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Politica

Sull’avventura della Flottiglia – La solitudine dei moderati

8 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Sulla giustezza della missione della Flottiglia, e sull’opportunità delle manifestazioni che l’hanno accompagnata, si possono avere le opinioni più diverse, dall’appoggio incondizionato all’ostilità aperta. Quella che invece non dovrebbe essere troppo controversa (almeno per chi guarda le cose senza lo schermo dell’ideologia) è la specificità del movimento che sta prendendo forma in questi giorni in Italia. Un movimento che, molto più di qualsiasi altro del passato, è basato su un sentimento – di solidarietà e di identificazione – piuttosto che su interessi, rivendicazioni, convinzioni ideologiche. Certo, dentro il movimento non mancano gli attivisti politici più o meno radicali, ma la grande maggioranza di coloro che sono scesi in piazza (più di 2 milioni secondo la Cgil, meno di 400 mila secondo il Ministero dell’Interno) lo hanno fatto essenzialmente mossi dall’emozione e dall’indignazione per le sofferenze del popolo palestinese, impietosamente mostrate per mesi dai maggiori media. Quanto alle violenze che hanno turbato manifestazioni fondamentalmente pacifiche, non vi è dubbio che hanno coinvolto una minoranza (quanto piccola nessuno può dirlo con precisione, ma siamo nei pressi dell’1%).

Tutto bene, dunque?

Non è di questa opinione Sergio Cofferati, uno dei più importanti dirigenti Cgil degli ultimi decenni. In una intervista uscita sulla Stampa l’ex leader sindacale (oltreché ex sindaco di Bologna), dopo aver notato la spontaneità e la non politicità della “folla” che ha riempito le piazze, non esita a denunciare – sia pure nel solito modo ellittico dei politici – gli aspetti problematici del nuovo movimento. Che sono essenzialmente tre: primo, le violenze di piazza; secondo, gli slogan antisemiti; terzo la tendenza (della sinistra, ma questo Cofferati non lo dice) a minimizzare le une e gli altri.

Che un personaggio come Cofferati, indubbiamente progressista ed eminenza del mondo sindacale, avverta e denunci i pericoli della violenza di piazza è senz’altro un fatto positivo. E tuttavia è la natura dei pericoli individuati dal leader sindacale che lascia perplessi. Per Cofferati la timidezza nella condanna dell’estremismo è pericolosa essenzialmente perché delegittima il movimento, riduce il consenso intorno ad esso, e può provocare un “riflusso d’ordine”, con annessa criminalizzazione del dissenso da parte di Giorgia Meloni. Non gli viene minimamente in testa che il vero pericolo che stiamo correndo è l’ulteriore imbarbarimento del confronto politico, che di fatto sta emarginando, intimidendo, colpevolizzando chiunque non sia schierato “senza sé e senza ma” con le ragioni dei Palestinesi. Quando tutto lo star system si schiera da una parte, quando università e istituzioni culturali chiudono gli spazi di agibilità a chi è ebreo o collabora con Israele, quando chi non si allinea agli slogan della folla viene investito dall’odio e accusato di disumanità, quel che si viene a instaurare è un clima intimidatorio, che è quanto di più anti-democratico si possa immaginare. Perché democrazia non significa solo rifiuto tassativo della violenza, ma anche rispetto delle opinioni di tutti, incluse le più estreme.

È paradossale, ma oggi siamo costretti ad aggiornare la formula: non solo “incluse le opinioni più estreme”, ma anche “incluse le più moderate”. Ossia di chi, o per intuito o perché ha studiato la storia, pensa che – nel conflitto israelo-palestinese – non tutte le ragioni stiano da una parte sola, e la via della pace sia stata preclusa anche dalle classi dirigenti arabe. Un recentissimo sondaggio di Mannheimer (in uscita oggi su Italia Oggi) rivela che più di 1 italiano su 2 è perplesso, o addirittura critico, sulla missione della Flottiglia. E le perplessità aumentano fra indecisi e astenuti: 2 su 3 non si pronunciano, o disapprovano la missione.

Chi vuole conquistare il voto degli indecisi farebbe bene a non dimenticarlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 7 ottobre 2025]

Eredità storiche. Il partito d’Azione e l’Italia di oggi

7 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia, parlar male del Partito d’Azione è, come si diceva un tempo, parlar male di Garibaldi. E se ne comprendono le ragioni. Gli azionisti —includendo nella categoria i seguaci  liberalcomunisti di Piero Gobetti e i socialisti liberali di Carlo Rosselli — tra il primo e il secondo dopoguerra hanno espresso una cultura politica di altissima cifra morale e intellettuale. Basti pensare a storici come Franco Venturi e Leo Valiani, a filosofi come Guido De Ruggiero, Norberto Bobbio, Guido Calogero, per non parlare dei politici, dei letterati e degli artisti che fecero parte di quella che fu una vera e propria ‘scuola di pensiero’. Si rifacevano tutti alla componente laica e democratica del Risorgimento anche se, al suo interno, si sentivano più vicini a Carlo Cattaneo che a Giuseppe Mazzini. Al centro delle loro riflessioni furono sempre le ‘illusioni perdute’ che la lotta per l’unità d’Italia aveva depositato negli animi dei suoi protagonisti.” Oh non per questo dal fatal di Quarto / Lido il naviglio dei mille salpò, / Né Rosolino Pilo aveva sparto / Suo gentil sangue che vantava Angiò”, avrebbero potuto ripetere col Giosuè Carducci de La consulta araldica (1869). Anche se il poeta maremmano non era particolarmente amato, giacché nel suo cuore c’erano l’Italia e la sua grandezza mentre gli azionisti, pensavano all’’Europa vivente’ alla quale si avrebbe dovuta ricongiungere l’Italia. L’insoddisfazione per l’Italietta umbertina a giolittiana, però, li accomunava a larga parte del ceto intellettuale prefascista, nel quale era raro trovare voci liberali– specialmente nella repubblica delle lettere. Per loro il paese, malgovernato da secoli, assoggettato ai preti, oggetto di invasioni e occupazioni straniere, era un vasto campo che andava ‘bonificato’ e redento. Le sue carenze culturali erano antiche e nei settori in cui lo spirito moderno aveva fatto progredire l’Europa, facendone il centro e l’arbitro del mondo—l’economia, le istituzioni politiche, la scienza—venivano fuori tutta la miseria e l’arretratezza dello stivale. Si trattava di reazioni e di stati d’animo comprensibili anche se portavano a sottovalutare i pur rilevanti progressi che la Destra e la Sinistra storica avevano fatto compiere. E’ innegabile che il paese fosse segnato da un ‘ritardo’ che non era agevole superare e che le classi dirigenti non sempre fossero all’altezza dei loro compiti.

 E tuttavia la cultura azionista ha instillato in quanti erano sinceramente interessati alla politica modi di pensiero, a ben guardare, incompatibili con la democrazia liberale. A cominciare dalla divisione degli italiani tra una ristretta élite di persone dabbene solleciti della ‘rei publicae salus’ e una massa amorfa—sparsa soprattutto nelle campagne e nella provincia profonda— caratterizzata da familismo amorale e dal perseguimento del ‘particulare’ e, pertanto, portata a frenare ogni inno-vazione. In quest’ottica, la chiesa e, in seguito, i grandi partiti proletari venivano accusati di svolgere un’opera di diseducazione nel senso che delle masse assecondavano gli atavismi, i pregiudizi, i costumi premoderni—nel caso della chiesa—o favorivano le pulsioni demagogiche—nel caso dei partiti proletari.

 Gli azionisti, beninteso, rifuggivano dalla violenza giacobina ma del giacobinismo condividevano il pregiudizio che i costumi, i valori antichi, le credenze ereditate dal passato dovessero venir cancel-lati—soprattutto grazie a strategie scolastiche non poco esigenti—se si volevano far nascere gli ‘Italiani  nuovi’. Era, questo, uno ‘stile di pensiero’ quanto mai illiberale e potenzialmente tota-litario. Il governo degli uomini infatti non è assimilabile a un’opera di bonifica ma a un’arte combi-natoria, che si serve dell’esistente (e persino dei suoi pregiudizi) per avanzare sulle vie dell’avvenire, con meno traumi possibili. E’ la grande lezione di Vincenzo Cuoco, il primo liberale italiano,  ammiratore dei protagonisti della Repubblica partenopea, ma consapevole che la loro estraneità a un liberalismo, che oggi definiremmo ‘storicistico e comunitario’, li avrebbe portati alla rovina.

 Gli azionisti, non amavano gli Italiani ‘così come sono’. Non a caso furono i più implacabili avversari dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini—il movimento nato nel secondo dopoguerra per protestare conto l’indottrinamento antifascista   di massa—-e i più lontani dal ‘piccolo mondo’ di Giovannino Guareschi. Ripugnava ad essi l’atteggiamento bonario nei confronti della ‘gente meccanica e di piccolo affare’, così poco disposta a impegnarsi nella ‘riforma morale e intellettuale’ della nazione.

 Non meraviglia, quindi, che non pochi azionisti, in tutta onestà, avessero, sulle prime, simpatizzato col fascismo e che, nel secondo dopoguerra, avessero guardato con interesse alla sinistra comunista (con la speranza di guarirla dal materialismo storico e dalle utopie collettiviste ed egualitarie). In fondo, il fascismo e il comunismo non volevano, anch’essi,  in modi diversi, ‘bonificare’ gli italiani, sottoporli a una massiccia cura di idealismo, guarirli dai mali storici?<E’ l’Italia vera, su cui bisogna contare>, scriveva Giovanni Gentile:<di contro ad essa la borghesia degli avvocati, dei professori, degli impiegati, dei giornalisti, avventurieri, ciarlatani, dilettanti oziosi, cullanti la loro vanità nella pratica demolitrice di tutto e di tutti|…| Tutta l’Italia inferma, vecchia e tarlata, che dev’essere spazzata via dall’altra>.

 Di qui un altro veleno per una ‘democrazia a norma’: per riprendere la dicotomia di Francesco Alberoni, la legittimazione etica e politica dei movimenti rispetto alle istituzioni, la fiducia risposta in ciò che nasce spontaneamente dal basso per la sua (presunta) capacità di rigenerare ciò che sta in alto e che rischia di isterilirsi nella gestione dell’esistente. Forse è tempo, per fare un esempio significativo, di spiegare storicamente le fortissime simpatie mostrate dal Ferruccio Parri, direttore dell’’Astrolabio’, nei confronti  della contestazione sessantottesca, e di riportarle a una Welt-anschauung che ancora oggi seguita a ispirare giornali, case editrici, palinsesti televisivi.

Lettera 150, 1° Ottobre 2025

Bloccare tutto per la Flottiglia? – Sciopero generale, un’arma spuntata

6 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Ha creato qualche malumore il sarcasmo con cui Giorgia Meloni ha stigmatizzato lo sciopero generale di ieri a sostegno della flottiglia. Notando che “week end lungo e rivoluzione non stanno insieme” ha messo il dito sulla piaga: è anni che gli scioperi vengono indetti a ridosso del fine settimana, una pratica che stride con gli appelli alla “rivolta sociale”.

È stato un infortunio? Una voce del sen fuggita, che se potesse tornare indietro non ripeterebbe?

Ho l’impressione di no. Prendendo una posizione netta contro lo sciopero proclamato dalla Cgil di Landini e dalla Usb (Unione sindacale di base) credo che la premier abbia ritenuto di interpretare un sentimento piuttosto diffuso nell’elettorato, ma che resta per lo più allo stato latente. Può sembrare strano, se non contradditorio, ma a mio parere il severo giudizio che l’opinione pubblica ha maturato su Israele (3 italiani su 4 condannano l’intervento a Gaza) non convive con un corrispondente sostegno a tutto ciò che partiti, sindacati e movimenti stanno facendo contro Israele stesso. Un conto, infatti, è l’empatia per il popolo palestinese – un sentimento quotidianamente rinforzato dai media, in Italia molto più che altrove – un conto è l’approvazione per il ricorso sistematico allo strumento dello sciopero, in modalità più o meno selvagge ma sempre foriere di disagi (e qualche volta di violenze e danni materiali ingenti) a scapito di chi vuole o deve viaggiare, lavorare, studiare, curarsi.

Forse è venuto il momento di prenderne atto: il ricorso eccessivo e improprio all’arma dello sciopero la sta rendendo sempre più obsoleta come strumento di lotta, un po’ come è successo per l’istituto del referendum, consunto e ormai quasi sepolto dall’uso eccessivo che i suoi promotori ne hanno fatto. Sfortunatamente da anni in Italia mancano numeri ufficiali e credibili sul numero di adesioni ai vari scioperi, che vengono monitorati accuratamente solo nella Pubblica Amministrazione, ma le poche e imprecise cifre che circolano sono sufficienti a dare un’idea degli ordini di grandezza in gioco. A fronte di 40 milioni di italiani critici con Israele, anche le maggiori piazze restano sempre al di sotto – qualche volta molto al di sotto – delle decine di migliaia di manifestanti. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza: nello sciopero del 22 settembre, indetto da sindacati di base (Usb) e altre sigle, le adesioni nella Pubblica amministrazione (l’unico settore che fornisce dati certi) non hanno raggiunto il 6%, e il numero totale di assenze per sciopero sono state un quarto di quelle “per altri motivi”. E dire che quello di lunedì 22 settembre era andato decisamente meglio del quasi-flop di venerdì 19, quando a proclamare lo sciopero era stata la CGIL.

Difficile fare calcoli precisi, ma – a meno di ipotizzare un comportamento completamente difforme del settore privato – si può stimare che il 22 settembre, su 40 milioni di italiani che disapprovano Israele, tra lavoratori in sciopero e cittadini in piazza la mobilitazione abbia coinvolto 2 milioni di persone, circa il 5% del totale dei critici di Netanyahu (sulla manifestazione di ieri bisognerà aspettare qualche giorno per fare i conti): nulla di paragonabile alle grandi mobilitazioni del passato,

Che lo sciopero sia uno strumento in declino non è cosa di cui stupirsi troppo. Il fenomeno è in atto in tutti i paesi europei da almeno un quarto di secolo, e ha cause strutturali ben note, prima fra tutte la contrazione del settore industriale e la terziarizzazione. In Italia, tuttavia, è lecito chiedersi se – a minare il successo degli scioperi – non agiscano anche altri fattori, non solo economici. Un primo fattore è la concentrazione delle astensioni dal lavoro nel settore dei trasporti pubblici, il più capace di propagare disagi: la solidarietà con gli scioperanti è messa a dura prova da forme di lotta che non colpiscono “il padrone” ma i comuni cittadini.

Ma il fattore più importante, probabilmente, è un altro: l’estrema e talora del tutto irragionevole politicizzazione degli scioperi. Sempre più sovente lo sciopero viene proclamato contro il governo, o comunque non su temi specifici, che hanno a che fare con la condizione dei lavoratori (salari, occupazione, sicurezza sul lavoro). E questo vale in special modo per il maggiore sindacato italiano, la Cgil, il cui leader si muove da tempo come un vero e proprio soggetto politico, con un’agenda in materia di immigrazione (referendum di maggio sulla cittadinanza) e persino di politica internazionale (scioperi pro Gaza).

La vocazione a trasformarsi in soggetto politico è, almeno in questo momento, così forte da trascinare la Cgil in azioni contra legem, come lo sciopero di ieri nei servizi pubblici. Quello sciopero è stato proclamato violando l’obbligo legale di preavviso di almeno 10 giorni, previsto dalla legge 146 del 1990. E la giustificazione addotta è illuminante: invocando la “difesa dell’ordine costituzionale” (uno dei pochi casi in cui la legge permette di scioperare senza preavviso) il sindacato non fa che confessare la propria trasformazione in soggetto politico, che non solo pretende di scioperare su questioni genuinamente politiche, ma pretende persino di fornire la corretta interpretazione della Costituzione, come se un indirizzo di politica estera sgradito al sindacato potesse essere considerato eversivo dell’ordine costituzionale.

Perché questa deriva, che fortunatamente non trascina tutte le sigle sindacali?

I maligni da tempo suggeriscono: perché Landini, in vista delle prossime elezioni politiche, aspira a prendere il posto di Schlein e Conte come leader del centro-sinistra. Da sociologo, mi sento di avanzare un’ipotesi più terra terra: la metamorfosi in soggetto politico è frutto degli insuccessi come attore economico. Un sindacato che ormai è fatto soprattutto di pensionati, e che è sostanzialmente assente nei teatri più difficili (lavoro nero e piccole aziende), è naturalmente portato a reinventarsi, cercando vie di sopravvivenza: la politicizzazione è una di queste.

PS. Le ultime notizie segnalano scontri, devastazioni e violenze. È paradossale per uno sciopero proclamato a sostegno della Flottiglia, la quale – comunque la si pensi – un grandissimo merito l’ha avuto: aver condotto un’azione assolutamente pacifica, in perfetto spirito gandhiano.

[articolo uscito sul Messaggero il 4 ottobre 2025]

Sulla immaturità dell’opinione pubblica – Due guerre, due misure

1 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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In un recente interessante articolo su Repubblica Ezio Mauro osserva con compiacimento il risveglio dell’opinione pubblica occidentale che, colpita dalla tragedia di Gaza, finalmente “agisce con autonomia e spontaneità”, come “soggetto indipendente” di cui partiti e governo “devono tenere conto”.

E tuttavia il suo compiacimento per il formarsi di un blocco di opinione che pone risolutamente la questione di Gaza non gli impedisce di sollevare alcuni interrogativi del tutto logici, ma che in questo momento pochi hanno il coraggio di porre. Primo, come mai la solidarietà con il popolo palestinese elude la questione della “rappresentanza terroristica che Hamas fa dei palestinesi”, ed evita accuratamente il problema degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi? Secondo, come mai l’opinione pubblica è compattamente schierata con le vittime civili palestinesi, ma è molto più tiepida sulle atrocità subite dai cittadini ucraini?

Mi sembrano due domande importanti, ma le risposte mi convincono solo in parte. Secondo l’ex direttore di Repubblica la differenza starebbe nella gestione delle due crisi, tutta politico-giuridica quella di Zelensky, tutta emotiva (e mediatica, aggiungo io) quella dei Palestinesi. Di conseguenza, l’opinione pubblica si sentirebbe pienamente coinvolta nella tragedia mediorientale, ma assai meno in quella ucraina. Anzi, se ho ben compreso il ragionamento, quella che chiamiamo opinione pubblica non sarebbe esattamente tale, perché la componente emotiva sarebbe prevalente su quella razionale. Insomma, il “blocco di opinione” attuale sarebbe una “forma sociale transitoria”, più simile a una folla che a un soggetto collettivo maturo e stabile.

Temo che le cose stiano molto peggio di così. Quando si nota l’asimmetria di reazioni alle due guerre – Gaza e Ucraina – si dimentica un fattore cruciale: i media. Una ricognizione imparziale di quel che giornali, radio, televisioni, siti internet hanno fatto in questi ultimi due anni non può che mettere in evidenza il doppio standard di attenzione. Le immagini dei bambini di Gaza hanno letteralmente invaso le nostre vite, mentre quelle dei bambini ucraini non solo uccisi, ma rapiti e deportati dai russi, hanno attirato un’attenzione incomparabilmente inferiore (in un rapporto che, a spanne, mi sento di valutare in 1 a 20). Che cosa penserebbe oggi l’opinione pubblica se i media avessero snobbato il conflitto israelo-palestinese, e ci avessero martellati con racconti patetici di bimbi rapiti, madri disperate, famiglie distrutte, quotidiane violenze dei soldati russi? E dire che il teatro di guerra ucraino è molto più accessibile alla stampa del teatro di Gaza, e dunque – sulla carta – avremmo dovuto aspettarci molti più reportage anti-russi che anti-israeliani.

E qui veniamo a una seconda, decisiva, differenza. Le vittime palestinesi hanno dalla loro un formidabile vantaggio mediatico: sono soggetti poveri, e oppressi da una potenza occidentale. Questo ne fa il soggetto ideale per una narrazione altruistico-emotiva, che ha l’opportunità di combinare in un unico copione due formidabili meme della cultura occidentale: l’ideale cristiano-marxista del riscatto degli ultimi, e l’odio per la propria civiltà (“il singhiozzo dell’uomo bianco”, per dirla con Pascal Bruckner).

Né l’uno né l’altro potevano essere attivati nel caso dell’aggressione di Putin all’Ucraina. Gli Ucraini non sono percepiti né come poveri, né come un popolo oppresso. Quanto alla Russia, non è una potenza occidentale, capitalistica, opulenta. Possiamo biasimare la violazione del diritto internazionale, l’aggressione a uno Stato sovrano, ma ci è difficile attivare quei sentimenti di identificazione e ripulsa che sentiamo emergere così forti quando i media ci mostrano i fotogrammi della distruzione di Gaza.

In questo senso si comprende perfettamente il doppio standard dei media. È un fatto di notiziabilità e di share: quel che ha funzionato con i bambini palestinesi, non poteva funzionare altrettanto bene con quelli ucraini. E il discorso si farebbe ancora più mesto se dovessimo ricordare le tragedie e i massacri completamente ignorati dai nostri media e, per riflesso, dalle nostre opinioni pubbliche, come le recentissime guerre civili in Sudan e in Myanmar.

La realtà, tanto evidente quanto difficile da pronunciare, è che le nostre opinioni pubbliche sono fortemente eterodirette, e profondamente immature. Se non lo fossero, spenderebbero la maggior parte delle loro energie per capire i problemi e immaginare soluzioni, e non per coltivare emozioni che fanno sentire buoni, umani, o “dalla parte giusta della storia”.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 settembre 2025]

Invecchiamento e welfare – Anziani, perché è un problema (soprattutto) italiano

29 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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I recenti dati Istat sulla spesa per gli anziani, di cui si è ampiamente parlato nei giorni scorsi, pongono certamente un problema di equità territoriale: la spesa è squilibrata non solo fra nord, centro e sud (a danno del sud e a favore del nord), ma anche fra zone urbanizzate e piccoli centri delle zone interne. E tuttavia, se guardiamo le cose in prospettiva, quello degli squilibri territoriali è il problema minore, quanto meno nel senso che è risolvibile: si tratta “solo” (si fa per dire) di ripartire meglio le scarse risorse disponibili.

Il vero problema, che darà filo da torcere alle prossime generazioni, è il rapidissimo processo di invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati, europei ed extra-europei. Un fenomeno in atto da decenni, che ha due determinanti fondamentali: il crollo delle nascite, in buona misura dovuto alle scelte esistenziali dei cittadini dei paesi ricchi, e l’allungamento della speranza di vita, in buona misura dovuto ai progressi della medicina.

Le conseguenze del rapido invecchiamento della popolazione sono note. Una quota elevata di anziani mette in crisi il sistema pensionistico, ponendo la politica di fronte al dilemma: pensioni più basse o maggiori prelievi contributivi su chi lavora? Una durata maggiore della vita, infatti, fa lievitare i costi del sistema sanitario, che non dipendono solo da quanti vecchi ha in carico, ma anche da quanto è lunga la loro vita residua.

Quello su cui forse non riflettiamo abbastanza, però, è quanto differenti siano le situazioni dei vari paesi, anche all’interno della comune famiglia europea, e quanto particolare (per non dire drammatica) sia la situazione dell’Italia.

Nel nostro paese, infatti, si cumulano tutti i fattori che rendono esplosivo il problema degli anziani. Tanto per cominciare, il tasso di fecondità (numero di figli per donna in età fertile) è fra i più bassi del mondo: fra le società avanzate, solo Singapore, Malta e Spagna fanno meno figli di noi. Di qui un inevitabile squilibrio fra la popolazione in età da lavoro e la popolazione anziana, le cui pensioni – specie in un sistema a ripartizione come il nostro – dipendono dai contributi versati dagli occupati. Uno squilibrio, questo, aggravato dal fatto che in Italia non hanno mai decollato i sistemi pensionistici complementari (secondo e terzo pilastro della previdenza).

Questo squilibrio è aggravato dal fatto che il nostro tasso di occupazione, a dispetto dei notevoli progressi degli ultimi anni (il milione di nuovi occupati vantato da Giorgia Meloni), resta uno dei più bassi dell’occidente. E meno lavoratori occupati significa meno contributi previdenziali, che a loro volta significano meno risorse per le pensioni degli anziani.

Infine, non si può non menzionare un fattore per tanti versi ultra-positivo, ma che  aggrava il problema: l’aspettativa di vita è una delle più alte al mondo, con conseguente pressione sui costi del sistema sanitario.

In breve, in Italia si concentrano i tre fattori che rendono esplosivo il problema dell’invecchiamento della popolazione: meno nascite, meno occupati, più speranza di vita. Con un unico risvolto positivo: l’esercito dei nonni, finché sono in salute, fornisce un contributo fondamentale all’educazione (e alla felicità) dei ragazzi, e di fatto costituisce un pilastro fondamentale del nostro welfare, in questo diversissimo dal sistema che vige nei paesi scandinavi, dove i vecchi sono tenuti lontani dai familiari e abbandonati a sé stessi.

Si possono contrastare queste derive?

Per certi versi no: il crollo della fecondità è un processo planetario, che in Italia è solo più avanti che altrove, e tutt’al più potrebbe essere rallentato.

Per altri versi sì: portare il tasso di occupazione vicino a quello dei paesi nordici si può fare, e in parte si sta già facendo.

Per altri versi ancora, invece, non è proprio il caso: l’allungamento della speranza di vita è una conquista, e sarebbe stolto invidiare i paesi in cui guerre, malattie e modi di vivere dissennati accorciano la vita. Quello che è certo, però, è che le risorse per rendere vivibili (e dignitosi) gli ultimi anni sono, oltreché mal distribuite, gravemente insufficienti. E per renderle adeguate le vie sono solo due: rendere territorialmente meno squilibrata la spesa pro capite, ovviamente, e aumentare la quota di Pil dedicata alla sanità e all’assistenza, compresi i necessari investimenti in ricerca, infrastrutture, edilizia.

Il problema è che – a parte la consueta, ignorata e non decisiva via della spending review – tale aumento di spesa può essere realizzato solo in due modi: sottraendo risorse ad altri impieghi (ma quali? scuola, trasporti, infrastrutture, armi…), o permettendo all’economia di crescere e creare nuovi posti di lavoro. Che sono l’unica polizza di assicurazione per il futuro del nostro stato sociale.

[articolo uscito sul Messaggero il 27 settembre 2025]

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