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A proposito di lotta ai femminicidi – Sul sessismo dei media

18 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Se si vuole combattere un fenomeno negativo, è più utile darne una descrizione esatta, o deformarlo in base alle proprie esigenze politico-narrative?

Come sociologo e analista dei dati la mia risposta è netta: meglio raccontare le cose in modo esatto, e quindi avalutativo. È questa, del resto, una delle lezioni della grande sociologia europea, da Max Weber (difensore della avalutatività) e di Norbert Elias (per il quale non si può capire la realtà se si è coinvolti politicamente).

Di questa lezione, purtroppo, buona parte dei media se ne fanno un baffo. I fenomeni che si deprecano e che si vuole (o si finge di volere) debellare sono sistematicamente deformati, qualche volta addirittura capovolti, a fini politici. Ne abbiamo avuto un esempio recente con i resoconti delle audizioni della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) sulla Legge finanziaria, resoconti che hanno messo in bocca alle due autorevoli istituzioni diagnosi e critiche che non erano mai state pronunciate. Ma l’esempio che più mi colpisce sono i titoli con cui viene presentato il fenomeno dei femminicidi. Faccio tre esempi, fra i tantissimi che potrei richiamare.

Primo esempio. Qualche settimana fa sul sito del Tgcom24 leggo il seguente titolo “non si ferma la violenza nei confronti del genere femminile: il numero delle vittime continua a salire”. Poi vado a leggere, e scopro che l’articolo spiega dettagliatamente come sia le uccisioni di donne in generale, sia le uccisioni di donne per mano del partner o dell’ex partner siano crollate fra il 2° e il 3° trimetre del 2025. In breve: la notizia è che le uccisioni di donne sono in netto calo, ma il titolo dell’articolo dice esattamente il contrario: “il numero delle vittime continua a salire”. Perché? Poiché non ho motivo di pensare che il titolista sia in malafede, non posso che concludere che il titolo drammatizzante sia dovuto a una combinazione di sciatteria (faccio il titolo senza leggere l’articolo) e di conformismo (mi hanno così tanto riempito la testa con l’aumento “esponenziale” dei femminicidi che non riesco a concepire che possano essere in diminuzione).

Secondo esempio. Qualche giorno fa sul quotidiano La Stampa, in una pagina volta a convincere i lettori dell’assoluta necessità di introdurre l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, viene riportata con grande evidenza una dichiarazione di una esponente del Pd che afferma: “Ciò che dovrebbe far paura è la mattanza di donne che vediamo quotidianamente”. Di nuovo: perché deformare il fenomeno con l’uso di una espressione ‘mattanza quotidiana’ che non lo descrive ma lo deforma? Il termine ‘mattanza’ rimanda alla fase finale della pesca del tonno, con centinaia di esemplari confinati e crudelmente uccisi. Potrebbe andar bene – forse – per descrivere eccidi che hanno come vittime decine o centinaia di donne, e che si ripetono giorno dopo giorno (come può accadere in una guerra). Ma nelle società come la nostra. Fortunatamente, le uccisioni di donne non sono di gruppo, e non sono quotidiane (in 2 giorni su 3 non viene uccisa alcuna donna).

Perché dunque usare un’espressione, “mattanza quotidiana”, del tutto inappropriata? Chi la usa teme che, se non lo facesse, la nostra indignazione di lettori non traboccherebbe con sufficiente impeto? Ci considera così poco umani, così poco intelligenti, da doverci educare con fiumi di retorica e indignazione?

Terzo esempio: le foto in prima pagina. Ma come è possibile che i quotidiani (e i siti internet) ritengano degni di attenzione, esecrazione, pensose riflessioni solo i casi in cui la vittima è giovane e carina?

La ragione – ci viene risposto – è che sono proprio le ragazze le principali vittime dei femminicidi. Ed è l’incapacità del giovane maschio ad accettare un rifiuto la causa delle uccisioni. Ecco perché dobbiamo introdurre l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole: per insegnare ai giovani virgulti a rispettare le decisioni delle loro partner.

Peccato che un quadro del genere, ripetuto ossessivamente da quasi tutti i principali media,

sia del tutto falso. La maggior parte dei femminicidi non riguarda ragazze, e nemmeno giovani donne. L’età media delle vittime si aggira sui 55 anni. Più di metà dei casi ha 50 o più anni. Molte sono sopra i 60 o sopra i 70. Però, di norma, non sono sufficientemente fotogeniche ed evocative per il lavoro dei media. Non permettono di raccontare la solita fiaba-horror stereotipata: lui era possessivo e immaturo, lei lo ha lasciato, lui non ha sopportato l’affronto.

Ancora una volta: a che pro deformare la realtà? Possibile che i media non abbiano alcun interesse a capire il fenomeno, posto che proclamano di volerlo combattere? Che cosa fa loro pensare che darne una rappresentazione parziale e gravemente deformata aiuti a sconfiggerlo? Che cosa li autorizza a trascurare le vittime mature o anziane? Come possono combattere sessismo e ageismo se sono le loro stesse pratiche a discriminare chi non è sufficientemente giovane e bella?

Eppure, se davvero vogliamo combattere contro le uccisioni di donne, dovremmo prima di tutto capire a fondo il fenomeno, anziché accontentarci di esecrarlo. Dovremmo, ad esempio, provare a rispondere a queste due domande:

1 – perché, in Europa, tutti i paesi che hanno introdotto l’educazione sessuale nelle scuole hanno più femminicidi dell’Italia, che invece non la ha ancora introdotta?

2 – perché, fra i paesi occidentali, l’Italia è quello con il numero di femminicidi per abitante più basso?

[articolo uscito sulla Ragione il 17 novembre 2025]

Dimenticare i problemi strutturali

17 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Per anni ho ritagliato gli articoli di giornale più interessanti in materia economico-sociale, distribuendoli in centinaia di cartelline a seconda del periodo e dell’argomento. Nei giorni scorsi, finalmente, mi sono deciso a fare pulizia: ho buttato quasi tutto. Non alla cieca, però: prima di buttare, ogni tanto davo una sbirciata. Così, per curiosità.

Ebbene, è stata un’esperienza sorprendente, e molto istruttiva. La cosa che più mi è saltata all’occhio è la differenza fra ciò di cui si parla oggi e ciò di cui si parlava 10, 15, 20 anni fa. La metterei così: allora il dibattito pubblico era governato da lunghe, lunghissime, insistenti discussioni sui grandi problemi strutturali dell’Italia e sui modi di affrontarli, oggi quasi tutto lo spazio è occupato da questioni contingenti e molto delimitate, nonché dalle opposte prese di posizione delle forze politiche.

Di che cosa si parlava allora?

Un elenco minimale include: spesa pubblica, spending review, sprechi, riforma federalista, pressione fiscale, debito pubblico, efficienza della giustizia, riforma della scuola, riforma dell’università, meritocrazia, spread, globalizzazione, crescita, produttività, mercato del lavoro, crisi del sistema pensionistico. Gli interventi su questi temi erano quotidiani, le posizioni contrastanti ma ben delineate. Oggi non è che non se ne parli mai, qualche articolo prima o poi compare, ma manca la convinzione condivisa che certi nodi siano ineludibili, e che sia urgente discuterne per fermare il declino dell’Italia.

Oggi a me pare che l’unico nodo strutturale in grado di attirare un’attenzione mediatico-politica costante sia quello del calo demografico: ci sposiamo di meno, facciamo meno figli, siamo preoccupati per le conseguenze economiche e sociali di questo “inverno demografico”.

Ma tutto il resto? Possibile che nessuna delle questioni che un tempo ci appassionavano (e su cui spesso ci dilaniavamo) sia ancora importante?

Per certe questioni la nostra attuale disattenzione è comprensibile. Nel caso del debito pubblico, ad esempio, è il buon andamento dello spread che ci induce a non vedere il problema. Nel caso del federalismo, sono stati 25 anni di chiacchiere impotenti che hanno fatto evaporare il tema (ma non il problema degli squilibri territoriali, da cui il sogno federalista aveva preso le mosse).

Per tutto il resto, però, la nostra disattenzione non è giustificata. Possiamo dire che la spesa pubblica è finalmente efficiente, o che la sanità nel Mezzogiorno ha prestazioni comparabili a quelle del Nord? Evidentemente no.

Possiamo dire che il merito è adeguatamente premiato, come prevede l’articolo 34 della Costituzione (“i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”)? Evidentemente no.

Possiamo dire di aver disboscato la selva di adempimenti, lacci e lacciuoli che frenano l’economia? Evidentemente no.

Possiamo dire che la giustizia civile è diventata più veloce, e quella penale commette meno errori? Evidentemente no.

Possiamo dire che la lotta all’evasione ha permesso di ridurre la pressione fiscale e abbassare le aliquote per chi paga le tasse? Evidentemente no.

Possiamo dire che, finalmente, la produttività è tornata a crescere, con benefici per le imprese (più investimenti) e per i lavoratori (più potere di acquisto)? Evidentemente no.

Possiamo dire che finalmente i nostri giovani si sono rimboccati le maniche, e non siamo più il paese dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano)? Ancora una volta, evidentemente no. Dove tutti i nostri “evidentemente” non rimandano a percezioni ma a dati statistici, che implacabilmente testimoniano il perdurare dei nostri maggiori problemi strutturali.

Ma, si potrebbe obiettare, negli ultimi cinque anni (con Draghi e Meloni) abbiamo avuto uno straordinario aumento dell’occupazione: circa 2 milioni di posti di lavoro in più. È vero, tuttavia il problema è che gli aumenti occupazionali non si sono accompagnati a incrementi del Pil abbastanza sostenuti da far crescere la produttività, che ha continuato a ristagnare come fa da circa un trentennio. Quanto agli aumenti occupazionali, sono dovuti più alla permanenza al lavoro di adulti e anziani che non all’immissione di nuove leve. Anzi, diversi indizi suggeriscono che, anche negli ultimi anni, si è rafforzata la tendenza di parti del sistema-Italia a vivere di rendita, o meglio e più precisamente, a “vivere senza lavorare”, come testimoniano tanti fenomeni apparentemente scollegati: lo sfruttamento intensivo delle abitazioni (esplosione degli Airbnb), le donazioni patrimoniali (un flusso annuo di denaro pari a 10 Finanziarie), l’attrattiva delle carriere da influencer, l’aumento del gioco d’azzardo e del trading on line. Tutte attività che assicurano (o promettono di assicurare) un reddito senza la fatica e l’impegno di un vero lavoro.

Colpa della politica? Colpa di questo governo? Colpa di quelli che l’hanno preceduto?

Difficile distribuire meriti e colpe, ma il fatto che dei problemi strutturali del paese si parli poco, comunque molto di meno di dieci o venti anni fa, suggerisce un’ipotesi amara: forse non sono solo i politici, ossessionati dalla ricerca del consenso immediato, ma siamo noi stessi – in quanto cittadini, studiosi, operatori dell’informazione – che ci siamo distratti. Poco per volta la fiducia nella possibilità di cambiare le cose ha lasciato il posto a una visione più scettica e disincantata, per cui le cose non vanno così male da esortarci all’azione, e il costo di affrontare i problemi ci appare superiore ai benefici che potremmo attenderci da riforme radicali.

O non è così?

[articolo uscito sul Messaggero il 15 novembre 2025]

La politica è donna?

12 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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A destra non c’è partita: nessun politico maschio ha un carisma anche lontanamente comparabile a quello di Giorgia Meloni. Ma a sinistra, come stanno le cose? Apparentemente la situazione è più equilibrata: Elly Schlein ha fatto fuori Bonaccini con le primarie, ma tutto il resto del centro-sinistra è dominato dai maschi: maschio è il capo dei cinque stelle, Giuseppe Conte; maschio è il leader dei Verdi Angelo Bonelli; maschio è il leader di sinistra italiana Nicola Fratoianni; maschi sono i leader del Terzo Polo Matteo Renzi e Carlo Calenda. Maschi, infine, sono quasi tutti i “grandi vecchi” – Franceschini, Bettini, Prodi, Bersani, Veltroni – che da dentro o da fuori ancora influenzano la vita del Partito Democratico.

Tutto questo fino a poco fa. Ora però il vento sta cambiando. Nel giro di pochissimo tempo la palude progressista è stata investita da un triplice ciclone femminile. A livello europeo, Pina PiciernoP, eletta nelle liste del Pd e vicepresidente del Parlamento Europeo, si è distinta – nell’ambito della sinistra italiana – come una delle voci più chiare e risolute nel sostegno all’Ucraina, in sintonia con il gruppo dei socialisti europei ma in aperto dissenso con le direttive del Partito Democratico. È uno dei rari casi in cui una donna di sinistra si contrappone duramente e a viso aperto ai vertici del suo partito.

In Italia, invece, a sfidare l’establishment progressista hanno provveduto altre due giovani donne, Silvia Salis e Chiara Appendino. Eletta sindaco di Genova con il sostegno di Elly Schlein, Silvia Salis non ha atteso molto prima di lanciare – sia pure in modo alquanto obliquo – il suo guanto di sfida alla segretaria del Pd come candidata premier della coalizione di sinistra. Quanto a Chiara Appendino, è di pochi giorni fa una sua lettera a Libero in cui sferra un durissimo attacco a tutta la sinistra per la sua incapacità di affrontare il problema della sicurezza.

Le buone ragioni politiche delle due “ragazze terribili” sono più che comprensibili. A favore della renziana Silvia Salis gioca il fatto che, con una candidata premier sbilanciata a sinistra come Elly Schlein, le probabilità di battere Giorgia Meloni sono minime. E tuttavia colpisce la sua improvvisa, repentina popolarità, ovvero il fatto che a lei – con pochissima esperienza politica, e un passato di campionessa di lancio del martello – sia riuscito in pochi giorni quello che da oltre un anno non sta riuscendo a nessuno dei maschi, da Manfredi a Onorato, da Ruffini a Prodi, che vengono ripetutamente indicati come possibili federatori di un centro sinistra ampio e inclusivo. È come se l’essere donna, giovane, sportiva e di bell’aspetto fosse diventato sufficiente a bruciare tutte le tappe di una normale carriera politica.

Il caso di Appendino è diverso, perché il suo curriculum politico è molto più ricco, a partire dalla guida della città di Torino (dal 2016 al 2021), prima donna sindaco nella storia della città. Però anche qui colpisce il modo repentino con cui ha saputo mettere nell’angolo Giuseppe Conte, finora leader indiscusso del movimento Cinque Stelle. Le è bastato dimettersi da vicepresidente del movimento, e subito dopo mettere il dito nella piaga del centro-sinistra, accusato di avere rimosso il tema della sicurezza. Un problema che cova da tempo sotto le ceneri nel M5S, ma che Conte era riuscito abilmente a tenere nascosto persino in occasione dell’incontro-intervista di un anno fa con Sahra Wagenknecht, leader di un partito (la BSW) di sinistra ma chiaramente anti-migranti.

Non sappiamo se, alla fine, il triplice assalto di Picierno, Salis, Appendino all’establishment progressista sarà coronato da successo, e quale potrà essere alla fine il ruolo di Schlein. Ma se l’assalto dovesse riuscire, le prossime elezioni ci riserverebbero uno spettacolo inedito: lo scontro tutto al femminile fra una donna al comando – Giorgia Meloni – e un manipolo di donne che aspirano a prenderne il posto. Una novità assoluta in Italia, e forse non solo in Italia.

[articolo uscito sulla Ragione l’11 novembre 2025]

Dopo la mossa di Chiara Appendino – Sinistra e sicurezza

10 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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“Da troppo tempo la sinistra ha paura di occuparsi di sicurezza, come se parlarne fosse di destra. È stato un errore enorme”.

La diagnosi non è nuova. Fra i sociologi non siamo in tantissimi a pensarla così, ma lo ripetiamo da almeno vent’anni, con una montagna di numeri. Dunque perché insistere con questo mantra?

Per una ragione fondamentale: questa volta a parlare così non siamo noi, studiosi di criminalità e di politica attoniti per la cecità della sinistra, ma è nientemeno che Chiara Appendino, esponente di punta del Movimento Cinque Stelle. In una lettera inviata a Libero non solo dice l’indicibile, ma rivendica di avere agito concretamente, quando era sindaca di Torino, per combattere contro degrado, campi rom, occupazioni abusive, anarchici dinamitardi. Anziché scaricare sul Ministero dell’Interno ogni responsabilità, la deputata Cinque Stelle richiama tutti i livelli di governo – comprese le amministrazioni locali – alle loro responsabilità e al dovere di collaborare per combattere il degrado, visto come brodo di coltura del crimine (una teoria con basi scientifiche piuttosto solide).

Dunque tutto bene. Finalmente a sinistra c’è qualcuno di (politicamente) autorevole, che prova a far aprire gli occhi alla sinistra. Nella lettera, tuttavia, Appendino non spiega come mai la sinistra stessa non abbia mai voluto prendere sul serio il tema della sicurezza. Il punto è importante, perché dalla risposta a questa domanda deriva la risposta alla domanda che segue subito dopo: riuscirà mai la sinistra a correggere questo suo errore “enorme”?

Ebbene, forse la prima cosa da notare è che non è sempre stato così, e comunque non per tutta la sinistra. Di fronte al pericolo del terrorismo, il Partito Comunista di Enrico Berlinguer (e di Armando Cossutta!) aveva ben chiara l’importanza della sicurezza, e l’assoluta necessità di combattere contro coloro che la mettevano a repentaglio. A non capire il valore della sicurezza, in quegli anni, fu semmai la sinistra extraparlamentare, che detestava le divise, disprezzava la normalità “borghese”, e vedeva ogni forma di devianza come ribellione al “sistema”. Detto per inciso, è incredibile come questi schemi mentali sopravvivano ancora oggi, più di mezzo secolo dopo il Sessantotto, in parole come quelle di Michela Murgia (“io quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre”) o di Enrico Letta (“viva le devianze”).

La vera mutazione, quella che ha decretato il divorzio fra sinistra e sicurezza, si è prodotta nei decenni successivi alla morte di Berlinguer, con l’assottigliamento della classe operaia, la “cetomedizzazione” del maggiore partito della sinistra, l’arrivo dei migranti. Per un partito di ceti medi, urbanizzati e istruiti, culturalmente cosmopoliti, aperti alle opportunità della globalizzazione, la sicurezza non poteva essere una priorità. E questo non solo perché le vittime principali della criminalità non sono certo i ceti medi (ben più attrezzati a difendersi), ma perché stare dalla parte degli immigrati come delle altre minoranze più o meno oppresse era la condizione logica necessaria per alimentare e sostenere il complesso di superiorità morale della sinistra. A preoccuparsi delle paure e dei bisogni dei ceti popolari, fatti di lavoro dipendente e partite Iva, hanno provveduto sempre di più partiti nuovi, spregiativamente definiti “populisti”, ma più capaci di interpretare il disagio dei ceti popolari: prima la Lega (nata alla fine degli anni ’80), poi il Movimento Cinque Stelle (nato nel 2007), infine Fratelli d’Italia (fondato nel 2012). Di qui, non solo in Italia, un radicale smottamento e rimescolamento delle basi elettorali: i progressisti raccolgono consenso soprattutto dai ceti medi istruiti, i partiti di destra attirano una fetta consistente del voto popolare.

E i Cinque Stelle?

I Cinque Stelle hanno avuto il loro momento di massimo splendore quando non erano né di destra né di sinistra, e sull’immigrazione avevano una posizione interlocutoria, non schiacciata sul cattivismo di destra e sul buonismo di sinistra. Poi, per amore del potere, hanno compiuto la loro svolta a sinistra (governo Conte 2) e siglato un patto difficilmente reversibile con il Partito Democratico. Di qui le loro difficoltà attuali: l’alleanza con il Pd, che sul tema della sicurezza è muto, li penalizza anche elettoralmente, perché snobbare quel tema allontana il voto popolare, che altrimenti troverebbe nei Cinque Stelle uno dei suoi sbocchi naturali.

La mossa di Chiara Appendino è anche un tentativo di far uscire il movimento dall’angolo in cui Conte negli ultimi anni ha finito per relegarlo. Un ritorno a destra? Qualcuno proverà a metterla così, ma sarebbe uno sbaglio concettuale. Perché – ce lo hanno insegnato in tanti, da Isaiah Berlin a Norberto Bobbio – la “libertà dal timore” fa parte dei diritti fondamentali dell’uomo, esattamente come la “libertà dalla miseria”. È toccato a Chiara Appendino ricordarlo nella sua lettera a Libero (“la sicurezza non è né di destra né di sinistra: è un diritto dei cittadini”). Ora tocca a Elly Schlein decidere se raccogliere la sfida, o perseverare nell’arroccamento che, non da oggi, tiene i ceti popolari lontani dalla sinistra ufficiale.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 novembre 2025]

Perché Salvini e Schlein sono un problema – Smottamento al centro?

6 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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La teoria secondo cui le elezioni si vincono al centro, convincendo l’elettore moderato, da un bel po’ di anni (almeno una decina) non gode di grande credito fra scienziati politici e sondaggisti. E questo a dispetto dell’autorevolezza di coloro che per primi ebbero a proporla, l’economista Duncan Black (nel 1948) e il politologo Anthony Downs, il padre della cosiddetta “teoria economica della democrazia” (titolo del suo libro, uscito nel 1957). Da un bel po’ di anni si sente ripetere che, in realtà, il fattore decisivo per vincere è galvanizzare il proprio elettorato, e che questo richiede uno spostamento verso le posizioni estreme: i successi elettorali delle forze estremiste, populiste o anti-sistema ne sarebbero la prova.

Ultimamente, almeno in Italia, sembra che il vento stia cambiando di nuovo. A farlo cambiare, però, non paiono essere gli insuccessi della sinistra estrema negli Stati Uniti (Bernie Sanders, Alexandra Ocasio Cortez) e nel Regno Unito (Geremy Corbyn), ma la banale constatazione che la linea estremista di Elly Schlein ha portato pochi voti, non mobilita affatto (vedi il flop del referendum della Cgil), e soprattutto rende impossibile la formazione di una coalizione larga, come quelle che per due volte portarono Prodi a Palazzo Chigi e permisero di sconfiggere Silvio Berlusconi.

Il contributo decisivo alla crisi dell’estremismo di sinistra sta venendo, in questi giorni, dalle reazioni alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. La linea ufficiale del Pd è nettamente contraria (“la democrazia è in pericolo”, “Meloni vuole i pieni poteri”), ma deve fare i conti con il dissenso di parecchi esponenti tutt’altro che marginali del partito, o più in generale del campo progressista. Giusto per fare qualche nome, si sono espressi a favore della riforma, in ordine alfabetico: Goffredo Bettini, Emma Bonino, Carlo Calenda, Stefano Ceccanti, Paola Concia, Vincenzo De Luca, Antonio Di Pietro, Roberto Giachetti, Claudio Martelli, Enrico Morando, Claudio Petruccioli, Cesare Salvi. In breve: una parte della sinistra voterà sì al referendum, sfidando (e neutralizzando) il racconto estremista-apocalittico di Elly Schlein. Mi pare difficile, specie se dovesse vincere il sì, che il Pd possa andare alle elezioni amputando completamente le correnti riformiste-liberali-garantiste del fronte progressista.

Si potrebbe pensare che quello di non soccombere (elettoralmente) sotto il peso dell’estremismo sia soprattutto un problema della sinistra. Ma qualche indizio fa pensare che, sia pure in forme assai diverse, un problema simile sia destinato ad affliggere anche la destra. Dove il problema non è più il partito di Giorgia Meloni, il link ideologico con il Movimento Sociale Italiano, l’anti-europeismo, tutti test ampiamente superati, bensì il partito di Matteo Salvini. Un alleato sempre più anti-europeo, insofferente, aggressivo, sopra le righe. E ultimamente reso ancora meno governabile dall’innesto del generale Vannacci e delle sue truppe. Solo i commentatori più visceralmente ostili a Giorgia Meloni non si rendono conto che è la presenza della Lega, non di Fratelli d’Italia, che permette di dire che in Italia l’estrema destra è al governo.

Se la sinistra ha il problema di non cancellare la sua faccia riformista, la destra ha il problema speculare di attenuare almeno un po’ la sua faccia estremista. Un compito forse ancora più difficile, visto che Salvini – nonostante la sua incapacità di risollevare la Lega dalla stagnazione (o dal declino?) elettorale – appare inamovibile.

Ma lo è davvero?

Se lo è, non è per mancanza di valide alternative, ma perché né le vecchie glorie (Zaia, Fedriga, Giorgetti) né le nuove leve specie femminili (Ceccardi, Tovaglieri, Sardone) se la sentono di sfidare il capo.

Vedremo come andrà a finire. Se è vero, come sostengono alcuni politologi, che l’elettore sceglie la coalizione più rassicurante (o meno inquietante), le prossime elezioni potrebbe vincerle chi sarà più capace di frenare la deriva estremista che affligge entrambi gli schieramenti.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 novembre 2025]

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