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Follemente corretto (15) – C’è cane e cane

7 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

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Non so se avesse ragione Umberto Eco a parlare di Ur-Fascismo, o Fascismo eterno. Probabilmente gli era un po’ scappata la mano: dei 14 tratti del fascismo individuati da Eco, 10 non sono più rintracciabili in Italia, e 4 non sono specifici del fascismo. Però sul fatto che il tema del fascismo sia sempreverde, in libreria come sui quotidiani come su internet, non ci sono dubbi. Se non vi fosse questo permanente interesse-curiosità-ossessione degli italiani, non uscirebbero a getto continuo libri su Mussolini e sul Ventennio.

Ossessione degli italiani?

Non esattamente. Ho scoperto di recente, girando sul web, che nel dibattito sono coinvolti anche i cani. E da un bel po’ di anni. Ci sono innumerevoli video di cani che, all’ordine “saluta il Duce”, fanno il saluto romano con la loro zampa destra. Ogni video ha decine di migliaia di visualizzazioni (mai come i cani nazisti, che nel Regno Unito e in Germania pare arrivino anche a 2-3 milioni di visualizzazioni).

Ma non basta. Il cane fascista, da anni, turba i pensieri della sinistra, dei sinceri democratici, dei partigiani, dell’antifascismo tutto. Già nel 2016, ad Albenga, un pastore tedesco antidroga, che doveva essere acquistato dalla Polizia Locale, ha incontrato la fiera opposizione del sindaco Pd della città, della Cgil, e persino delle associazioni dei partigiani. Il motivo: il cane, anzi la cagna, pastore tedesco di 9 mesi, ha la ventura di chiamarsi Olimpia Decima Mas.

Due anni dopo, nel 2018, la medesima fiera opposizione, con tanto di interrogazioni in consiglio comunale, ha incontrato a Monza un altro cane, il cui nome era Narco della Decima Mas. La parola Decima Mas è stata sufficiente a far scattare il riflesso pavloviano antifascista. Se un cane si chiama Decima Mas, non può che essere stato allevato nella venerazione della decima Flottiglia Mas (l’unità della Marina Italiana che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, fece parte del corpo militare della Repubblica di Salò e collaborò attivamente con le forze armate tedesche in Italia settentrionale).

Si scoprirà poi che molti cani poliziotto in dotazione a vigili e forze dell’ordine hanno quel cognome (Decima Mas) semplicemente perché Decima Mas è il nome di uno dei migliori allevamenti per l’addestramento dei cani, e il nome dell’allevamento viene automaticamente incluso – come una sorta di cognome – nel pedigree di ogni cane poliziotto.

Ma qual è l’origine del nome dell’allevamento? Lo spiega il titolare dell’allevamento stesso, situato ad Agugliano, in provincia di Ancona: “Tanti anni fa quando ha preso vita questa struttura inviai all’Enci (Ente Nazionale Cinofilia Italiana) tre possibili nomi: di Vallechiara, di Chiaravalle e Decima Mas. I primi due vennero esclusi perché simili ad altri e mi diedero l’ok sull’ultimo. Tutto qui”.

E mestamente aggiunge: “non capisco come si possa far polemica su degli animali che sono addestrati anche per salvare vite, per scavare tra le macerie causate da terremoti e calamità naturali e che sono spesso utilizzati per combattere lo spaccio di stupefacenti”.

Non sappiamo con sicurezza perché, fra i tre nomi, vi fosse anche Decima Mas, pare perché un lontano parente ne aveva fatto parte. Ma è rilevante? Se anche il titolare, che si dichiara apolitico, fosse nostalgico della Repubblica Di Salò, questo renderebbe fascisti i suoi cani? Dunque anche i cani, in questo strano paese, si dividono in fascisti e anti-fascisti?

Pare di sì, se basta un nome – anzi un cognome – a mobilitare il Pd, la Cgil, i partigiani. Lo sanno bene i videomaker che mettono su youtube i loro video beffardi, con cagnolini addestrati ad alzare la zampa destra al comando “saluta il Duce”. Come Andrea V., più di 12 mila visualizzazioni, che spera di evitare guai specificando: “il video è solo a scopo ludico e non ha finalità politiche”.

Salvo aggiungere, quasi a rassicurare sé stesso: “il cane credo non sia veramente fascista”.

Follemente corretto (14) – Guai ai normali

26 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

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C’è stato un tempo in cui la gente non era malata di suscettibilità. In quel tempo le parole non erano radioattive. Dicevi invalido, magari per cedergli il posto sul tram, e nessuno aveva niente da ridire. Dicevi infermo, menomato, storpio, e nessuno pensava che tu volessi offendere. Ora non più. Oggi innumerevoli legislatori del linguaggio, spesso in disaccordo fra loro, ci spiegano quali termini usare per parlare con rispetto di chi ha qualche inconveniente fisico o mentale più o meno grave e più o meno permanente. La lista delle parole proibite si allunga ogni giorno, rendendo via via obsoleti gli eufemismi che in un tempo precedente erano apparsi accettabili. Sotto la tagliola cadono parole come handicappato, portatore di handicap, disabile, affetto da disabilità, diversamente abile. Per alcuni, persino invalido non va bene, e l’unico termine accettabile è “persona con disabilità”.

Fin qui tutto chiaro. Lo sappiamo, o meglio lo sanno quelli che lavorano con le parole, o hanno tempo per queste cose. Meno nota è l’altra faccia della medaglia: anche la parola ‘normale’ è fuori legge. Non puoi dire che una persona è normale, perché – così facendo – sottintendi che esistano delle persone anormali, che potrebbero offendersi. E l’interdetto si estende alle cose: anche “shampoo per capelli normali” sarebbe potenzialmente offensivo (per chi compra uno shampoo speciale), quindi da evitare.

Il discredito per chi è normale, in realtà, viene da lontano. Risale agli anni ’60 e ’70, quando fra i contestatori e fra gli intellettuali più impegnati si diffuse l’idea, alquanto romantica, che la devianza – dai matti agli hippy, dai detenuti ai capelloni – altro non fosse che ribellione alle regole del sistema, ben rappresentato dalle istituzioni totali e dalle persone “normali”, pronte a stigmatizzare come devianza ogni allontanamento dalle regole imposte dalla classe dominante.

Oggi lo stigma funziona a rovescio. A essere stigmatizzato è l’uso della parola normale e dei suoi sinonimi per significare che qualcuno è privo di disabilità.

  • normali non si può usare “perché implica che gli altri sono anormali”
  • normodotati non si può usare “perché implica che gli altri sono ipodotati” (chissà mai perché ipodotati, e non iperdotati)
  • abili non si può usare “perché implica che gli altri sono inabili”.

E allora, che facciamo?

Un consiglio è di scrivere la parola normodotati fra virgolette, o palare di cosiddetti “normodotati”, allo scopo di “evidenziare che la parola è semanticamente scorretta”.

Ma questa soluzione non è completamente soddisfacente. Meglio usare l’espressione temporaneamente “normodotati”, “per ricordare che una disabilità non è mai congenita ma è conseguente a una malformazione, una malattia o un infortunio”.

Abbiamo capito bene?

Se sei normale, nel senso che sei privo di disabilità, devi definirti temporaneamente“normodotato” perché una disgrazia potrebbe capitare anche a te?

Pare di sì. Ma niente paura, se siete superstiziosi potete fare gli scongiuri, se invece siete solo istruiti potete dire “sono normale” in  inglese: I am TAB (Temporarily Able-Bodied), sono temporaneamente equipaggiato con un corpo abile.

Che fa fine e non offende nessuno.

 

Follemente corretto (13) – Parentesi e intimidazioni

24 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

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La parola ‘donna’ sta diventando incandescente. Se la usi, rischi di bruciarti. Specie se sei una donna. Ne sa qualcosa Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter, che nel 2020 si beccò ogni sorta di improperio (a partire da TERF: Trans Exclusionary Radical Feminist) per aver ironizzato sull’espressione “persone che hanno le mestruazioni”, usata per non pronunciare la parola ‘donna’, che agli occhi degli attivisti trans sarebbe escludente.

Da allora, l’uso della parola donna è diventato sempre più controverso: una parte del mondo femminista lo rivendica, ed esige che la parola sia riservata a chi è biologicamente di sesso femminile (e tale rimane), mentre una parte del mondo LGBT+ lo contesta, e pretende che si usino espressioni – come persona con le mestruazioni – che possono riferirsi anche a transessuali FtM (da femmina a maschio), che non si riconoscono come donne.

Ma non basta. Ultimamente, il termine donna è diventato controverso anche perché una parte del mondo LGBT+ contesta il cosiddetto binarismo, ossia la distinzione stessa fra maschi e femmine. Secondo questo modo di vedere, può risultare impossibile riconoscersi univocamente in uno dei due generi, e comunque gli “stati di genere” possibili, ossia i modi di autopercepirsi, sarebbero infiniti e cangianti nel tempo. Di qui la continua ricerca, nella pubblicità, sui media, nelle grandi corporation, di formulazioni inclusive, capaci di venire incontro alle suscettibilità di chiunque (salvo irritare chi non avesse speciali suscettibilità).

Poca attenzione, finora, è stata rivolta alle conseguenze che questa ossessiva vigilanza sugli usi della parola donna produce sulla qualità della scrittura delle donne stesse. Terrorizzate dalle guardie rosse della lingua corretta, timorose di incorrere in anatemi e scomuniche come quelle che hanno colpito la più celebre Rowling, molte giornaliste, studiose e scrittrici stanno perdendo la capacità di esporre limpidamente il loro pensiero.

Ed ecco che, in un articolo che parla d’altro, ci si sente in dovere di spiegare perché non si usa la schwa, che pure sarebbe una cosa bellissima e giustissima. Oppure ci si scusa di usare la parola donne, e si perde tempo con penose parentesi giustificatorie, piene di banalità.

Esempi?

Se ne potrebbero fare diversi, ma ne basta uno a illustrare il meccanismo.

Ecco tre parentesi, tutte inserite nel medesimo articolo di giornale, firmato da una nota studiosa di filosofia:

Vorrei tanto che le donne della mia generazione (anche se dire “le donne” non mi piace, è un’espressione che non ha senso, non esiste alcuna entità omogenea capace di riassumere le mille sfumature dell’esistenza femminile) bla-bla…

E se le donne (sebbene ritenga opportuno finirla con quest’opposizione binaria fra gli uomini e le donne) bla-bla…

Noi donne (anche se la genericità del temine non mi piace) bla bla…

Che cosa aggiungono le parentesi? La spaventosa banalità secondo cui qualsiasi termine generale – non solo le donne, ma anche gli uomini, i giovani, gli operai – non può che riferirsi a uno spettro di condizioni molto diverse? Qualcuno non lo sapeva già? E poi, perché ripetere tre volte che sì, uso l’espressione ‘le donne’, ma in realtà non la vorrei usare proprio?

La ragione è semplice. Si chiama “mettere le mani avanti”. Proteggersi dal rischio che una esponente del mondo LGBT+, ancora più follemente corretta dell’autrice dell’articolo, possa chiamarla sul banco degli imputati, chiedendole conto dell’uso troppo disinvolto della parola donne. Dietro le inutili parentesi ci sono due cose soltanto: il potere intimidatorio dei guardiani della lingua, la mancanza di libertà di chi scrive.

Ironia della sorte: il titolo dell’articolo è “meglio donne libere che donne di potere”.

Follemente corretto (12) – Scienza e confusamente corretto

19 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

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Fino a qualche anno fa i molestatori del linguaggio naturale avevano le idee abbastanza chiare: certe parole non si possono usare, sono offensive, vanno sostituite con parole più neutre, meno contundenti. Al posto di cieco, sordo, negro, bidello, donna di servizio, bisogna dire non vedente, non udente, nero, collaboratore scolastico, colf.

Oggi le cose stanno cambiando. Il dubbio comincia a serpeggiare, e i riformatori del linguaggio si dividono in diverse scuole di pensiero. Alcuni mantengono i vecchi consigli, e si limitano a discettare su quale sia l’eufemismo migliore. Handicappato, portatore di handicap, disabile, diversamente abile? Non vedente o ipovedente?

Altri invece rifiutano gli eufemismi, e propongono una sorta di ritorno alle origini: anziché dire non vedente, espressione che sottolinea una mancanza, diciamo cieco, perché essere ciechi è una caratteristica della persona, non una privazione di qualcosa. Anziché dire non udente, torniamo a dire sordo.

Altri, salomonicamente, dicono che non c’è una regola, e che bisogna chiedere ai diretti interessati come preferiscono essere chiamati (come se questo non fosse già uno stigma).

Ma il massimo della confusione si è raggiunto con la parola grasso. Per anni i paladini del linguaggio corretto si sono impegnati nella caccia agli eufemismi, soprattutto per designare le donne grasse. Come parlare di una donna grassa? C’è un modo simpatico, cortese, gentile di dire che una persona è sovrappeso? Cicciottella è offensivo? E formosa, tonda, morbida sono accettabili?

Poi è successo qualcosa. Anziché invitare a non usare la parola grasso (in inglese: fat) si è cominciato a suggerire di usarla, quella benedetta parola, ma a farlo in una accezione puramente descrittiva, come accade quando di una persona diciamo che è alta, bionda o ha lentiggini. Qualcuno ha dottamente parlato di di “risemantizzazione”: dobbiamo correggere la connotazione (negativa) della parola ‘grasso’, e imparare a usarla in modo neutro, come la parola ‘magro’. Un po’ come era successo con la parola ‘cieco’, prima squalificata e poi riabilitata.

Tutto finito, dunque?

Neanche per sogno. Specie in America, si è andati ben oltre. Sono nati (o meglio hanno ricevuto nuovo impulso) movimenti che si battono per l’accettazione della grassezza (fat acceptance movement), o ne esaltano la bellezza (fat is beautyful movement), o la promuovono a caratteristica di cui essere fieri (fat pride movement).

Ma a differenza di quanto accaduto con parole come cieco e sordo, la campagna per la rivalutazione della parola grasso è ricorsa all’aiuto della scienza medica. Secondo alcune ricerche, esistono forti indizi che l’essere  al di sopra del presunto “peso giusto” (calcolato in funzione dell’altezza, secondo il BMI: Body Mass Index) non solo non sia dannoso alla salute, ma possa avere un valore protettivo verso alcune malattie, comprese quelle di natura cardiaca. Insomma: meglio essere grassi che normopeso. Questo risultato, denominato “paradosso dell’obeso”, da alcuni anni sta diventando il cavallo di battaglia dei movimenti per la difesa dei grassi, e – nella misura in cui gli esperti sono divisi sulla sua solidità – sta mettendo in seria difficoltà medici, nutrizionisti, nonché l’enorme business delle cure dimagranti.

Così la lotta per il governo della lingua si arricchisce di un capitolo nuovo: per alcuni si deve sostituire la parola grasso con un eufemismo, per altri dobbiamo imparare a dire grasso con rispetto, per altri la grassezza va lodata e incoraggiata, non solo nelle parole, ma anche nei fatti. Grazie ai dubbi della scienza, il follemente corretto sta trapassando in confusamente corretto.

Come direbbe il Presidente Mao, “grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.

Follemente corretto (11) – Grassofobia

17 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

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Sono in molti, non solo a destra, a ritenere che il Ddl Zan, naufragato al Senato nel 2021 per le rigidità del Pd di Letta, fosse non solo pericoloso per la libertà di opinione, ma anche mal impostato filosoficamente, logicamente.

Sul piano filosofico, è stato notato che la legge non aggiunge alcun nuovo diritto per le minoranze, e che appare inquietante – oltreché vagamente medioevale – usare la legge penale per reprimere o indirizzare i sentimenti, quali che essi siano. In questo senso si sono pronunciati, ad esempio, due uomini di sinistra come Piero Sansonetti (direttore del “Riformista”) e Tommaso Cerno, quando era ancora parlamentare del Pd.

Sul piano logico e (terminologico), è stato osservato che, se pure si vuole instaurare la pratica aberrante di usare il codice penale contro i sentimenti, può avere senso perseguire un sentimento aggressivo come l’odio, ma non certo la paura. Fobia in greco, e pure in italiano, significa paura, come nella parola agorafobia (paura della piazza, cioè della folla). Perseguire xenofobia, omofobia, transfobia, equivale a sostenere che la gente non ha diritto di manifestare sentimenti di paura verso determinate categorie di persone.

Meno attenzione ha ricevuto un altro limite del Ddl Zan, un limite che potremmo chiamare di natura concettuale. Come noto, l’operazione principale del Ddl Zan è di estendere il raggio di azione della legge Mancino (legge 205, 25 giugno 1993). Con la legge Mancino, le idee e le azioni discriminatorie punite con il carcere erano essenzialmente quelle basate su “motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali”. Con la legge Zan si proponeva di allungare l’elenco a cinque nuovi tipi di motivi, e precisamente quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

Stranamente, pochi hanno notato che questo allungamento del brodo delle fobie apriva una falla logico-concettuale irreparabile nella lotta all’odio e alle discriminazioni: la lista delle categorie e delle condizioni per le quali si può nutrire ostilità, esercitare discriminazioni, mettere in atto comportamenti bullistici è potenzialmente infinita. Oggi ci preoccupiamo di proteggere gay, trans o disabili, ma basta dare un’occhiata a quel che succede in una scuola per rendersi conto che la lista delle aspiranti vittime o minoranze da proteggere è aperta, e necessariamente destinata ad allungarsi. Vittime di atti più o meno espliciti di bullismo, sopraffazione, stigmatizzazione, emarginazione non sono solo le “minoranze sessuali”, religiose o etniche, ma non di rado possono divenirlo i secchioni, i timidi, i primi della classe, le schiappe, le brutte, i grassi.

Già, i grassi. L’ultima novità è la campagna contro una nuova presunta fobia: quella verso chi è obeso o in sovrappeso. Una campagna che, in tutti gli ambiti – dal mondo delle casalinghe, alle scuole, allo star system – stigmatizza gli atteggiamenti “grassofobici”. Dove per grassofobia si intende non solo il dileggio di chi è grasso, ma anche qualsiasi consiglio amichevole di adozione di uno stile alimentare volto a tenere sotto controllo il peso.

Contro il peccato di grassofobia, vengono brandite un nugolo di parole inglesi, sia positive, come body positivity, o fat acceptance (accettazione del grasso) sia negative, come weight bias e diet culture (la credenza che esista un peso ottimale, e che lo si debba inseguire con la dieta). Il tutto per proclamare il principio, molto controverso scientificamente, secondo cui si può essere in salute a qualsiasi peso (Haes, o health at every size), o meglio a qualsiasi livello del Bmi (body mass index), l’indice che stabilisce il peso ottimale per ogni statura.

A quanto pare, quando il Pd ripresenterà il Ddl Zan, dovrà inserire i grassi insieme ai disabili, ai gay e ai trans. In attesa che la prossima minoranza stigmatizzata denunci una nuova fobia, ed esiga l’allungamento della lista.

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