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Politica

Dopo le Regionali – Chi deve comandare a sinistra?

19 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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La vittoria dell’alleanza progressista in Toscana ha riacceso qualche speranza a sinistra, dopo le sconfitte nelle Marche e in Calabria. Le speranze di un’inversione di tendenza, tuttavia, sono mitigate dalle preoccupazioni per l’astensionismo, cresciuto di ben 15 punti in Toscana, e per la crisi del Movimento Cinque Stelle, ossia di quello che – sulla carta – è il principale alleato del Pd in vista delle elezioni politiche del 2027. Alcuni analisti e sondaggisti fanno notare che l’astensionismo è un pericolo soprattutto per la sinistra: a differenza che in passato, sarebbero proprio i suoi elettori a disertare le urne quando non apprezzano le proposte dei leader progressisti. I due grandi mali dell’alleanza di sinistra, dunque, sarebbero l’astensionismo e la “evaporazione” del Movimento Cinque Stelle.

Questa analisi, a prima vista, ha una sua plausibilità. La crisi del Movimento Cinque Stelle è conclamata, e l’ascesa del “partito dell’astensione” è da decenni il leitmotiv dei media all’indomani di ogni consultazione elettorale. A ben vedere, però, le cose sono molto più complicate di come appaiono.

Intanto, non è vero che nelle ultime tre consultazioni regionali abbiamo assistito a un’impennata dell’astensionismo. L’impressione di un aumento è dovuta a un banale errore tecnico-metodologico: la partecipazione elettorale viene confrontata con quella del 2020, in cui il dato di Toscana e Marche era inflazionato dall’abbinamento delle Regionali alla consultazione referendaria (molto sentita) sulla riduzione del numero di parlamentari. Se il confronto viene fatto con il 2015, in cui non c’erano altre elezioni, si osserva una perfetta stabilità della partecipazione al voto in tutte e tre le regioni (48% in Toscana, 50% nelle Marche, 44% in Calabria). E nell’unico caso in cui si può fare un confronto con le ultime elezioni regionali (quello della Calabria, che andò al voto nel 2021, in data diversa da quella del referendum) il dato del 2025 è praticamente identico a quello del 2020 (44.4% contro 44.3%). Dunque cominciamo con lo sgombrare il campo dalla prima mina: la crisi della sinistra non è colpa dell’astensionismo.

Ma anche l’altra parte delle preoccupazioni che travagliano la sinistra, ovvero la crisi dei Cinque Stelle, andrebbe riconsiderata alla luce dei dati. È vero che nelle elezioni regionali i Cinque Stelle raccolgono pochi consensi, ed è verissimo che il loro peso elettorale è oggi molto minore di 10 anni fa, e tuttavia se guardiamo ai movimenti più recenti dell’opinione pubblica non sono i Cinque Stelle il vero tallone di Achille della sinistra. La supermedia dei sondaggi calcolata da Youtrend mostra che dopo le elezioni europee del 2024, ovvero nell’ultimo anno e mezzo, il consenso verso i Cinque Stelle è in costante aumento, mentre quello al Partito Democratico è in calo. Il differenziale fra i due partiti era di circa 14 punti (a favore del Pd), ora è sceso a circa 9. L’evaporazione dei Cinque stelle è un fenomeno che riguarda le elezioni locali, ma sul piano nazionale (almeno a stare ai sondaggi) è semmai il Pd a perdere colpi (dal 24 al 22%), mentre i Cinque Stelle sono in lenta ma costante crescita (dal 10 al 13%).

Non solo. Una recentissima indagine di Renato Mannheimer ha scoperto una cosa assolutamente sorprendente. Nonostante il Pd abbia quasi il doppio dei consensi dei Cinque Stelle, l’elettorato progressista preferisce nettamente Giuseppe Conte a Elly Schlein come candidato alla Presidenza del Consiglio per le elezioni del 2027: il leader Cinque Stelle viene scelto dal 34% degli elettori di sinistra, mentre la segretaria del Pd deve accontentarsi del 22% delle indicazioni. E lo scarto fra i due leader è ancora più grande se si considera l’intero elettorato, non solo gli elettori di sinistra: 27% contro 14%.

Come mai?

La spiegazione, probabilmente, sta in una precedente indagine di Mannheimer, condotta poche settimane fa. Da essa emergeva la profonda insoddisfazione dell’elettorato di sinistra per l’operato (o il mancato operato) dell’opposizione, ben maggiore della speculare insoddisfazione dell’elettorato di destra per l’operato del governo. A sinistra gli insoddisfatti sfioravano il 50%, a destra erano meno del 13%. E anche fra gli indecisi coloro che bocciano l’opposizione risultavano più numerosi di coloro che bocciano il governo (79% contro 67%).

Fra i due risultati – preferenza per Conte e insoddisfazione per l’opposizione – un nesso c’è: l’elettorato progressista, proprio perché Schlein è il leader che dà le carte a sinistra, tende a attribuire a lei e non a Conte litigiosità e mancanza di idee del campo largo, e al tempo stesso apprezza la vena populista e soprattutto iper-pacifista del leader Cinque Stelle.

A quanto pare, la questione di chi debba guidare il centro-sinistra è più che mai all’ordine del giorno.

 

 

[articolo uscito sul Messaggero il 17 ottobre 2025]

 

A proposito di un intervento di Baricco – Meglio il XXI secolo?

15 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Il secolo che stiamo vivendo è migliore di quello che ci siamo lascati alle spalle?

Sembra incredibile, ma è proprio questa la pensosa domanda che, nei giorni della pace di Trump, ha sollevato un articolo di Alessandro Baricco uscito sulla piattaforma Substack. Lui tende a rispondere: sì, almeno nelle intenzioni, perché i ragazzi che agitano la bandiera della Palestina hanno voluto prendere congedo dagli orrori del Novecento, un secolo morente ma pericoloso proprio perché morente.

Altri, come Michele Serra, esitano invece a liquidare il Novecento, un secolo che ci ha inflitto due guerre mondiali ma ci ha anche regalato – nella sua seconda metà – cose bellissime come: multilateralismo, collaborazione internazionale, Unione Europea,  femminismo, pacifismo, liberazione sessuale, il “piglio antigerarchico delle nuove generazioni”, e “volendo anche la conquista dello spazio per mano di americani e russi”. Ovviamente è stato facilissimo ricordare a Serra gli orrori e i crimini della seconda metà del Novecento, a partire dalle decine di milioni di morti dei regimi comunisti in Unione Sovietica, Cina, Cambogia.

In realtà la questione è irrisolvibile non solo perché ognuno può scegliere a proprio piacimento il menù con cui preferisce descrivere un determinato secolo, ma perché – alla fine – la diagnosi dipende soprattutto dai fantasmi di chi ne discute. C’è chi, come Serra, non sa rinunciare all’idea che i progressisti siano stati capaci di migliorare il mondo, e c’è chi, come Baricco almeno dal tempo de I barbari (un libro del 2006), sembra ossessionato dal timore di apparire poco al passo con i tempi o, peggio, di finire nella schiera dei nostalgici, che rimpiangono il bel tempo antico. Di qui il sapore di panglossismo, di benevola fiducia nel presente e nelle virtù nascoste delle nuove generazioni, che emana da tanti suoi scritti.

Il fatto che, così posta, la questione del confronto fra i due secoli non sia dirimibile, non significa però che ogni confronto sia impossibile. Tutto sta a scegliere un terreno non troppo friabile e, soprattutto, non troppo condizionato dai giudizi di valore. Ma esiste un simile terreno?

Sì, un terreno che dovrebbe mettere d’accordo tutti è quello dell’evoluzione della violenza, sia collettiva (guerra) sia individuale (omicidi). Si può dire che la violenza, pur tuttora presente nel mondo, è in diminuzione nel nuovo secolo?

Purtroppo i dati al riguardo sono controversi e raramente raccolti in modo sistematico. Tuttavia almeno due tendenze sembrano abbastanza chiare. Per quanto riguarda le guerre (fra stati e interne), la tendenza alla diminuzione del numero delle vittime (civili e militari) che si osservava negli ultimi decenni del Novecento pare essersi invertita da tempo, e non solo in concomitanza o a causa dei conflitti armati più recenti (Ucraina Gaza, Sudan, Myanmar). E pensando a quanti e quanto sanguinosi eccidi si verificano da anni in ogni angolo del pianeta, fa riflettere quanta poca attenzione vi abbiano riservato le generazioni ultra-sensibili al dramma di Gaza. Chi vede un salto di sensibilità etica nelle nuove generazioni, forse dovrebbe domandarsi quanto tale salto sia dovuto a una nuova coscienza civile e quanto sia invece il risultato di una completa dipendenza dai media e dalla rete, letteralmente intasati dal dramma palestinese ma sostanzialmente insensibili alla maggior parte degli altri.

Per quanto riguarda la violenza individuale forse dovremmo rivedere l’entusiastica diagnosi di Steven Pinker, che nel suo libro Il declino della violenza (del 2011) annunciava che la nostra è l’epoca più pacifica delle storia, e che l’umanità non è mai stata così sicura come oggi. Sul fatto che oggi si uccida fra 50 e 100 volte di meno che nel tardo Medioevo sussistono pochi dubbi, ma i dati più recenti mostrano che nel nuovo secolo il trend di diminuzione degli omicidi si è interrotto, specie nelle società avanzate. Fra queste ultime sono molto più numerose quelle in cui il numero di vittime di omicidio aumenta che quelle in cui diminuisce: un segnale preoccupante, che va contro il senso comune progressista.

[articolo uscito sulla Ragione il 14 ottobre 2025]

Sull’avventura della Flottiglia – La solitudine dei moderati

8 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Sulla giustezza della missione della Flottiglia, e sull’opportunità delle manifestazioni che l’hanno accompagnata, si possono avere le opinioni più diverse, dall’appoggio incondizionato all’ostilità aperta. Quella che invece non dovrebbe essere troppo controversa (almeno per chi guarda le cose senza lo schermo dell’ideologia) è la specificità del movimento che sta prendendo forma in questi giorni in Italia. Un movimento che, molto più di qualsiasi altro del passato, è basato su un sentimento – di solidarietà e di identificazione – piuttosto che su interessi, rivendicazioni, convinzioni ideologiche. Certo, dentro il movimento non mancano gli attivisti politici più o meno radicali, ma la grande maggioranza di coloro che sono scesi in piazza (più di 2 milioni secondo la Cgil, meno di 400 mila secondo il Ministero dell’Interno) lo hanno fatto essenzialmente mossi dall’emozione e dall’indignazione per le sofferenze del popolo palestinese, impietosamente mostrate per mesi dai maggiori media. Quanto alle violenze che hanno turbato manifestazioni fondamentalmente pacifiche, non vi è dubbio che hanno coinvolto una minoranza (quanto piccola nessuno può dirlo con precisione, ma siamo nei pressi dell’1%).

Tutto bene, dunque?

Non è di questa opinione Sergio Cofferati, uno dei più importanti dirigenti Cgil degli ultimi decenni. In una intervista uscita sulla Stampa l’ex leader sindacale (oltreché ex sindaco di Bologna), dopo aver notato la spontaneità e la non politicità della “folla” che ha riempito le piazze, non esita a denunciare – sia pure nel solito modo ellittico dei politici – gli aspetti problematici del nuovo movimento. Che sono essenzialmente tre: primo, le violenze di piazza; secondo, gli slogan antisemiti; terzo la tendenza (della sinistra, ma questo Cofferati non lo dice) a minimizzare le une e gli altri.

Che un personaggio come Cofferati, indubbiamente progressista ed eminenza del mondo sindacale, avverta e denunci i pericoli della violenza di piazza è senz’altro un fatto positivo. E tuttavia è la natura dei pericoli individuati dal leader sindacale che lascia perplessi. Per Cofferati la timidezza nella condanna dell’estremismo è pericolosa essenzialmente perché delegittima il movimento, riduce il consenso intorno ad esso, e può provocare un “riflusso d’ordine”, con annessa criminalizzazione del dissenso da parte di Giorgia Meloni. Non gli viene minimamente in testa che il vero pericolo che stiamo correndo è l’ulteriore imbarbarimento del confronto politico, che di fatto sta emarginando, intimidendo, colpevolizzando chiunque non sia schierato “senza sé e senza ma” con le ragioni dei Palestinesi. Quando tutto lo star system si schiera da una parte, quando università e istituzioni culturali chiudono gli spazi di agibilità a chi è ebreo o collabora con Israele, quando chi non si allinea agli slogan della folla viene investito dall’odio e accusato di disumanità, quel che si viene a instaurare è un clima intimidatorio, che è quanto di più anti-democratico si possa immaginare. Perché democrazia non significa solo rifiuto tassativo della violenza, ma anche rispetto delle opinioni di tutti, incluse le più estreme.

È paradossale, ma oggi siamo costretti ad aggiornare la formula: non solo “incluse le opinioni più estreme”, ma anche “incluse le più moderate”. Ossia di chi, o per intuito o perché ha studiato la storia, pensa che – nel conflitto israelo-palestinese – non tutte le ragioni stiano da una parte sola, e la via della pace sia stata preclusa anche dalle classi dirigenti arabe. Un recentissimo sondaggio di Mannheimer (in uscita oggi su Italia Oggi) rivela che più di 1 italiano su 2 è perplesso, o addirittura critico, sulla missione della Flottiglia. E le perplessità aumentano fra indecisi e astenuti: 2 su 3 non si pronunciano, o disapprovano la missione.

Chi vuole conquistare il voto degli indecisi farebbe bene a non dimenticarlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 7 ottobre 2025]

Eredità storiche. Il partito d’Azione e l’Italia di oggi

7 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia, parlar male del Partito d’Azione è, come si diceva un tempo, parlar male di Garibaldi. E se ne comprendono le ragioni. Gli azionisti —includendo nella categoria i seguaci  liberalcomunisti di Piero Gobetti e i socialisti liberali di Carlo Rosselli — tra il primo e il secondo dopoguerra hanno espresso una cultura politica di altissima cifra morale e intellettuale. Basti pensare a storici come Franco Venturi e Leo Valiani, a filosofi come Guido De Ruggiero, Norberto Bobbio, Guido Calogero, per non parlare dei politici, dei letterati e degli artisti che fecero parte di quella che fu una vera e propria ‘scuola di pensiero’. Si rifacevano tutti alla componente laica e democratica del Risorgimento anche se, al suo interno, si sentivano più vicini a Carlo Cattaneo che a Giuseppe Mazzini. Al centro delle loro riflessioni furono sempre le ‘illusioni perdute’ che la lotta per l’unità d’Italia aveva depositato negli animi dei suoi protagonisti.” Oh non per questo dal fatal di Quarto / Lido il naviglio dei mille salpò, / Né Rosolino Pilo aveva sparto / Suo gentil sangue che vantava Angiò”, avrebbero potuto ripetere col Giosuè Carducci de La consulta araldica (1869). Anche se il poeta maremmano non era particolarmente amato, giacché nel suo cuore c’erano l’Italia e la sua grandezza mentre gli azionisti, pensavano all’’Europa vivente’ alla quale si avrebbe dovuta ricongiungere l’Italia. L’insoddisfazione per l’Italietta umbertina a giolittiana, però, li accomunava a larga parte del ceto intellettuale prefascista, nel quale era raro trovare voci liberali– specialmente nella repubblica delle lettere. Per loro il paese, malgovernato da secoli, assoggettato ai preti, oggetto di invasioni e occupazioni straniere, era un vasto campo che andava ‘bonificato’ e redento. Le sue carenze culturali erano antiche e nei settori in cui lo spirito moderno aveva fatto progredire l’Europa, facendone il centro e l’arbitro del mondo—l’economia, le istituzioni politiche, la scienza—venivano fuori tutta la miseria e l’arretratezza dello stivale. Si trattava di reazioni e di stati d’animo comprensibili anche se portavano a sottovalutare i pur rilevanti progressi che la Destra e la Sinistra storica avevano fatto compiere. E’ innegabile che il paese fosse segnato da un ‘ritardo’ che non era agevole superare e che le classi dirigenti non sempre fossero all’altezza dei loro compiti.

 E tuttavia la cultura azionista ha instillato in quanti erano sinceramente interessati alla politica modi di pensiero, a ben guardare, incompatibili con la democrazia liberale. A cominciare dalla divisione degli italiani tra una ristretta élite di persone dabbene solleciti della ‘rei publicae salus’ e una massa amorfa—sparsa soprattutto nelle campagne e nella provincia profonda— caratterizzata da familismo amorale e dal perseguimento del ‘particulare’ e, pertanto, portata a frenare ogni inno-vazione. In quest’ottica, la chiesa e, in seguito, i grandi partiti proletari venivano accusati di svolgere un’opera di diseducazione nel senso che delle masse assecondavano gli atavismi, i pregiudizi, i costumi premoderni—nel caso della chiesa—o favorivano le pulsioni demagogiche—nel caso dei partiti proletari.

 Gli azionisti, beninteso, rifuggivano dalla violenza giacobina ma del giacobinismo condividevano il pregiudizio che i costumi, i valori antichi, le credenze ereditate dal passato dovessero venir cancel-lati—soprattutto grazie a strategie scolastiche non poco esigenti—se si volevano far nascere gli ‘Italiani  nuovi’. Era, questo, uno ‘stile di pensiero’ quanto mai illiberale e potenzialmente tota-litario. Il governo degli uomini infatti non è assimilabile a un’opera di bonifica ma a un’arte combi-natoria, che si serve dell’esistente (e persino dei suoi pregiudizi) per avanzare sulle vie dell’avvenire, con meno traumi possibili. E’ la grande lezione di Vincenzo Cuoco, il primo liberale italiano,  ammiratore dei protagonisti della Repubblica partenopea, ma consapevole che la loro estraneità a un liberalismo, che oggi definiremmo ‘storicistico e comunitario’, li avrebbe portati alla rovina.

 Gli azionisti, non amavano gli Italiani ‘così come sono’. Non a caso furono i più implacabili avversari dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini—il movimento nato nel secondo dopoguerra per protestare conto l’indottrinamento antifascista   di massa—-e i più lontani dal ‘piccolo mondo’ di Giovannino Guareschi. Ripugnava ad essi l’atteggiamento bonario nei confronti della ‘gente meccanica e di piccolo affare’, così poco disposta a impegnarsi nella ‘riforma morale e intellettuale’ della nazione.

 Non meraviglia, quindi, che non pochi azionisti, in tutta onestà, avessero, sulle prime, simpatizzato col fascismo e che, nel secondo dopoguerra, avessero guardato con interesse alla sinistra comunista (con la speranza di guarirla dal materialismo storico e dalle utopie collettiviste ed egualitarie). In fondo, il fascismo e il comunismo non volevano, anch’essi,  in modi diversi, ‘bonificare’ gli italiani, sottoporli a una massiccia cura di idealismo, guarirli dai mali storici?<E’ l’Italia vera, su cui bisogna contare>, scriveva Giovanni Gentile:<di contro ad essa la borghesia degli avvocati, dei professori, degli impiegati, dei giornalisti, avventurieri, ciarlatani, dilettanti oziosi, cullanti la loro vanità nella pratica demolitrice di tutto e di tutti|…| Tutta l’Italia inferma, vecchia e tarlata, che dev’essere spazzata via dall’altra>.

 Di qui un altro veleno per una ‘democrazia a norma’: per riprendere la dicotomia di Francesco Alberoni, la legittimazione etica e politica dei movimenti rispetto alle istituzioni, la fiducia risposta in ciò che nasce spontaneamente dal basso per la sua (presunta) capacità di rigenerare ciò che sta in alto e che rischia di isterilirsi nella gestione dell’esistente. Forse è tempo, per fare un esempio significativo, di spiegare storicamente le fortissime simpatie mostrate dal Ferruccio Parri, direttore dell’’Astrolabio’, nei confronti  della contestazione sessantottesca, e di riportarle a una Welt-anschauung che ancora oggi seguita a ispirare giornali, case editrici, palinsesti televisivi.

Lettera 150, 1° Ottobre 2025

Bloccare tutto per la Flottiglia? – Sciopero generale, un’arma spuntata

6 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Ha creato qualche malumore il sarcasmo con cui Giorgia Meloni ha stigmatizzato lo sciopero generale di ieri a sostegno della flottiglia. Notando che “week end lungo e rivoluzione non stanno insieme” ha messo il dito sulla piaga: è anni che gli scioperi vengono indetti a ridosso del fine settimana, una pratica che stride con gli appelli alla “rivolta sociale”.

È stato un infortunio? Una voce del sen fuggita, che se potesse tornare indietro non ripeterebbe?

Ho l’impressione di no. Prendendo una posizione netta contro lo sciopero proclamato dalla Cgil di Landini e dalla Usb (Unione sindacale di base) credo che la premier abbia ritenuto di interpretare un sentimento piuttosto diffuso nell’elettorato, ma che resta per lo più allo stato latente. Può sembrare strano, se non contradditorio, ma a mio parere il severo giudizio che l’opinione pubblica ha maturato su Israele (3 italiani su 4 condannano l’intervento a Gaza) non convive con un corrispondente sostegno a tutto ciò che partiti, sindacati e movimenti stanno facendo contro Israele stesso. Un conto, infatti, è l’empatia per il popolo palestinese – un sentimento quotidianamente rinforzato dai media, in Italia molto più che altrove – un conto è l’approvazione per il ricorso sistematico allo strumento dello sciopero, in modalità più o meno selvagge ma sempre foriere di disagi (e qualche volta di violenze e danni materiali ingenti) a scapito di chi vuole o deve viaggiare, lavorare, studiare, curarsi.

Forse è venuto il momento di prenderne atto: il ricorso eccessivo e improprio all’arma dello sciopero la sta rendendo sempre più obsoleta come strumento di lotta, un po’ come è successo per l’istituto del referendum, consunto e ormai quasi sepolto dall’uso eccessivo che i suoi promotori ne hanno fatto. Sfortunatamente da anni in Italia mancano numeri ufficiali e credibili sul numero di adesioni ai vari scioperi, che vengono monitorati accuratamente solo nella Pubblica Amministrazione, ma le poche e imprecise cifre che circolano sono sufficienti a dare un’idea degli ordini di grandezza in gioco. A fronte di 40 milioni di italiani critici con Israele, anche le maggiori piazze restano sempre al di sotto – qualche volta molto al di sotto – delle decine di migliaia di manifestanti. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza: nello sciopero del 22 settembre, indetto da sindacati di base (Usb) e altre sigle, le adesioni nella Pubblica amministrazione (l’unico settore che fornisce dati certi) non hanno raggiunto il 6%, e il numero totale di assenze per sciopero sono state un quarto di quelle “per altri motivi”. E dire che quello di lunedì 22 settembre era andato decisamente meglio del quasi-flop di venerdì 19, quando a proclamare lo sciopero era stata la CGIL.

Difficile fare calcoli precisi, ma – a meno di ipotizzare un comportamento completamente difforme del settore privato – si può stimare che il 22 settembre, su 40 milioni di italiani che disapprovano Israele, tra lavoratori in sciopero e cittadini in piazza la mobilitazione abbia coinvolto 2 milioni di persone, circa il 5% del totale dei critici di Netanyahu (sulla manifestazione di ieri bisognerà aspettare qualche giorno per fare i conti): nulla di paragonabile alle grandi mobilitazioni del passato,

Che lo sciopero sia uno strumento in declino non è cosa di cui stupirsi troppo. Il fenomeno è in atto in tutti i paesi europei da almeno un quarto di secolo, e ha cause strutturali ben note, prima fra tutte la contrazione del settore industriale e la terziarizzazione. In Italia, tuttavia, è lecito chiedersi se – a minare il successo degli scioperi – non agiscano anche altri fattori, non solo economici. Un primo fattore è la concentrazione delle astensioni dal lavoro nel settore dei trasporti pubblici, il più capace di propagare disagi: la solidarietà con gli scioperanti è messa a dura prova da forme di lotta che non colpiscono “il padrone” ma i comuni cittadini.

Ma il fattore più importante, probabilmente, è un altro: l’estrema e talora del tutto irragionevole politicizzazione degli scioperi. Sempre più sovente lo sciopero viene proclamato contro il governo, o comunque non su temi specifici, che hanno a che fare con la condizione dei lavoratori (salari, occupazione, sicurezza sul lavoro). E questo vale in special modo per il maggiore sindacato italiano, la Cgil, il cui leader si muove da tempo come un vero e proprio soggetto politico, con un’agenda in materia di immigrazione (referendum di maggio sulla cittadinanza) e persino di politica internazionale (scioperi pro Gaza).

La vocazione a trasformarsi in soggetto politico è, almeno in questo momento, così forte da trascinare la Cgil in azioni contra legem, come lo sciopero di ieri nei servizi pubblici. Quello sciopero è stato proclamato violando l’obbligo legale di preavviso di almeno 10 giorni, previsto dalla legge 146 del 1990. E la giustificazione addotta è illuminante: invocando la “difesa dell’ordine costituzionale” (uno dei pochi casi in cui la legge permette di scioperare senza preavviso) il sindacato non fa che confessare la propria trasformazione in soggetto politico, che non solo pretende di scioperare su questioni genuinamente politiche, ma pretende persino di fornire la corretta interpretazione della Costituzione, come se un indirizzo di politica estera sgradito al sindacato potesse essere considerato eversivo dell’ordine costituzionale.

Perché questa deriva, che fortunatamente non trascina tutte le sigle sindacali?

I maligni da tempo suggeriscono: perché Landini, in vista delle prossime elezioni politiche, aspira a prendere il posto di Schlein e Conte come leader del centro-sinistra. Da sociologo, mi sento di avanzare un’ipotesi più terra terra: la metamorfosi in soggetto politico è frutto degli insuccessi come attore economico. Un sindacato che ormai è fatto soprattutto di pensionati, e che è sostanzialmente assente nei teatri più difficili (lavoro nero e piccole aziende), è naturalmente portato a reinventarsi, cercando vie di sopravvivenza: la politicizzazione è una di queste.

PS. Le ultime notizie segnalano scontri, devastazioni e violenze. È paradossale per uno sciopero proclamato a sostegno della Flottiglia, la quale – comunque la si pensi – un grandissimo merito l’ha avuto: aver condotto un’azione assolutamente pacifica, in perfetto spirito gandhiano.

[articolo uscito sul Messaggero il 4 ottobre 2025]

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