Cacciari filosofo superiore?

Vogliono mettersi fuori di sé stessi e allontanarsi dall’umano. La loro è una follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie, invece di innalzarsi si abbassano (…) Abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. Anche sul più alto trono del mondo, non siamo seduti che sul nostro culo

Montaigne

Con quell’empirica saggezza inglese detta anche common sense, il poeta Wystan H. Auden ha detto una volta che quando ci si dedica alla critica si dovrebbe, per onestà e chiarezza, dichiarare le proprie personali preferenze a proposito del mondo nel quale si vorrebbe vivere. Il critico dovrebbe dirci quale tipo di paesaggio, di clima, di governo, di architettura, di mezzi di trasporto e di comunicazione vorrebbe nel suo mondo ideale. Auden umoristicamente eccede per quantità di dettagli richiesti. Eppure la sua britannica stravaganza ha qualche utilità.

Avendo deciso di dedicarmi a giudicare Metafisica concreta di Massimo Cacciari, pubblicato nella Biblioteca Filosofica Adelphi (che contiene quaranta volumi di cui ben ventiquattro solo di Heidegger e Severino) sento il concreto bisogno di adottare almeno in parte il metodo di Auden. L’eventuale lettore di questo articolo potrà perciò farsi un’idea della distanza che c’è fra le singolari predilezioni filosofiche di Cacciari, professore e cultore della materia, e le mie preferenze filosofiche di dilettante. Mentre il professor Cacciari, ex sindaco di Venezia e ex deputato del Partito Comunista Italiano, ha una passione per la metafisica più astratta e per una politica personale piuttosto concreta, i miei saltuari e non professionali interessi vanno invece alla filosofia della conoscenza o gnoseologia, e alla filosofia morale, o teoria delle virtù e studio dei comportamenti. In fondo, più che la filosofia pura, mi attira la storia delle idee, meglio se un po’ mescolata con la storia sociale. La metafisica, intesa come “filosofia prima”, la considero viceversa una filosofia seconda o secondaria, che rischia sempre di trasformarsi in una illusoria immaginazione o in una truffa verbale, dato che si sottrae all’uso di concetti empirici. Della metafisica, in particolare quella eventualmente praticata oggi a imitazione degli antichi, credo che si debba diffidare fortemente a causa dei problemi gnoseologici e morali che crea, o dovrebbe presupporre. Che genere di conoscenza è quella proposta dal discorso metafisico? Su quale esperienza si fonda? Esiste, è possibile una conoscenza metafisica in forma filosofica? O invece la sola via di accesso alla metafisica è una via puramente contemplativa, più precisamente una gnosi supermentale e sovrasensibile?

Quanto alla filosofia politica, non ha o non dovrebbe avere nessuna autonomia, ma essere considerata solo un ramo e uno sviluppo della filosofia morale. Una vita politica giusta è concepibile solo come risultato di comportamenti individuali moralmente giusti. Le cosiddette virtù politiche, una volta separate dalle virtù morali, producono soltanto astuzie e sopraffazioni, passione per il comando e inganni. Personalmente diffido del tipo umano del politico. Non pochi geniali politici sono stati dei dittatori, dopo essere stati leader carismatici.

Volendo essere precisi, una metafisica può e dovrebbe essere considerata reale, più che concreta. Un principio metafisico può avere, in quanto causa, degli effetti concreti, ma non è concreto, trascende le dimensioni spazio-temporali e sensibili: può essere razionalmente, ma non empiricamente concepibile. Cacciari e la Biblioteca Filosofica Adelphi hanno scelto di ignorare la tradizione della filosofia inglese e americana, cioè l’illuminismo empirista di Locke e Hume, l’utilitarismo di Mill e il pragmatismo di James e Dewey. Come si fa a essere “concreti” se si cancellano i pensatori morali da Montaigne in poi e i filosofi che hanno studiato forme e limiti sia dell’intelletto umano che della natura umana? L’ontologia del “Dasein” di Heidegger è una filosofia di fantasmi inventata per eludere l’esistenza come esperienza conoscitiva e attiva.

Interessante, per chi fosse interessato alla carriera del Cacciari filosofo, è il suo punto di partenza, il cosiddetto “pensiero negativo” degli antihegeliani Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nonché il suo punto di arrivo teologico-metafisico. La passione di Cacciari per il lessico greco e tedesco infesta e polverizza il suo linguaggio rendendolo lessicalmente asfittico. Da grandi saggisti come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche e dal loro antihegelismo non ha imparato niente. In ognuno di loro sono chiare le ragioni personali del filosofare. Ma del perché Cacciari ci parli di metafisica non si viene a sapere niente. La sua non è una prosa filosofica vera e propria. Mentre i tre suddetti pensatori negativi erano anzitutto filosofi morali e per loro Hegel e Schelling erano ipocriti sofisti e impostori, Cacciari ha per la filosofia morale una specie di fobia, teme il moralista proprio perché potrebbe smascherare il suo filosofismo. Evidente è in lui la miseria linguistica della filosofia, usata come una solenne maschera geroglifica che nasconde il puro esibizionismo, l’inconsistenza argomentativa e l’ingorgo citazionistico. La sua prosa è senza forma né misura né ritmo né tono.

Una citazione a caso anche se esemplare (il libro infatti procede a caso): “Il Logos che parla in verità e che perciò ci è dato comprendere e comunicare senza tradirlo, questo è il Logos dell’Età presente, di questa Ora che non sa concepirsi come destinata a passare, Aiòn, Età che sempre più dichiara insuperabili e fino alla fine del tempo stesso, forme e significati della propria vita. Questo è Logos giudicante poiché esso discrimina chi sa da chi ignora, poiché a Lui, fin dall’origine, che lo si intenda trascendente, en archei, o immanente e agente in ogni momento del cosmo, tutto il Divino è stato comunicato. Senza il suo manifestarsi, il Divino continuerebbe a restarci ignoto, mentre ora possiamo goderne in verità. Gaudio, letizia che possono venire soltanto dal saperci nella sequela del Logos, dal sentircene membri, espressione necessaria della sua stessa sostanza, ‘guariti’ dal dubbio, forti di un credere inconfutabile, un credere che diviene irresistibilmente fede riposta nella potenza dello stesso sapere (…) È intorno a questo problema, più che a qualsiasi altro, che occorre intendere il dramma del nesso tra Atene e l’Europa o Cristianità” (pp. 12-13).

Qual è il problema? Il problema non è uno, sono almeno due: 1) il modo di scrivere di Cacciari, fatto per ostacolare se non impedire la lettura, e 2) la scelta della metafisica come tema inesauribile perché inaccessibile. Proprio quello che Cacciari cerca per non darsi una regola espositiva e una misura.

Poco rispettoso della filosofia accademica e del suo rimuginare su una tradizione plurisecolare, una volta Max Horkheimer disse che la metafisica è come il chewing-gum, che si può masticare all’infinito senza ricavarne né sapore né nutrimento. Nel caso di Cacciari c’è poi il fatto che il parlare di metafisica permette di non costruire una sintassi di concetti e di argomentazioni. La prosa dell’intero libro non è neppure una prosa, tantomeno una prosa filosofica. Oltre a essere una modalità del pensiero e della conoscenza (non l’unica), la filosofia è anche un genere letterario. In Italia se ne accorse e se ne fece un dovere Giacomo Leopardi all’inizio dell’Ottocento, curando la sua Crestomazia della prosa italiana e scrivendo le Operette morali. Antimetafisico e antiplatonico come era, nella sua affinità con David Hume, il più radicale degli empiristi, Leopardi vedeva e praticava la filosofia in forma di filosofia morale, di riflessione sulla forma del vivere individuale e sociale. Secondo lui la cultura italiana aveva bisogno di una buona e nuova prosa filosofica, senza la quale è impossibile una buona filosofia. Per Schopenhauer era metafisica niente di meno che la volontà di vivere, il rapporto con il proprio corpo e la sua energia cieca. Per Kierkegaard erano filosofici anche il suo amore per Regina Olsen e il suo disprezzo per il vescovo Mynster. Nel suo frullato di autori, di problemi, argomenti e terminologie, Cacciari tira avanti il libro per più di quattrocento pagine senza fare un passo né avanti (si può fare a meno della metafisica?) né indietro (dobbiamo tornare alla mistica?). Il suo solito metodo è evitare di fare citazioni abbastanza ampie da commentare e su cui riflettere: le sue sono soprattutto criptocitazioni da tutto e da chiunque. Riscrive e si appropria, non permettendo a chi legge di distinguere tra quello che Cacciari pensa e quello che cita o ruba, spezzetta e riusa. La sua è una specie di dislessia citazionistica che continuamente echeggia gran parte dell’intera tradizione filosofica: escludendo naturalmente gli ultimi secoli di pensiero antimetafisico, dall’umanesimo scettico all’illuminismo empiristico e materialistico, alle vere filosofie dell’esistenza e dell’esperienza, di cui Heidegger si è appropriato svuotandole di contenuto reale con i mantra del suo gergo ontologico. Metafisica concreta è un tentativo non riuscito di prendersi e tenersi tutto, l’astratto e il concreto, l’intuizione ontologica e una impropria teologia razionale, o meglio sonoramente raziocinante. Secondo il metodo di Socrate, si dovrebbe exetazein ton logon, cioè esaminare il discorso, il linguaggio di chi parla, come Cacciari, di un oggetto paradossale e insieme inconsistente come una metafisica che sia fuori di spazio e tempo, come ogni metafisica, ma nello stesso tempo sia dotata di contingenza e di attributi accessibili all’esperienza. Ma questo può accadere solo nella mistica, in cui un’esperienza concreta supermentale della metafisica la fa non essere più metafisica.

Cacciari punta tutto su una inguaribile dissipazione parafilosofica. Quando parla di politica, per quel tanto che conta, Cacciari si fa capire abbastanza. Quando entra invece nell’habitat filosofico perde la testa, si inebria, non connette più, o connette tutto con tutto, cita ed esalta perfino, non so perché, i Cantos di Ezra Pound, il più clamoroso e penoso fallimento poetico del secolo scorso. Più che un mistico in estasi sembra un professore intossicato di lessico filosofico. Mastica e rimastica ciò che cerca di dire e non dice. Ma l’indicibile è impossibile dirlo, si può solo sperimentarlo e non comunicarlo attraverso le parole.

Il problema è qui uno solo: perché il professor Cacciari sceglie la metafisica per fare filosofia? Perché si presenta come chi va oltre i confini della filosofia? Vorrebbe essere o apparire una mente così superiore da non poter abitare se non in un linguaggio che sfugga alla comprensione? La passione predominante di Cacciari è per la “filosofia prima”, teologia nonché escatologia o dottrina delle cose ultime. Si tratta insomma di quel forsennato e ridicolo snobismo culturalistico che aspira solo a frequentare i piani più alti e inaccessibili della realtà e del pensiero, lì dove abita solo Dio. Purtroppo però Cacciari non parla mai della sua fede in Dio e neppure del nesso che c’è fra metafisica e gnosi mistica. Quello della metafisica è un sapere assolutamente speciale che si fonda non sulla logica e sul discorso ma su un’esperienza supermentale. Si tratta di un sapere supremo raggiungibile solo da individui sommamente dotati di virtù contemplativa. Una filosofia dell’essere puro in quanto essere non è più una filosofia logica, ma il culmine di una filosofia morale, moralmente ascetica. Per “toccare” mentalmente l’essere, che non è un concetto ma una super-realtà, c’è almeno bisogno di essere onesti. Invece Cacciari manca proprio di onestà filosofica. In Occidente la metafisica è stata messa in discussione e onestamente respinta dai filosofi dell’Illuminismo, soprattutto da quello empiristico inglese, e infine da Kant. Se il termine “metafisica” viene da Aristotele, la sua origine concreta non è filosofica, è (come ha spiegato Giorgio Colli) dei “sapienti” presocratici, in particolare Parmenide, al quale il professor Emanuele Severino, rivale e simile di Cacciari, ripeteva che fosse necessario tornare, allo scopo di salvare l’Occidente dalla sua “follia”, la fede nel divenire. Solo che il divenire non è una fede, come diceva Severino, è un’esperienza.

Come si può intuire dagli stessi titoli dei suoi tre libri più ambiziosi, Dell’inizio (1990), Della cosa ultima (2004) e questo conclusivo Metafisica concreta, le ambizioni di Cacciari sono sia smisurate che vane. Il suo stile dell’eccesso copre un vuoto, una “vanità” filosofica, dato che presuppone un sapere dell’alfa e dell’omega, una conoscenza assoluta di un oggetto assoluto: l’impensabile essere in quanto essere. Dell’inizio e della cosa ultima, di una metafisica che sia anche concreta, non sapremo filosoficamente mai nulla, e la pretesa di farne una filosofia dell’impossibile peggiora ulteriormente la situazione di Cacciari. Il quale ha da giocare una sola carta: il mito di sé stesso come filosofo superiore e in quanto tale non socializzabile. Ecco, questo dell’essere o sentirsi o mostrarsi superiore è la caratteristica che lo accomunò a Roberto Calasso e gli aprì le porte della Adelphi, trasformando il seguace dell’operaista gentiliano Mario Tronti in una specie di allievo di Elémire Zolla. Cosa che mi fa pensare non tanto a grandi metafisici o a mistici dell’antichità e del Rinascimento, ma piuttosto a un intellettuale del Novecento che Cacciari ha molto caro, cioè Carl Schmitt, giurista nazista, o per essere più concreti presidente dell’associazione dei giuristi del Terzo Reich. Dopo la caduta del regime hitleriano, Schmitt fu arrestato, processato e assolto, ma comunque costretto a ritirarsi a vita privata. Il fatto che avesse teorizzato come fondamento della Costituzione il Fuhrer lo rendeva infatti sospetto anche come eventuale docente di diritto e dottrina dello Stato. Quando Schmitt, al processo di Norimberga, fu interrogato come testimone dalla Pubblica Accusa, si espresse così:

“Sentendomi superiore, intendevo dare un senso mio personale al termine nazionalsocialismo”.

Pubblica Accusa: “Hitler aveva un nazionalsocialismo e lei ne aveva un altro?”.

Schmitt: “Mi sentivo superiore”.

Pubblica Accusa: “Si sentiva superiore ad Adolf Hitler?”.

Schmitt: “Infinitamente, dal punto di vista intellettuale. Il personaggio è così privo di interesse che preferisco non parlarne”.

Dire che Hitler è il fondamento dello Stato e dire nello stesso tempo che di Hitler è preferibile non parlare, ritrae alla perfezione l’ipocrita “uomo superiore” Carl Schmitt. Lo fa anche assomigliare molto a un altro idolo filosofico di Cacciari e della Adelphi: Martin Heidegger. Il quale, sentendosi anche lui superiore, si rifiutò sempre di nominare il nazismo e Hitler, pur avendolo fin dall’inizio esaltato come fondamentale evento storico nel destino della Germania. Schmitt e Heidegger sono le ombre sinistre che sembrano avere insegnato la superiorità a Cacciari; una superiorità astratta, vuota, metafisica e pure concreta. Altro che maestri del “pensiero negativo” come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, filosofi passionalmente autobiografici e in quanto tali ben presenti nelle loro opere. Nei libri di Cacciari l’autore pensante, l’io Massimo, non c’è, è assente e mai concreto. Troppo oltre per essere presente. Invece di essere onestamente presente nelle pagine della propria filosofia preferisce recitare da impaziente uomo superiore nei talk show.




Harakiri antifascista

C’è sempre stato un che di poco simpatico, nella richiesta perentoria di dichiararsi antifascisti. Chi la formulava, lo faceva nella presunzione di essere immacolatamente antifascista, e perciò stesso nella posizione di giudicare-assolvere-condannare l’interlocutore. Al di là di questo lato sgradevole, però, un tempo era del tutto naturale dichiararsi antifascisti, perché per la stragrande maggioranza degli italiani l’antifascismo era una sorta di ovvietà: rifiuto del fascismo, gratitudine verso i partigiani, fiducia nella democrazia. Il 25 aprile, è vero, era una festa egemonizzata dalla sinistra, ma non per questo cessava di essere una festa di tutti.

Poi le cose cominciarono a cambiare. Il primo cambiamento mi si palesò in Consiglio di Facoltà nella primavera del 1994, esattamente 30 anni fa. Il nostro preside, eminente studioso della Resistenza, si presentò in Aula Magna con il viso scuro, annunciandoci – con l’aria di chi aveva per le mani una notizia sconvolgente – che in Italia stava tornando il fascismo. In effetti Berlusconi aveva vinto le elezioni. Passarono pochi mesi e Umberto Eco, dagli Stati Uniti, ritenne di dover rincarare la dose: il fascismo non era mai scomparso, anzi era eterno perché i suoi 14 (quattordici) tratti fondamentali si ripresentavano e combinavano in varie configurazioni anche dopo la sconfitta del fascismo storico. Da allora gli allarmi si sono ripetuti migliaia di volte, con particolare frequenza quando al governo c’era la destra, e con ossessiva solerzia da quando Giorgia Meloni ha avuto l’ardire di vincere le elezioni. Da quel momento qualsiasi atto del nuovo governo, dalla politica migratoria al premierato, viene interpretato dagli antifascisti-doc o come manifestazione di tendenze autoritarie e illiberali, o come prodromico alla rinascita del fascismo, ovviamente in una edizione nuova e più consona ai tempi.

Questo modo di vedere le cose si presenta in due forme principali, una teorica e l’altra

pratica. Della forma teorica, il massimo esponente è il prof. Luciano Canfora, per il quale il “nòcciolo” del fascismo è il “suprematismo razzistico”, che starebbe alla base delle politiche migratorie del governo. Della forma pratica, sono da molti anni espressione i gruppi che, per lo più in nome dell’antifascismo, tolgono la parola a chi ha idee diverse dalle loro. Ne sono ricorrente testimonianza le contro-manifestazioni e contestazioni che, puntualmente, provano a impedire fisicamente le manifestazioni altrui, che siano cortei o altri eventi sgraditi, quali presentazioni di libri, convegni, dibattitti: i 18 mesi del governo Meloni ne hanno visto un campionario impressionante.

In breve, l’antifascismo ha poco per volta cessato di essere quel che era – un rito della memoria che celebra la Resistenza e riafferma il valore supremo della democrazia – per trasformarsi in un’arma impropria che una parte politica agita contro la parte avversa, talora accusandola di preparare il fascismo che verrà, talora accusandola di essere essa stessa, già ora, quel fascismo che credevamo di aver debellato per sempre.

Ecco perché oggi, oltre ad essere poco simpatica, la richiesta di dichiararsi antifascisti sta diventando irricevibile per ragioni logiche. Se un governo democraticamente eletto viene considerato compromesso con il fascismo, come potranno gli italiani che lo hanno votato proclamarsi antifascisti? E se così spesso, in nome dell’antifascismo, si usa la forza per togliere la parola agli avversari politici, come potranno proclamarsi antifascisti i liberali e più in generale quanti credono nella libertà di espressione e nel pluralismo delle idee?

Insomma, a me pare che, specie con le ultime manifestazioni dell’8 marzo e del 25 aprile, così piene di odio e intolleranza, l’antifascismo abbia fatto harakiri. D’ora in poi nessuno potrà chiedere a noi antifascisti normali se siamo antifascisti. Saremmo noi, semmai, a dover chiedere ai custodi dell’antifascismo storico che cosa aspettano a prendere le distanze dal nuovo antifascismo, violento e intimidatorio, e a restituire un po’ di rispetto a quella parte del paese che ha più fiducia nella destra che nella sinistra.

Ma non lo faremo. Perché a noi antifascisti normali le abiure non piacciono. Ognuno è responsabile delle sue idee, ma nessuno è titolato a ergersi a giudice delle idee altrui. La democrazia è anche questo, qualsiasi cosa ne pensino le autonominate vestali dell’ortodossia antifascista.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 maggio 2024]




Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)




Gli indistinguibili – A proposito del “campo largo”

“Non accettiamo lezioni da nessuno” è una frase che, ciclicamente, sentiamo ripetere un po’ da tutte le forze politiche, quando una inchiesta della magistratura scoperchia malefatte dei politici, qualche volta presunte, qualche volta vere. È successo pochi giorni fa con il Pd a Bari e Torino; è successo con Fratelli d’Italia in Sicilia; ed è successo pure con il Movimento Cinque Stelle a Roma (anche se di questo si è parlato pochissimo). Quindi è vero che nessuno può dare lezioni, ma solo perché nessun partito è senza peccato.

Questo non vuol dire, tuttavia, che su questione morale e dintorni non vi siano differenze importanti. I partiti di destra non hanno mai rivendicato una superiorità morale. Il Pd e i suoi predecessori l’hanno sempre rivendicata, fin dai tempi di Berlinguer. Il Movimento Cinque Stelle ne ha fatto addirittura una questione identitaria, una sorta di biglietto da visita che lo rendeva una forza politica speciale, diversa da tutte le altre. Poco stupisce, quindi, che Conte – alla prima avvisaglia di difficoltà dell’alleato – abbia colto la palla al balzo, assumendo il ruolo di censore e giudice, in paziente attesa che i reprobi facciano pulizia in casa loro.

Per certi versi la mossa di Conte è comprensibile: le elezioni europee sono alle porte, e l’occasione per scavalcare il Pd e diventare il primo partito dell’opposizione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. E i primi sondaggi dopo gli scandali sembrano dare ragione al leader Cinque Stelle: il vantaggio del Pd si sta riducendo, e potrebbe persino annullarsi (o cambiare di segno) se nuovi scandali dovessero riversarsi sul Partito Democratico, lasciando indenne il suo maggiore alleato.

C’è anche un’altra ragione, tuttavia, meno opportunistica e più politica, che rende non irragionevole la scelta di Conte. Ed è che, in questo momento, la “questione morale” è l’unico terreno su cui i Cinque Stelle hanno qualche possibilità di differenziarsi dal Pd non solo oggi, in occasione delle elezioni europee, ma anche più in là, quando sarà il momento delle elezioni politiche (2027).

E le differenze sulla guerra? si potrebbe obiettare; e quelle sul reddito di cittadinanza?; e quelle sulla magistratura? e quelle sui migranti?

In realtà, oggi nessuna delle classiche differenze fra i due partiti ha qualche consistenza. Sulla guerra, al momento di candidarsi al governo del paese non potranno che assumere un atteggiamento comune, come hanno dovuto fare i partiti di centro-destra, neutralizzando le gravi perplessità di Berlusconi e Salvini.

Sul reddito di cittadinanza, è impensabile che il Pd – dopo aver governato con i Cinque Stelle e difeso a spada tratta il reddito – recuperi le posizioni critiche e anti-assistenziali che aveva un tempo. Sulla magistratura, le intercettazioni, il potere dei giudici, la libertà dei giornalisti, è inevitabile che prevalgano le posizioni giustizialiste dei Cinque stelle, se non altro come antidoto al presunto eccesso di potere della destra. Stesso discorso sui migranti, anche se qui sono stati i Cinque Stelle – scottati dall’esperienza di governo con Salvini – a omologarsi alle posizioni del Pd.

Quanto agli altri grandi temi, ad esempio diritti civili e transizione green, è arduo immaginare anche un solo punto su cui i due partiti siano in grado di differenziarsi in modo significativo.

In breve, Pd e Cinque Stelle ormai si somigliano troppo per poter chiedere il voto in base a differenze programmatiche percepibili. E certo non aiuta il fatto che il terzo soggetto del cosiddetto campo largo – l’Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) – sia a sua volta un’entità quasi indistinguibile dai due partiti principali della sinistra.

Ecco perché la scelta di Conte ha una sua logica. Con l’avvento di Elly Schlein e la sconfitta dell’ala riformista del Pd, con il convinto ripudio dell’era Renzi, con l’alleanza organica con Landini e la sua Cgil, le tre forze portanti del centro-sinistra – Pd, Cinque Stelle, AVS – hanno perso la capacità di spiegare in che cosa ciascuna di esse è veramente diversa dalle altre. Con un’unica particolarità, tutta a favore dei Cinque Stelle: che loro, almeno, possono provare a riesumare il marchio di fabbrica, “onestà e legalità”.

Resta solo da vedere se gli elettori vorranno prenderli in parola.

[uscito su La Ragione il 16 aprile 2024]




Più poveri ma più eguali?

Nel mese di marzo appena trascorso l’Istat ci ha inondato di dati statistici sul mercato del lavoro, sulla povertà, sulla disuguaglianza. Apparentemente il quadro è univoco: secondo il report (provvisorio) sulla povertà, nel 2023 il numero di famiglie in povertà assoluta (ossia non in grado di acquistare il paniere di sopravvivenza) è aumentato rispetto al 2022, e ha toccato il massimo storico dal 2014, ossia da quando esiste questo tipo di statistica. L’aumento, dichiara l’Istat, è molto modesto – dall’8.3% all’8.5% in termini di famiglie, dal 9.7 al 9.8% in termini di individui – ma il fatto resta: nel primo anno di governo Meloni il numero di poveri è aumentato. Comprensibilmente tutti i media, salvo qualche quotidiano di destra, hanno dato enorme rilievo a questo risultato. Altrettanto comprensibilmente, questo aumento è stato attribuito al depotenziamento del reddito di cittadinanza, e all’aumento della precarietà e dei cosiddetti working poor, ovvero lavoratori che hanno sì un lavoro, ma non riescono ad assicurare un tenore di vita accettabile ai loro familiari.

E tuttavia, se anziché leggere solo uno dei report pubblicati dall’Istat li leggiamo tutti, il quadro si fa meno limpido.

La tesi che la causa sarebbe la riduzione del reddito di cittadinanza, ad esempio, cozza con il fatto che nel Mezzogiorno, ossia nella zona del paese che più ha beneficiato del reddito di cittadinanza, il numero di famiglie povere non solo non è aumentato, ma è addirittura diminuito del 4.4%: da 906 mila famiglie nel 2022 a 866 mila nel 2023. Ma anche la tesi dell’aumento del precariato non funziona: i posti di lavoro dipendente stabili sono aumentati di 418 mila unità, mentre quelli a temine sono addirittura diminuiti, sia pure di poche migliaia.

In realtà, quel che i dati Istat mostrano è che l’aumento dei poveri è concentrato nel centro-nord, e tocca essenzialmente le famiglie di stranieri, probabilmente perché la maggior parte degli stranieri risiede nel Centro-Nord. Se consideriamo solo le famiglie di italiani, non vi è – nell’Italia nel suo insieme – alcun aumento del tasso di povertà assoluta.

Perché ciò sia accaduto (cosa di cui saremo certi solo a ottobre, quando l’Istat pubblicherà le stime definitive) non è chiarissimo. Una possibile lettura del fenomeno è che le nuove regole e i maggiori controlli associati ai nuovi sussidi, pur lasciando relativamente indenni le famiglie povere del Sud, abbiano invece avuto effetti significativi sulle famiglie di immigrati, concentrate nel centro-nord e decisamente più esposte al lavoro irregolare. Resta il fatto che, complessivamente, la povertà assoluta è leggermente aumentata fra il 2022 e il 2023.

Ma continuiamo a leggere i report dell’Istat, in particolare l’indagine sulle forze di lavoro (che arriva fino a dicembre del 2023) e le simulazioni sugli effetti che i provvedimenti del governo potrebbero avere avuto sulla distribuzione del reddito nel 2023. Ebbene, queste analisi segnalano che fra il dicembre del 2022 e il dicembre del 2023 gli occupati sono aumentati di 456 mila unità; i disoccupati sono diminuiti di 171 mila unità; gli inattivi nella fascia 15-64 anni sono diminuiti di 310 mila unità; il tasso di occupazione (sempre nella fascia 15-64 anni) è aumentato dal 60.8% al 61.9%, toccando il massimo storico.

Difficile pensare che queste cifre non impattino sulla diseguaglianza, visto che – in Italia – il principale fattore di diseguaglianza è l’insufficiente (e mal ripartito) accesso al lavoro. In breve, è possibile che al lieve aumento della povertà non si accompagni un parallelo aumento della diseguaglianza – come da più parti si è detto e scritto – ma esattamente il contrario: un sia pur lieve miglioramento degli indicatori di eguaglianza/diseguaglianza.

I dati confermano pienamente questa congettura: secondo le simulazioni dell’Istat, nel  2023 la povertà relativa (un classico indicatore di diseguaglianza) avrebbe dovuto scendere dal 20% al 18.8% e l’indice di Gini (la misura più usata per valutare la concentrazione del reddito) dal 31.9% al 31.7%.

Se tutti questi numeri dovessero rivelarsi sostanzialmente veritieri, avremmo l’ennesima conferma di un fatto ben noto agli economisti: povertà e diseguaglianza sono due fenomeni distinti, che possono anche muoversi in direzioni opposte. Ma avremmo anche una sorpresa: quella di un governo di destra che, anziché aumentare il grado complessivo di diseguaglianza, sta timidamente iniziando a ridurlo.

(uscito su La Ragione il 2 aprile 2024)