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Politica

No al fascistometro!

10 Dicembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Vistodagenova

 

Nella ‘Democrazia in America’, Alexis de Tocqueville scriveva quasi due secoli fa: “nel mondo moderno, l’in­dipendenza della stampa è l’elemento capitale e, per cosi dire, costi­tutivo della libertà. Un popolo che vuole restare libero ha dunque il diritto di esigere che la si rispetti ad ogni costo” ma confessava di non avere ”per la libertà della stampa quell’amore completo e immediato che si accorda alle cose sovranamente buone per loro natura. L’apprezzo per i mali che essa impedisce, molto più che per il bene che essa fa. Purtroppo, concludeva, “in materia di stampa non vi è un giusto mezzo tra la servitù e la licenza. Per raccogliere gli inestimabili beni, che la libertà di stampa assicura, bisogna sapersi sottomettere agli inevitabili mali ch’essa fa sorgere”. Quando vedo il catalogo dell’editrice ‘Passaggio al bosco”—con i libri di Corneliu Codreanu, Leon Degrelle, Julius Evola—non posso evitare un profondo sconforto e, tuttavia, non mi rassegnerò mai a considerare reato un’opinione e a chiedere la censura su scritti che mi ripugnano, fosse anche il ‘Mein Kampf’ di Adolf Hitler. Se alla mostra della Fiera di Roma, ’Più libri, più liberi’ non si vogliono testi apologetici del nazifascismo, perché lo stesso divieto non dovrebbe valere per le librerie o per le bancarelle? In realtà, l’aver fatto dell’apologia del fascismo un reato di competenza del questore e del magistrato è un vulnus della ’civiltà del diritto’, che distingue la colpa morale, dal reato penale e dal peccato. Le opinioni ‘indecenti’ vanno sottoposte alla sanzione della società civile (perdita di stima, isolamento del trasgressore etc.) non ai tribunali. Anche perché è difficile stabilire quando un’opinione diventa reato. Tanti anni fa, si discusse, in un’antica società culturale ligure, se accogliere come socio un docente universitario di Storia delle dottrine politiche. Qualcuno, uno storico comunista di nobile famiglia genovese, si oppose dicendo che era un fascista: alla richiesta di provarlo, lo storico ricordò la sua collaborazione a ‘Storia contemporanea’ ,la rivista fondata e diretta dal più grande storico del fascismo del secolo scorso, Renzo De Felice. Una volta ammesso il ‘fascistometro’, è difficile che l’autorità, incaricata della ‘misurazione’ ,non abusi del suo potere, anche per ragioni private. Per parafrasare le parole del gerarca nazista, potrebbe sempre dire:”sono io che decido chi è fascista e chi non lo è”.

 

Professore Emerito di  Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Articolo uscito su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 9 dicembre 2025]

A proposto di legittima difesa – Paura o rabbia?

10 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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La recente condanna a 14 anni di carcere del gioielliere Mario Roggero – colpevole di aver inseguito e ucciso due rapinatori che avevano assalito il suo esercizio a Grinzane Cavour mettendo in pericolo la vita di moglie e figlia – ha riaperto per l’ennesima volta il dibattito sulla legittima difesa. Da una parte i leghisti, per i quali la difesa è sempre legittima, dall’altra i progressisti per cui non lo è quasi mai.

La vicenda delle norme sulla legittima difesa è abbastanza atipica, perché è in marcata controtendenza rispetto al trend permissivista e perdonista con cui negli ultimi decenni (ma per certi versi negli ultimi secoli) sono evolute le norme penali e più in generale le procedure di contrasto alla violenza. Non occorre evocare le tesi di Norbert Elias sul processo di civilizzazione”, per rendersi conto che, da tempo immemore,. la tendenza dominante è alla mitigazione delle sanzioni in tutti i campi: abolizione della pena capitale, amnistie, indulti, pene alternative al carcere, sconti di pena, allentamento delle regole in materia migratoria, eccetera. Una tendenza, questa, che è stata anche di tipo culturale, con l’ampia diffusione di teorie volte a promuovere indulgenza, perdono, permissività un po’ in tutti i campi, dalla scuola alla giustizia. Ci sono naturalmente anche eccezioni e controtendenze, ma negli ultimi due secoli il trend è stato quello.

Per questo può suscitare un briciolo di sorpresa che il legislatore italiano, in materia di legittima difesa, si sia mosso perlopiù nella direzione esattamente opposta. Nel 2006 il governo Berlusconi varò una legge che allargava i limiti della legittima difesa (legge 59), nel 2019 il governo Conte I procedette ad un ulteriore allargamento (legge 36) mediante una serie di modifiche del codice penale (articoli 52 e 55).

La più significativa di tali modifiche è quella che introduce come causa di non punibilità  lo stato di “grave turbamento” del soggetto che, aggredito, reagisce a sua volta con violenza. Quest’ultima modifica della legge, inevitabilmente, conferisce al giudice un enorme potere discrezionale, perché la condizione di “grave turbamento” non può essere né provata né esclusa in modo obiettivo.

Ma che cosa significa “grave turbamento”? È verosimile ipotizzare che il gioielliere di Grinzane Cavour abbia sparato perché soggetto a uno stato di grave turbamento? Si può essere gravemente turbati di fronte a un gruppo di rapinatori in fuga?

Sfortunatamente non esiste una interpretazione univoca del termine turbamento. Qualcuno potrebbe leggerlo come angoscia, paura, terrore. Altri potrebbero associarlo al concetto di vendetta: un grave torto subito provoca uno stato di turbamento, che suscita rabbia e desiderio di vendetta.

C’è una differenza fondamentale, però, fra le due interpretazioni. Nella nostra cultura attuale la paura è un sentimento legittimo, accettato, compreso. E quindi atto a giustificare le azioni che dalla paura stessa sono motivate e dalla paura stessa possono essere mosse.

Rabbia, risentimento e desiderio di vendetta invece no: sono sentimenti che consideriamo inammissibili, in quanto confliggono con il risultato di 2500 anni di evoluzione della Giustizia in occidente, grosso modo dall’Orestea di Eschilo (V secolo a.C.) a oggi. È questa la tesi energicamente sostenuta da Martha Nussbaum, forse la principale filosofa americana contemporanea, nel suo importante libro Anger and Forgiveness (sottotitolo: Resentment, Generosity, Justice), pubblicato nel 2016.

Se riflettiamo su questa evoluzione, che specie negli ultimi 80 anni (dopo la seconda guerra mondiale), con la proliferazione degli organismi sovranazionali e del diritto internazionale, ha avuto una straordinaria espansione, non possiamo stupirci che i giudici del gioielliere di Grinzane Cavour, come quelli di altre vicende analoghe, abbiano deciso per la colpevolezza. Per loro il gioielliere non poteva essere stato mosso dal terrore, perché i rapinatori erano ormai in fuga, e non aveva diritto al risentimento, perché il desiderio di vendetta che può scaturirne non è compatibile con l’idea contemporanea di Giustizia.

Tutto logico e comprensibile, salvo che per un fatto: la Giustizia della tolleranza, della generosità e del perdono di fatto funziona in modo così iniquo, così illogico, così umiliante per le vittime, che la gente poco per volta sta riscoprendo il concetto arcaico di Giustizia, quello contro cui si scaglia Martha Nussbaum nel suo libro. Quando vede ladri sistematicamente scarcerati dopo un furto, stupratori in libertà dopo pochi mesi, parenti dei rapinatori che pretendono milioni di euro di risarcimento dai rapinati, la gente è “gravemente turbata” non tanto perché è terrorizzata dai criminali, ma perché vede devastato il proprio naturale senso di giustizia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 dicembre 2025]

La sinistra e il partito del senso comune

9 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Nei giorni scorsi Renato Mannheimer ha reso noti i dati di un recente sondaggio Eumetra sull’atteggiamento degli italiani nei confronti dei “bambini nel bosco”, ovvero della scelta dei servizi sociali (e del tribunale dei minori dell’Aquila) di togliere tre bambini ai genitori che li avevano allevati in modo un po’ troppo spartano. Non intendo minimamente entrare sulle buone ragioni di entrambe le parti (servizi sociali e genitori ecologisti), ma vorrei soffermarmi su un altro punto: la frattura emersa dall’indagine.

Gli elettori che hanno espresso un’opinione (quasi l’85% degli intervistati) sono spaccati in due gruppi (pro e contro i genitori), ma i difensori della famiglia che ha allevato i bambini nel bosco prevalgono piuttosto nettamente sui critici.

Che cosa divide difensori e critici?

A prima vista parrebbe una frattura politica, con gli elettori progressisti schierati in maggioranza con i servizi sociali e quelli conservatori con la famiglia anglo-australiana. Ma non è semplicemente così. Fra i paladini della famiglia vi sono anche gli elettori Cinque Stelle e – forse questo è il risultato più interessante – la netta maggioranza degli indecisi. Quanto alla condizione sociale, i ceti alti sono tendenzialmente pro-servizi sociali, quelli bassi pro-famiglia. La frattura, in altre parole, ha un profilo più culturale che politico. L’Italia che detesta l’invadenza dei servizi sociali e stravede per la favola romantica dei bambini nel bosco è l’Italia del senso comune, che rifugge dagli schemi astratti e mal sopporta le ingerenze pedagogiche dell’establishment.

L’indagine di Mannheimer, a mio parere, certifica che questa Italia è maggioranza nel paese, e guarda più a destra che a sinistra, anche quando sembra votare a sinistra. Emblematico il caso dei Cinque Stelle, un movimento nato fuori dello schema destra-sinistra, poi smottato a destra (con l’alleanza Salvini-Di Maio), infine approdato a sinistra (con il governo Conte II), ma tuttora attratto da posizioni che la sinistra doc – quella del Pd e dei riformisti – considera di destra, se non reazionarie.

Quali posizioni? Innanzitutto quelle sull’immigrazione, un tema che più di altri si presta ad attivare la logica del senso comune, fuori e contro gli schematismi della politica. Non tutti lo ricordano, ma durante la crisi dei migranti del 2018, quando l’Espresso fece la famosa copertina “Uomini e no” che di fatto dava del non-umano a Salvini, i sondaggi mostravano che il 70% degli elettori stava con la politica dei porti chiusi del ministro dell’Interno, in barba alle proprie credenze politiche.

E poi le posizioni sull’educazione dei figli, con il primato della famiglia rispetto allo Stato: la sinistra doc crede nel ruolo pedagogico dello Stato (la scuola come “palestra di democrazia”), la gente comune – anche quando non lo conosce – istintivamente sottoscrive l’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che afferma che “i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”. Per non parlare dell’atteggiamento verso i magistrati: i progressisti tendono a vederli come figure salvifiche e insindacabili, l’Italia del senso comune ne riconosce a occhio nudo abusi, errori e storture, specie riguardo ai migranti e ai reati di allarme sociale.

Tutto questo suggerisce che oggi come ieri, accanto alle maggioranze partitico-elettorali che possono farsi e disfarsi a seconda delle circostanze, esiste e perdura una sorta di partito del senso comune, che è maggioranza nel paese e può condizionare in modo decisivo la competizione elettorale. Finché il conflitto verte su temi freddi (le tasse, le riforme, il federalismo, l’istruzione, la sanità) la sinistra, che ha quasi tutto l’establishment culturale dalla sua parte, può giocare la partita. Ma se e quando il conflitto si sposta su questioni calde, che toccano profondamente i sentimenti delle persone e sono in grado di attivare gli schemi del senso comune, per la sinistra la partita si fa difficile, perché il partito del senso comune è maggioranza nel paese, e guarda più a destra che a sinistra.

Perché più a destra?

Fondamentalmente perché la sinistra ha maturato nel tempo un profondo disprezzo verso il senso comune e i suoi portatori, che considera espressione della “pancia del paese” o “popolo bue”, senza rendersi conto che il comune sentire della gente veicola anche una visione del mondo, che poggia su principi più elementari ma non meno legittimi di quelli progressisti.

Forse è anche per questo che, negli oltre tre decenni della seconda Repubblica, solo una volta – nel 2006, alla fine di una legislatura berlusconiana assai deludente – la sinistra è riuscita ad attrarre il 50% dei consensi. In tutti gli altri casi un’analisi accurata della distribuzione del voto, capace di tener conto della natura bifronte dei Cinque Stelle, rivela che il baricentro dell’elettorato è sempre rimasto sbilanciato a destra.

Se fossi Elly Schlein, di questo mi preoccuperei, più che dell’eterno gioco fra correnti e sottocorrenti del Pd.

[articolo uscito sul Messaggero il 7 dicembre 2025]

Sulle parole di Francesca Albanese – Cattive maestre e democrazia

4 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Le parole di Francesca Albanese, che ha condannato l’assalto alla redazione della Stampa di Torino da parte di un centinaio di militanti pro-Pal, ma al tempo stesso ha invitato a considerare l’episodio “un monito” ai giornalisti, rei di non fare seriamente e onestamente il loro lavoro, hanno suscitato una giusta quanto ovvia indignazione. Se sono state pronunciate davvero (dico “se” perché in rete non sono riuscito, nemmeno con l’aiuto di ChatGpt, a trovare un video o una registrazione che le contenga) la vera notizia a me sembra l’imbarazzo con cui sono state accolte da una parte significativa dello schieramento progressista. La maggior parte degli esponenti della sinistra (con le importanti eccezioni di Calenda e Renzi) ha preferito limitarsi alla scontata condanna dell’assalto squadrista (accompagnato da minacce di morte), senza prendere una posizione di condanna chiara e severa verso quell’espressione “monito”. Una espressione che sa tanto di avvertimento per il futuro nei confronti dei giornalisti, quasi che – come talora si sente dire alle donne stuprate – se la fossero andata a cercare con la colpevole partigianeria dei loro resoconti sulla guerra a Gaza.

Questo imbarazzo non è nuovo. Si ripete ogniqualvolta violenza e sopraffazione vengono esercitate in nome di una causa cui la sinistra ufficiale è sensibile. È come dire: i manifestanti hanno sbagliato, ma l’hanno fatto in nome di giusti principi, che noi progressisti condividiamo. La condanna più o meno criptica della violenza avviene quasi sempre, però c’è sempre un “ma”: ma il governo ha sbagliato, ma la polizia non doveva intervenire, ma i facinorosi sono un’infima minoranza, eccetera. In poche parole: la violenza è (quasi) sempre sbagliata, ma è (spesso) comprensibile. Ancora più inquietante è l’altra considerazione invocata da Francesca Albanese: dalla violenza occorre astenersi, perché è controproducente, e lo è perché indebolisce la causa. Non so se tutti si rendano conto della pericolosità di una simile giustificazione: è come dire che la violenza non è un male in sé (come pensava Gandhi) in quanto priva l’altro dei suoi diritti, ma perché potrebbe ritorcersi contro i violenti stessi. Inevitabile pensare che, ove avesse un sostegno di massa e cessasse di essere controproducente, la violenza potrebbe diventare uno strumento di lotta legittimo.

I paragoni storici sono sempre discutibili, e solo con il tempo si scopre se sono appropriati o fuorvianti. Però è difficile non cogliere almeno una affinità fra la situazione attuale e quella che, negli anni ’70, portò alla nascita del terrorismo: oggi come ieri una minoranza violenta si muove in nome dei medesimi principi cui si richiama la sinistra ufficiale. Ieri le Brigate Rosse uccidevano in nome del comunismo, ossia della medesima ideologia che ispirava il PCI, il maggiore partito della sinistra di ieri. Oggi i ragazzi che devastano la redazione della Stampa, agiscono (violentemente) in nome di una causa, quella del popolo palestinese, che è difesa (pacificamente) dal Pd, il maggiore partito della sinistra attuale.

Il paragone storico, tuttavia, si ferma qui. La differenza fondamentale fra ieri e oggi è la statura morale, politica e culturale delle rispettive classi dirigenti. Enrico Berlinguer, Luciano Lama, e tutto il gruppo dirigente del PCI non ebbero esitazioni a schierarsi contro le Brigate Rosse e le altre formazioni terroristiche, a difesa dell’ordine democratico, e questo nonostante ne vedessero perfettamente i gravissimi limiti. Oggi il medesimo coraggio – ma soprattutto la medesima chiarezza – non si intravede nel gruppo dirigente del Pd, timoroso di perdere il sostegno dell’opinione pubblica più radicalizzata e sempre tentato da improbabili mobilitazioni antifasciste, contro le “torsioni” e le “derive” autoritarie della nostra democrazia.

Per non parlare dell’abisso culturale che separa i “cattivi maestri” di ieri dal trio Albanese-Thunberg-Salis che impazza ai giorni nostri. Ma questa forse è una fortuna: la faziosità e la povertà di pensiero critico delle “cattive maestre” è un punto a favore della democrazia.

[articolo uscito sulla Ragione il 2 dicembre 2025]

Guerra e retoriche

3 Dicembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Vistodagenova

“Non si vede—ha scritto Edgar Morin in un editoriale del ‘Manifesto’ del 28 novembre u.s., Lo spettro russo e il degrado delle democrazie—come una pace giusta possa mettere le province russofone sotto il controllo di uno stato ucraino che ha bandito la lingua russa, la sua cultura, la sua musica.”. “La pace giusta dovrebbe comportare l’indipendenza politica e militare dell’Ucraina” ma dovrebbe, altresì, ”confermare la russizzazione delle province separatiste e uno statuto per la Crimea, che nel 2014 includeva 1.400.00 russi, 400.000 ucraini, 300.000 tartari, primi abitanti della Crimea” .Sono molti gli italiani che, a destra, al centro, a sinistra condividono le tesi di Morin, ”uno dei massimi intellettuali contemporanei”, ma, a riprenderle, si corre il rischio di essere etichettati come amici di Putin. Viene in mente  la gogna mediatica cui fu sottoposto Benedetto Croce nel 1914 per non aver aderito subito al fronte democratico che si batteva contro gli autoritari imperi centrali (magari con un alleato come la Russia zarista i cui governi certo non si ispiravano alla filosofia di Montesquieu). Il filosofo napoletano venne soprannominato von Kreuz e il paese entrò, col radioso maggio, nella guerra che avrebbe segnato la finis Europae e fatto registrare milioni di morti, distruzioni spaventose e vuoti di potere, presto riempiti dai primi regimi totalitari della storia, nazista e comunista.

Beninteso, non m’interessa stabilire chi abbia ragione nel conflitto in corso. A farmi riflettere è la censura del dibattito pubblico, come se già fossimo in guerra contro Putin e tenuti, quindi, a non consentire che la propaganda, le menzogne, le falsità del nemico raggiungano gli italiani. Tutto questo espone i partiti europeisti e atlantisti al rischio di perdere consensi. Conosco persone di destra che votano Marco Rizzo–o il Movimento 5 Stelle–unicamente per le loro posizioni di politica estera e persone di sinistra che non si riconoscono affatto nelle poco credibili crociate in difesa dell’Occidente bandite da politici, giornalisti, intellettuali fino a ieri ferocemente avversi alle democrazie capitalistiche e che, pertanto, non vanno più a votare. La guerra è una cosa brutta, sporca e cattiva e accusare la Casa bianca di svendere l’Ucraina alla Russia, pur di far tacere i cannoni ,è indice solo della superficialità  da sempre inseparabile dallo stile retorico nazionale.

Professore Emerito di  Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

 

[Articolo pubblicato su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 2 dicembre 2025]

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