luglio 1885, «Guardate la storia della conquista di questi popoli che chiamate barbari e vedrete la violenza, tutti i crimini scatenati, l’oppressione, il sangue che scorre a torrenti, i deboli oppressi, tiranneggiati dal vincitore! Questa è la storia della vostra civiltà! […] Quanti crimini atroci, spaventosi sono stati commessi in nome della giustizia e della civiltà ».

 Lo ‘spirito di conquista e di usurpazione’ non è iscritto solo nel dna della destra (il monarchico Charles Maurras non era affatto favorevole alle conquiste coloniali) ma nasce da un progetto imperiale che lo stato nazionale nell’età dell’anarchia internazionale – gli ultimi decenni dell’Ottocento che vedono il dissolvimento dell’equilibrio europeo creato a Vienna dal Principe di Metternich – coltiva ma non produce. È il bisogno di spazio vitale, al di là delle motivazioni ideali, che porta ad allargare a dismisura i confini della comunità politica fino a snaturarla (giacché ne mette in crisi l’omogeneità culturale), al di là delle motivazioni ideali: si vuole ampliare la vecchia casa in modo da renderla più ricca economicamente e più sicura militarmente.

E tuttavia nell’agire dei governi manca la pretesa di agire, o di legiferare, per il genere umano. È qui la differenza cruciale tra la pulizia etnica e il genocidio. In quest’ultimo, definito nella ‘Enciclopedia Britannica’ come «deliberata e sistematica distruzione di un popolo per le sue caratteristiche etniche, nazionali, religiose o razziali», troviamo qualcosa di inedito: non il nazionalismo dilatato ma una sorta di universalismo nero che induce certi regimi politici a investirsi del compito di ripulire l’umanità da una razza infetta e inquinante. Per i pionieri del Far West, per gli israeliani, per i turchi, i pellirosse, i palestinesi e gli armeni non erano germi patogeni, destinati a infettare la razza umana ma minoranze detestate, in quanto suscettibili di ‘rovinare la festa’ ovvero l’idillio e l’omogeneità comunitaria. «Le comunità politiche evolute, come le antiche città-stato o i moderni stati-nazione—scriveva Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo— insistono così spesso sul­l’omogeneità etnica perché tendono a eliminare nella misura del possibile le differenze naturali, sempre presenti, che suscitano odio, diffidenza e discriminazione».

Con il nazismo si entrava in un altro ordine di idee: non si trattava più di eliminare una minoranza incomoda e indesiderata, ma di una gigantesca opera di bonifica planetaria che avrebbe segnato nella storia del genere umano una svolta epocale. Per i nazisti gli ebrei erano batteri pestilenziali da eliminare in tutte le regioni della Terra in cui avevano messo radici. Qui non si trattava più di razze inferiori o superiori: il pioniere non riteneva indiani e ‘negri’ appartenenti, come lui, al genere umano ma, se li incontrava al di là del Rio Grande, gli erano del tutto indifferenti. Se gli Israeliani invadessero il Libano non chiederebbero certo alla polizia e alle amministrazioni comunali l’elenco dei palestinesi per deportarli a Gaza e ivi seppellirli sotto i bombardamenti. Al contrario, quando i nazisti invasero la Polonia e si insediarono nelle due France, quella occupata e quella di Vichy, non riconobbero nessuna autorità allo stato nazionale: per loro, funzionari del Genere Umano (Ariano, s’intende), passaporti e cittadinanza erano irrilevanti e pertanto delle deportazioni nei Lager non dovevano render conto a nessun governo amico, alleato, nemico che fosse.

È questo che sconvolge in episodi tragici come il rastrellamento del ghetto di Roma: il fatto che le SS non si limitano ad allontanare gli ‘indesiderabili’, a costringerli a emigrare altrove ma che lo facciano in nome di un’Autorità Mondiale che impone lo sterminio delle razze impure.

La ‘pulizia etnica’ sicuramente si lega a pregiudizi e a gerarchie razziali ma, a motivare il ‘genocidio’ è il fatto che gli ebrei non  erano considerati esseri inferiori come gli slavi o come i cani bastardi rispetto ai cani di razza: erano pantegane che apportavano la peste e minacciavano di distruggere l’umanità. Di qui la missione di liberarne il mondo, ispirata a un’ideologia –universalistica appunto – che non riconosceva  frontiere e stati nazionali.

 È un fatto nuovo e terrificante, che spiega perché gli ebrei non si sentano minoranze perseguitate come le altre. L’antisemitismo, non lo si ribadirà mai abbastanza,  è un unicum nella storia, giacché non si limita a colpire una razza o una religione, con cui non si vogliono avere rapporti di alcun genere – v. l’odio per africani, asiatici, islamici: ‘se ne tornino a casa’, ‘non li vogliamo in mezzo a noi’, ‘non sono ospiti graditi’ – ma vuole tagliare per sempre un ramo della pianta uomo Questo spiega l’attaccamento degli ebrei israeliani alla Terra promessa  e la spietatezza nella guerra contro chi vorrebbe condannarli a una nuova diaspora.

 Occorre considerare che la diaspora nell’800 non faceva aderire tutti gli ebrei al progetto di un focolare nazionale in cui vivere finalmente al riparo dai pogrom. Nelle società più evolute dell’Occidente – e soprattutto in quelle anglosassoni – i figli di Israele avevano trovato possibilità concrete di elevarsi socialmente, di porsi alla guida di banche e di imprese industriali, di tenere cattedre universitarie, di dirigere giornali e case editrici. Molti si erano integrati a tal punto da aver quasi dimenticato le loro origini ebraiche – penso a sociologi come Raymond Aron, a storici come Marc Bloch – sicché il ritorno alla terra degli avi non era in cima ai loro pensieri. Fu la terribile esperienza dei Lager a riattualizzare drammaticamente il tema dell’Aliyá, del Ritorno.

Va detto che neppure i palestinesi pensano al genocidio del popolo ebraico: anch’essi, come i loro nemici mortali, vogliono la ‘pulizia etnica’ ovvero ributtare in mare gli intrusi israeliani. La situazione in Terra Santa è drammatica, per non dire tragica, ma tirare in ballo il genocidio non aiuta né a risolverla né a fare chiarezza.




Se gli intellettuali remano contro

Il nostro paese, in anni come questi di grande incertezza e di ‘perdita del centro’—non solo a livello internazionale—è sempre più caratterizzato da una forte delegittimazione degli avversari politici visti come pericoli per la democrazia. All’origine del mancato riconoscimento (e rispetto) reciproco dei protagonisti della politica italiana sta, a mio avviso, un debole senso dell’identità nazionale. Dove il patriottismo è forte e istintivo, le opposizioni cercano di conquistare il centro (ci si identifica, infatti,  con il ‘punto medio’ che riflette il modo di sentire della nazione). Dove il patriottismo è molto debole, la, battaglia di civiltà contro la barbarie. Il nesso nazione/ democrazia non è stato quasi mai al centro delle riflessioni degli studiosi della democrazia ma è di fondamentale importanza. In Italia, si può dire, non c’è scienziato politico al quale venga  in mente che tra i prerequisiti funzionali della democrazia liberale c’è una comunità che ne garantisce il buon funzionamento :a farlo rilevare si rischia essere etichettati a destra, una qualifica che si ritiene offensiva (chissà perché). Il richiamo alla comunità non si colloca sul piano destra/sinistra – che è il piano dei progetti politici, delle forme di governo, delle istituzioni – ma su quello del terreno storico su cui si erigono quelle istituzioni e quelle forme di governo. Gli intellettuali, che molto possono per creare un sentimento di comune identità e appartenenza, invece di assumersi il ruolo dei pompieri, che cercano di spegnere le fiamme delle passioni politiche, sembrano aver scelto la parte degli incendiari, fornitori di droghe ideologiche alle classi politiche. Da giovane restavo colpito dal realismo e dal buon senso di certi funzionari del PCI così lontani dal fanatismo e dalla cecità degli intellettuali ‘impegnati’, miei colleghi delle Facoltà umanistiche. Nulla è mutato da allora, a riconferma della estraneità della cultura politica italiana allo spirito del pluralismo. Pluralismo significa ritenere chi è in disaccordo con noi non un reprobo bensì un ‘compatriota’ che persegue il bene comune con strategie forse sbagliate ma che non per questo sono farina del diavolo.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche. Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Pubblicato su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 9 settembre 2025]




Strabismo umanitario – Bambini di serie A e di serie B

Un marziano che fosse atterrato in Europa nel 2022, e per tre anni avesse seguito le vicende belliche della Terra solo dai giornali e dalle tv, oggi avrebbe maturato alcune curiose convinzioni.

Primo, nel mondo ci sono 2 guerre, una in Ucraina, l’altra a Gaza. Secondo, l’aggressione di Israele contro i palestinesi è molto più grave di quella di Putin verso gli ucraini. Terzo, la Palestina è popolata da bambini, l’Ucraina da adulti.

La prima convinzione è falsa, i conflitti sanguinosi in corso sono decine (fra 50 e 100 a seconda delle definizioni e delle fonti). Sulla seconda convinzione (gravità delle due aggressioni) sospendo il giudizio, perché è una questione di punti di vista politico-ideologici. Quanto alla terza convinzione, è quantomeno esagerata: i bambini (minori sotto i 6 anni) ci sono da entrambe le parti, anche se a Gaza rappresentano una quota maggiore della popolazione (circa il 18% contro il 6% dell’Ucraina). In termini assoluti i bambini sotto le bombe sono tra 300 e 400 mila a Gaza, circa 2.2 milioni (cioè sette volte di più) in Ucraina.

Da che cosa possano essere state generate queste convinzioni è evidente: i media sono sensibili agli umori dell’opinione pubblica, e l’opinione pubblica è indignata per lo sterminio in corso a Gaza. In questa indignazione, tuttavia, c’è qualcosa che non torna. La maggior parte delle persone che si dicono indignate affermano di esserlo innanzitutto per ragioni umanitarie, ossia al di là di ogni ideologia e convinzione politica: quel che Israele sta facendo è intollerabile, e va assolutamente fermato. Chi non si indigna, non firma appelli, non scende in piazza è complice. Di qui l’invito alla mobilitazione generale per salvare i bambini di Gaza.

Ed ecco quel che non torna: se le ragioni della protesta sono puramente umanitarie, ovvero scevre da scelte ideologiche e preconcetti politici, allora ci aspetteremmo che l’indignazione non fosse concentrata su un unico conflitto. Che qualche voce si levasse a difesa dei bambini non dico in tutti, ma quantomeno nei teatri di guerra più drammatici.

Se davvero la preoccupazione è per il destino dei bambini, come mai i bambini ucraini uccisi dai russi non suscitano la medesima indignazione dei bambini palestinesi uccisi dagli israeliani? Come mai del dramma dei 20 mila bambini ucraini rapiti e deportati dai russi parla quasi esclusivamente la Chiesa cattolica?

Ma soprattutto: perché mai delle migliaia di bambini uccisi, violati, affamati, malati nell’inferno del Sudan (guerra civile + epidemia di colera) non parla quasi nessuno? E dei massacri che da 4 anni si susseguono in Myanmar? Più di 50 mila morti e 3 milioni di sfollati sono ancora troppo pochi per suscitare un cenno di attenzione nel mondo civile?

Eppure non stiamo parlando di qualche conflitto minore, di qualche guerra locale fra tribù: stiamo parlando di drammi che, per le loro dimensioni, eguagliano e spesso superano il dramma di Gaza.

Dunque torniamo alla domanda: perché solo determinati bambini infiammano gli animi? Perché ci sono bambini di serie A (Gaza), di serie B (Ucraina), di serie C (tutti gli altri)?

Credo che la risposta sia: perché l’indignazione si presenta con le vesti del senso di umanità, ma con l’umanità ha ben poco a che fare. La vera base dell’indignazione a senso unico è l’ideologia, che induce a usare le tragedie del mondo non per cambiarlo in meglio, ma per promuovere la causa politica di cui si è prigionieri (in questo caso l’antiamericanismo e l’antioccidentalismo). Per questo scopo i bambini palestinesi sono perfetti, quelli degli altri teatri di guerra no, o molto di meno.

Ma come si fa – qualcuno potrebbe obiettare – a occuparsi di tutto? Non è naturale seguire le questioni più vicine e trascurare i drammi lontani?

Ebbene, questa è una scusa che non regge. Perché ci sono i contro-esempi, che dimostrano che non è ineluttabile essere faziosi e provinciali. Se si prova a dare uno sguardo ai grandi conflitti e alle catastrofi umanitarie che scuotono il mondo, non è difficile scoprire che, in molte delle realtà snobbate dai nostri media e dagli indignati anti-israeliani, prestano la loro opera coraggiose organizzazioni internazionali (spesso non governative), queste sì davvero umanitarie – cioè universalistiche – come Medici senza frontiere, Emergency, Amnesty International, Unicef, solo per ricordarne alcune. Manifestare e firmare appelli è troppo comodo. Chi ha davvero a cuore la sorte dei bambini e i loro diritti farebbe meglio a dare un sostegno concreto a chi è pronto a operare in qualsiasi teatro di guerra, senza farsi accecare dall’ideologia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 settembre 2025]




Parole in (troppa) libertà – La lezione di Simone Weil

È giusto, per amore di una buona causa (o di una causa che si ritiene buona), deformare sistematicamente la realtà?

Non è la prima volta che me lo chiedo, ma mai come negli ultimi anni mi è parsa una domanda pertinente. Certo, molto dipende dalle categorie di persone cui ci rivolgiamo. Nei confronti dei politici la domanda è fuori luogo: deformare la realtà per sostenere la propria causa fa parte dei ferri del mestiere. Nessuno, realisticamente, si sognerebbe di pretendere che un politico rinunci a quei ferri, tutt’al più si auspica che non ne abusi.

All’estremo opposto della scala si situano gli scienziati: da loro si esige che non deformino la realtà, perché è precisamente quello il loro mestiere: se l’ingegnere deforma la realtà il ponte crolla, ma se a deformare è il sociologo o lo psicologo? Qui le cose cominciano a complicarsi, perché non ci sono ponti che crollano, o computer che non funzionano, ma solo discussioni infinite fra addetti ai lavori, nessuno dei quali è abbastanza autorevole da squalificare chi deforma sistematicamente la realtà. E purtroppo molti cosiddetti scienziati sociali non si accontentano di studiare (e spiegare) come la realtà funziona, ma sono inclini a ritoccarne più o meno pesantemente la rappresentazione, nella presunzione che così facendo possano facilitare la causa in cui credono. Tipico esempio: gonfiare le cifre dei mali che si vogliono combattere, nella speranza di “sensibilizzare” pubblico e istituzioni (e magari attrarre finanziamenti).

Il caso più imbarazzante, però, è quello del mondo dell’informazione. Qui la pretesa di parlare della realtà (tipica degli studiosi) troppo spesso si combina con la più o meno dichiarata fede in una causa, una visione del mondo, una missione (come è tipico dei politici e dei predicatori). Così è sempre stato, ma non ricordo un periodo in cui questa attitudine – parlare della realtà deformandola a sostegno di una causa (spesso nobile) – sia stata pervasiva come in questi tempi. Oggi si ascoltano quasi soltanto discorsi enfatici e schierati, in cui non solo è assente qualsiasi dubbio, non solo si stabiliscono nessi di causa-effetto arbitrari, ma la stessa descrizione dei fatti è guidata dall’ideologia, o più genericamente dall’obiettivo, di rafforzare una causa che si ritiene sacrosanta.

Obnubilati dalle nostre passioni politiche, non siamo nemmeno più capaci di usare le parole appropriate per descrivere le cose. Il segno forse più inequivocabile di questa degradazione delle nostre capacità linguistiche è l’abuso dell’iperbole. Che certo talora è relativamente innocuo, come nell’impiego dell’espressione “senza precedenti” per qualsiasi cosa che sembri un po’ nuova, o dell’aggettivo “esponenziale” per dire che un fenomeno cresce rapidamente (mentre in matematica significa tutt’altro). Ma in altri casi l’abuso delle parole è un grave attentato alla verità, che ci impedisce di dare una descrizione fedele della realtà, presupposto indispensabile per cambiarla.

L’esempio più clamoroso (e attuale) di questo intorbidamento della lingua è l’uso del sostantivo ‘genocidio’ per descrivere i crimini di guerra di Israele. Basta leggere attentamente e per intero la definizione ONU del 1948 per accorgersi che, nel caso della guerra a Gaza, mancano i presupposti. La definizione ONU, infatti, richiede che siano presenti due elementi, entrambi indispensabili per integrare il crimine di genocidio: un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e la volontà di distruggerlo “in quanto tale”. Nel caso della guerra in corso a Gaza i due elementi sussistono ma in forma scissa, ossia con due diversi referenti. Israele ha sì l’intenzione di distruggere in toto Hamas, ma Hamas non è un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. I Palestinesi, d’altro canto, sono effettivamente un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, ma verso di esso manca “l’intenzione di distruggerlo in quanto tale”.

Ma ci sono anche altri abusi linguistici. Ad esempio l’impiego di termini come patriarcato (anche quando c’è solo maschilismo), mattanza (per il fenomeno dei femminicidi), o deportazione (per le espulsioni di stranieri autori di crimini, o presenti illegalmente in un paese).

In tutti questi casi lo scopo è chiaro: enfatizzare, drammatizzare, amplificare un fenomeno che consideriamo negativo, senza alcuna preoccupazione di analizzarlo, descriverlo, comprenderne la genesi. Eppure, dovremmo aver imparato la lezione di Simone Weil, che ammoniva: “là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero”.

E dove c’è un grave errore di pensiero si rischia di non vedere una parte importante della realtà, e quindi di non riuscire a cambiarla davvero. Credere o far credere che il governo di Israele voglia davvero lo sterminio dei Palestinesi in quanto gruppo etnico non aiuta certo a individuare le vere (e gravi) responsabilità di Israele, e meno che mai a fare passi avanti nella costruzione di uno Stato palestinese. Vedere ovunque in Europa e in America progetti di deportazione anziché piani di rimpatrio dei migranti irregolari conduce a una totale incomprensione dei movimenti di destra, e verosimilmente a una iper-radicalizzazione del conflitto politico, da cui difficilmente potranno trarre giovamento i migranti. Per non parlare dell’equivoco del patriarcato, un concetto cui si ricorre quasi sempre a sproposito, ignorando il suo esatto significato in campo sociologico e antropologico: patriarcato significa potere del capofamiglia sui matrimoni dei figli, sottomissione o segregazione dei membri femminili della famiglia, diritto successorio patrilineare (privilegi del primogenito). Tutte cose che in Italia sussistono sì, ma quasi esclusivamente nelle enclave arcaiche (tipicamente islamiche), dove le figlie vivono sorvegliate, non sono libere di vestire all’occidentale né di scegliere con chi fidanzarsi e sposarsi. Smettere di parlare di patriarcato quando non c’è, aiuterebbe a riconoscerlo – e combatterlo – dove c’è davvero. La tragica storia di Saman Abbas, uccisa dai familiari perché voleva vivere con il fidanzato, non ci ha insegnato niente?

[articolo uscito sul Messaggero il 6 settembre 2025]