A proposito di un intervento di Baricco – Meglio il XXI secolo?
Il secolo che stiamo vivendo è migliore di quello che ci siamo lascati alle spalle?
Sembra incredibile, ma è proprio questa la pensosa domanda che, nei giorni della pace di Trump, ha sollevato un articolo di Alessandro Baricco uscito sulla piattaforma Substack. Lui tende a rispondere: sì, almeno nelle intenzioni, perché i ragazzi che agitano la bandiera della Palestina hanno voluto prendere congedo dagli orrori del Novecento, un secolo morente ma pericoloso proprio perché morente.
Altri, come Michele Serra, esitano invece a liquidare il Novecento, un secolo che ci ha inflitto due guerre mondiali ma ci ha anche regalato – nella sua seconda metà – cose bellissime come: multilateralismo, collaborazione internazionale, Unione Europea, femminismo, pacifismo, liberazione sessuale, il “piglio antigerarchico delle nuove generazioni”, e “volendo anche la conquista dello spazio per mano di americani e russi”. Ovviamente è stato facilissimo ricordare a Serra gli orrori e i crimini della seconda metà del Novecento, a partire dalle decine di milioni di morti dei regimi comunisti in Unione Sovietica, Cina, Cambogia.
In realtà la questione è irrisolvibile non solo perché ognuno può scegliere a proprio piacimento il menù con cui preferisce descrivere un determinato secolo, ma perché – alla fine – la diagnosi dipende soprattutto dai fantasmi di chi ne discute. C’è chi, come Serra, non sa rinunciare all’idea che i progressisti siano stati capaci di migliorare il mondo, e c’è chi, come Baricco almeno dal tempo de I barbari (un libro del 2006), sembra ossessionato dal timore di apparire poco al passo con i tempi o, peggio, di finire nella schiera dei nostalgici, che rimpiangono il bel tempo antico. Di qui il sapore di panglossismo, di benevola fiducia nel presente e nelle virtù nascoste delle nuove generazioni, che emana da tanti suoi scritti.
Il fatto che, così posta, la questione del confronto fra i due secoli non sia dirimibile, non significa però che ogni confronto sia impossibile. Tutto sta a scegliere un terreno non troppo friabile e, soprattutto, non troppo condizionato dai giudizi di valore. Ma esiste un simile terreno?
Sì, un terreno che dovrebbe mettere d’accordo tutti è quello dell’evoluzione della violenza, sia collettiva (guerra) sia individuale (omicidi). Si può dire che la violenza, pur tuttora presente nel mondo, è in diminuzione nel nuovo secolo?
Purtroppo i dati al riguardo sono controversi e raramente raccolti in modo sistematico. Tuttavia almeno due tendenze sembrano abbastanza chiare. Per quanto riguarda le guerre (fra stati e interne), la tendenza alla diminuzione del numero delle vittime (civili e militari) che si osservava negli ultimi decenni del Novecento pare essersi invertita da tempo, e non solo in concomitanza o a causa dei conflitti armati più recenti (Ucraina Gaza, Sudan, Myanmar). E pensando a quanti e quanto sanguinosi eccidi si verificano da anni in ogni angolo del pianeta, fa riflettere quanta poca attenzione vi abbiano riservato le generazioni ultra-sensibili al dramma di Gaza. Chi vede un salto di sensibilità etica nelle nuove generazioni, forse dovrebbe domandarsi quanto tale salto sia dovuto a una nuova coscienza civile e quanto sia invece il risultato di una completa dipendenza dai media e dalla rete, letteralmente intasati dal dramma palestinese ma sostanzialmente insensibili alla maggior parte degli altri.
Per quanto riguarda la violenza individuale forse dovremmo rivedere l’entusiastica diagnosi di Steven Pinker, che nel suo libro Il declino della violenza (del 2011) annunciava che la nostra è l’epoca più pacifica delle storia, e che l’umanità non è mai stata così sicura come oggi. Sul fatto che oggi si uccida fra 50 e 100 volte di meno che nel tardo Medioevo sussistono pochi dubbi, ma i dati più recenti mostrano che nel nuovo secolo il trend di diminuzione degli omicidi si è interrotto, specie nelle società avanzate. Fra queste ultime sono molto più numerose quelle in cui il numero di vittime di omicidio aumenta che quelle in cui diminuisce: un segnale preoccupante, che va contro il senso comune progressista.
[articolo uscito sulla Ragione il 14 ottobre 2025]