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Quando il pluralismo non è preso sul serio. Il caso Valditara

14 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Lettera 150

Novembre 2025

I fatti sono noti. Una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito dei primi di novembre ha invitato presidi e professori a tener conto della diversità delle opinioni che si possono avere sui grandi temi della politica del nostro tempo. Un informato articolo di ’Repubblica’ firmato v.a., Dibattiti a scuola solo se c’è ‘par condicio’. Polemica su Valditara (8 novembre u.s.) ha spiegato bene la vicenda. «Appare importante—si legge nella circolare– che l’organizzazione e lo svolgimento, all’interno delle istituzioni scolastiche, di manifestazioni ed eventi pubblici aventi a oggetto tematiche di ampia rilevanza politica e sociale, siano caratterizzati dalla presenza di ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza». Le scuole, «nell’ambito della loro autonomia» devono « assicurare il pieno rispetto dei principi del pluralismo e delle libertà di opinione e garantire il dialogo costruttivo e la formazione del pensiero critico». Le iniziative, dunque, devono essere «coerenti con gli obiettivi formativi della scuola e contribuire attraverso il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti, consentendo a ciascuno studente di sviluppare una propria autonoma e non condizionata opinione». Si tratta di direttive pienamente condividibili ma che ingenerano nell’animo una profonda tristezza. Le scuole della ‘società aperta’, infatti, non avrebbero alcun bisogno di essere richiamate a principi tanto evidenti. E inoltre se dal piano delle (legittime) ‘raccomandazioni’ si passasse a quello dei ‘fatti’ e delle concrete proposte operative, sarebbe difficile sottrarsi alla tentazione del Manuale Cencelli, («l’espressione giornalistica riferita all’assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso” poi “spesso utilizzata in senso ironico o dispregiativo per alludere a nomine effettuate in una mera logica di spartizione in assenza di criteri di merito». Wikipedia). Vi immaginate un dibattito sulla guerra russo-ucraina organizzato in un liceo e sottoposto alla discussione del Consiglio d’istituto in cui ciascun docente potrebbe eccepire sull’invito rivolto a un ospite la cui ”specifica competenza e autorevolezza” sia, a suo avviso, per così dire, problematica. Detto ciò l’invito di Valditara «al costante rispetto del pluralismo» è ineccepibile e non si vede lo sdegno suscitato dalle deputate del PD, Irene Manzi e Simona Malpezzi (un volto noto, quest’ultima, grazie ai talk show di Mediaset). « La scuola—dicono le due parlamentari nell’interpellanza rivolta al Ministro—non è un luogo da sorvegliare, ma un luogo dove liberare le idee, perché solo dove si discute liberamente si educa davvero alla cittadinanza». ‘Na penzata ‘e spírito’, vien fatto di commentare, col grande Armando Gil, pensando ai licei e alle Università che, una volta occupati, non possono certo dirsi  luoghi dove’ liberare le idee’. Giustamente Valditara ha commentato «parole inquietanti che lasciano trasparire l’intenzione di voler confondere l’autonomia scolastica con pratiche di indottrinamento. La scuola costituzionale non si merita questa preoccupante confusione».

 E tuttavia alla base di questa vicenda c’è un equivoco non risolto—e da tempo.  Lo Stato, i ministeri competenti hanno il dovere di salvaguardare il pluralismo dell’informazione e di assicurare a tutte le idee, a tutte le opinioni libertà di accesso nelle istituzioni scolastiche. Ma qui non si tratta di pluralismo dell’informazione bensì di pluralismo di manifestazione. Studenti e antagonisti vari partecipano alle occupazioni con lo spirito dei coristi del CAI che si riuniscono per cantare Lassù sulle montagne.. Per loro, non è un problema la conoscenza giacché si sa sin troppo bene ciò che sta accadendo nel mondo e contro cui si protesta. Vogliono, invece, porre fine a qualcosa che assimilano a un genocidio  sicché pretendere  che facciano ascoltare le due campane è, per lo meno, ingenuo. Sarebbe come  se si fosse chiesto a John Brown, l’abolizionista del Connecticut impiccato nel 1859, di dare la parola nei raduni da lui indetti (che potevano portare ad azioni violente come il massacro del Pottawatomie del 1856) anche ai fautori della schiavitù o comunque a quanti, in qualche modo, la giustificavano. Se si protesta conto i Lager o contro i Gulag, non è assurdo far sentire la campana nazista o comunista? Al tempo della Guerra del Vietnam, sui grandi viali di Washington sfilavano, da una parte, i manifestanti che volevano porre fine al conflitto nel Sud-est asiatico e, dall’altra parte, quanti desideravano che continuasse fino alla vittoria sui comunisti (tra loro c’era, almeno idealmente, John Wayne). Due cortei, appunto, impensabili in Italia dove sarebbero vietate de facto—per ragioni di ordine pubblico–manifestazioni in difesa non di Netanyahu ma del diritto dello stato di Israele a esistere. Da noi hanno diritto di parola (e di predica) solo i puri, gli onesti, quanti parlano a nome del Genere Umano.

 E qui veniamo al tumore maligno radicato nel corpo della nazione: la pretesa di essere nel giusto e che le opinioni degli altri, se contrarie alle nostre, nascondano interessi nascosti e disegni inconfessabili. Luca Ricolfi, in un magistrale articolo sul ‘Messaggero ’,A proposito di un’uscita di Elly Schlein. Democrazia a rischio (2 novembre u.s.) ha messo a fuoco due gravi distorsioni del concetto di democrazia, presenti nell’ideologia italiana. «La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale.|…| è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro». La seconda distorsione è «la credenza che una delle due parti politiche—la destra—non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia perché non pienamente democratica».

 A mio parere, qui c’è un vizio antico—che forse risale addirittura all’età del Risorgimento e agli insegnamenti di Giuseppe Mazzini e di Carlo Cattaneo—quello di ritenere che, alla base delle decisioni dei governi e dei loro oppositori, debba esserci una Verità oggettiva, indistinguibile dalle leggi di natura—che prescrive ciò che è giusto, in politica come in economia– e che non tenerne conto sia andare fuori strada, esporre il paese alla rovina. E’ un costume di casa che non riguarda solo le ali estreme dello schieramento politico giacché, a leggere gli editoriali dei columnist moderati e liberali di oggi come di settant’anni fa, si ha sempre la sensazione che, al di fuori delle soluzioni politiche da essi auspicate (centro-destra o centro-sinistra), ci fosse solo il caos. La cultura del Partito d’Azione svolse in tal senso una funzione decisiva: ponendosi come sintesi di liberalismo e di socialismo, i suoi esponenti tendevano a delegittimare moralmente quanti della sintesi  non  volevano saperne e rimanevano attaccati all’una o all’altra delle polarità ‘superate dalla Storia’. Non a caso con qualche luminosa eccezione (v. Guido Calogero) erano portati ad auspicare una democrazia senza partiti giacché questi non avevano più ragion d’essere una volta che il paese si fosse incamminato sulla via maestra del socialismo liberale o del liberalsocialismo.

 Non meraviglia che una sinistra non ancora secolarizzata e laicizzata (e quindi lontana dall’acquisire la consapevolezza che i valori politici stanno tutti sullo stesso piano) a parole riven-dichi il pluralismo dell’informazione ma, col cuore, si ritrovi sempre dalla parte dei ‘monopolisti delle manifestazioni’ ovvero di quanti—magari con mezzi violenti e inaccettabili—‘portano avanti’ le cause giuste. Se nella lotta politica si confrontano il Bene e il Male, quanti si trovano al servizio del secondo, possono anche andare al governo—se gli elettori sottopongono la democrazia a  harakiri—ma restano sempre un pericolo per la democrazia e per le libertà. Tutto in loro diventa subdolo, persino il ‘richiamo strumentale’ al pluralismo. Quest’ultimo, nei loro disegni perversi, diventa un cavallo di Troia destinato a far conoscere, nelle scuole della Repubblica, interpretazioni della nostra storia non in linea con la pedagogia dello Stato democratico fondato sui valori di una Resistenza e di un antifascismo intesi non come restaurazione delle libertà civili e politiche–conculcate dal fascismo– ma come renovatio ab imis, creazione di una nuova civiltà destinata a cancellare le miserie della vecchia Italia. Come ebbe a scrivere Giuseppe Bedeschi sul ‘Giornale’ del 9 giugno 2010, Così Croce sfidò Parri in difesa della libertà, «il Partito d’azione mirava a realizzare un programma di ‘rinnovamento sociale e politico’ con evidenti caratteri massimalistico-giacobini. Persino un uomo come La Malfa (azionista) era convinto che si dovesse chiedere” la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali”, al fine di “recidere alle radici ogni potenza reazionaria del grande capitale’». Quel programma di rinnovamento sociale e politico con evidenti caratteri massimalistico-giacobini continua ad essere il termine fisso d’eterno consiglio per la sinistra italiana, anche dopo aver rinunciato alla nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali. Forse il vero nemico del pensiero egemone oggi è il pluralismo preso sul serio. Potrebbe convincere gli Italiani che a sinistra non c’ è “l’Unto del Signore” come non c’è a destra: giacché, per dirla con Bernard Crick, destra e sinistra stanno tutt’e due sul mercato.

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Dino Cofrancesco
Dino Cofrancesco
Arce (FR), 15 novembre 1942 Laurea in Filosofia Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università degli Studi di Genova.
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