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Prodi superstar?

18 Novembre 2025 - di Paolo Natale

In primo pianoPoliticaSocietà

In tempo di vacche magre per la sinistra italiana, torna di moda il fattore-Prodi, l’unico leader (leggendario) che è stato in grado di vincere le elezioni contro il centro-destra e, in particolare, “il solo capace di sconfiggere Berlusconi per ben due volte”. Così è passato alla storia, come racconta buon ultimo anche Pierferdinando Casini nel suo libro recentemente pubblicato, il ricordo di quanto è avvenuto nel ventennio berlusconiano.

Che continua: “ci è riuscito per via di un suo carisma personale che gli ha permesso di intercettare e convincere una parte dell’elettorato moderato a considerarlo un’alternativa credibile”.

La leggenda rimane tale, ovviamente, perché il risultato è di fatto quello che viene citato. Nessun dubbio su questo. Ma ciò che viene sottaciuto è forse ancora più importante per comprendere fino in fondo le ragioni che hanno permesso questa duplice vittoria. Ragioni che non vanno certo a detrimento della persona di Romano Prodi, ma ci permettono di far luce sulle condizioni che hanno consentito di vincere e che, probabilmente, avrebbero funzionato anche con qualsiasi altro personaggio “credibile” al suo posto.

Detto in altre parole: l’elemento-chiave della vittoria non è stato tanto la presenza di Prodi, quanto piuttosto la particolare configurazione della competizione elettorale. È importante ribadirlo, in un momento di evidente problematicità per le opposizioni e per la sinistra in particolare, perché sottolinea la cronica difficoltà di quest’area politica di diventare maggioranza nel nostro paese.

Ma poi, furono davvero reali vittorie?

Nella prima occasione, quella del 1996, il centro-destra si era presentato privo di quell’alleato che sarebbe divenuto storico nel corso degli anni, cioè la Lega (allora solo Nord) che in quella sola occasione aveva optato per la corsa solitaria, dopo gli screzi tra Bossi e Berlusconi (definito da Bossi stesso in quegli anni “il mafioso di Arcore”). Prodi – investito della leadership della coalizione progressista – si presentò a quelle elezioni come capofila di un maxi-partito in cui erano presenti i popolari, i repubblicani, Unione Democratica e perfino i sudtirolesi; il suo risultato non fu certo eclatante: ottenne infatti soltanto un misero 6% di voti, una quota piuttosto minoritaria di quel 35% dell’intera coalizione dell’Ulivo.

D’altra parte, occorre evidenziare il fatto che nel voto per i partiti, nella parte proporzionale, furono quelli di centro-destra ad ottenere il maggior consenso – senza la Lega, come ho sottolineato – battendo quelli dell’Ulivo di circa otto punti percentuali. Soltanto sommando anche Rifondazione Comunista, che si era presentata separatamente peraltro, si arrivava ad un sostanziale pareggio.

Insomma, il primo esecutivo dell’Ulivo sarebbe restato in piedi soltanto con l’appoggio esterno di Bertinotti, il quale però, dopo molte ripetute minacce quasi giornaliere, quell’appoggio lo tolse, provocando le dimissioni dello stesso Prodi, dopo solo due anni di governo.

 

 

La seconda “vittoria” di Prodi avvenne nel 2006, dopo cinque anni di governo Berlusconi che avevano provocato il costante deterioramento della fiducia in lui da parte degli italiani: a gennaio 2006 l’apprezzamento nei confronti del leader di Forza Italia era dell’ordine del 20% circa, il più basso indice di gradimento nei suoi confronti nella sua intera storia elettorale e il più basso tra tutti i Presidenti del Consiglio uscenti in tutta la Seconda Repubblica.

E fu in questa condizione, di enorme vantaggio competitivo, che Prodi si presentò all’elezione come leader dell’Unione, in cui erano confluiti praticamente tutti i partiti che non stavano con Berlusconi, dal centro fino all’estrema sinistra, da Mastella a Bertinotti, dai pensionati fino alla lista dei consumatori.

Nonostante questa lunga lista di partiti e un livello di consenso per Berlusconi ai minimi termini, al Senato la coalizione guidata da Prodi perse in valore assoluto di circa 400mila voti, mentre alla Camera riuscì a strappare la vittoria (e quindi il premio di maggioranza) con uno scarto di appena 25mila voti, pari allo 0,07% dei voti validi.

L’esecutivo successivo fu ovviamente quasi catastrofico dal punto di vista della possibilità concreta di governare il paese, considerata l’estrema varietà dei partiti presenti e la scarsa omogeneità delle proposte e delle direzioni politiche. Dopo costanti tribolazioni, distinguo e minacce di abbandono, Prodi si vide costretto a rassegnare le proprie dimissioni dopo nemmeno due anni dal suo insediamento, verso nuove elezioni politiche.

Alla luce di questa breve disamina, si comprende meno il motivo per cui Romano Prodi viene ricordato come l’unico vero antagonista del centro-destra, l’unico capace di portare l’alleanza progressista al successo elettorale. Molti commentatori hanno addirittura sottolineato come l’Ulivo prima e l’Unione poi abbiano vinto “nonostante” Prodi, e come altri candidati avrebbero potuto far sicuramente meglio di lui nella performance elettorale, portando alla coalizione un valore aggiunto sicuramente superiore.

 

 

Come dire: Prodi è riuscito a vincere di misura in due occasioni “facili” dove altri leader, come Rutelli o Veltroni, avrebbero portato ad un successo più significativo e ad un successivo governo con una maggioranza più schiacciante, con maggiori possibilità di manovra e riforme politiche meno frutto di compromessi con gli alleati.

Ma le (comunque indubitabili) vittorie di Prodi vengono utilizzate oggi con il chiaro e specifico obiettivo di dimostrare come il fronte progressista possa battere il suo avversario solo con un occhio privilegiato al riformismo liberal-democratico più centrista rappresentato dallo stesso Prodi. Forse, la cosa più corretta da fare sarebbe quella di proporre una propria linea politica, senza addentrarsi troppo in analisi o costrutti teorici che, come ho cercato di mostrare, sono in parte privi di fondamento storico.

Campo largo, mission impossible?

25 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Il sogno di costruire a sinistra un “campo largo”, che vada dai liberal-riformisti (tipo Calenda) all’estrema sinistra (tipo Fratoianni), ha subito un duro colpo con il recente spettacolo di confusione, divisioni e ripicche andato in scena in Basilicata in vista delle imminenti elezioni regionali.

Qualcuno ha provato a dire che “solo uniti si vince”, sorvolando sul fatto che in Sardegna il centro-sinistra aveva vinto nonostante fosse diviso, e in Abruzzo aveva perso nonostante fosse unito. A quanto pare, il puzzle non possiede una soluzione semplice.

Ma ne possiede una?

Solo il tempo fornirà la risposta, ma forse un ripasso della storia della seconda Repubblica qualcosa ce lo può insegnare.

Intanto non è vero, come talora si sente dire, che le forze di centro-destra sono sempre state unite, e quelle di centro-sinistra quasi sempre divise. Il primo governo di centro-destra, guidato da Berlusconi, cadde per mano della Lega di Bossi; le elezioni del 1996 furono perse dal centro-destra perché al Lega andò al voto da sola; e alla caduta di Berlusconi nel 2011diede un contributo non secondario la sanguinosa frattura fra Berlusconi e Fini.

Quanto al centro-sinistra, i ricorrenti litigi non impedirono a Prodi di sconfiggere Berlusconi due volte (nel 1996 e nel 2006); le bizze di Bertinotti nel 1997-98 – pur costando la presidenza del consiglio a Prodi – non impedirono al centro-sinistra di governare indisturbato per cinque anni, dal 1996 al 2001.

Dunque, se stiamo alla storia degli ultimi 30 anni, non c’è eterna granitica compattezza a destra, né ineluttabile divisione a sinistra. La partita è aperta.

Che la partita sia aperta, tuttavia, non significa che la situazione sia simmetrica. Nonostante i precedenti speculari che abbiamo richiamato, ci sono almeno due ragioni di fondo che rendono più difficile unificare la sinistra che unificare la destra. La prima è che le differenze entro il campo di centro-destra sono di natura pragmatica (e quindi ricomponibili), mentre quelle entro il centro-sinistra sono di tipo valoriale (e quindi difficilmente ricomponibili). I politici di sinistra hanno perfettamente ragione quando osservano che anche a destra ci sono divisioni importanti sulla guerra, sulla politica fiscale, sull’immigrazione, ma si illudono se pensano che siano divisioni comparabili a quelle interne alla sinistra. Che sono invece basate su questioni di principio, in quanto tali percepite come non negoziabili, per non dire identitarie.

Faccio un esempio per rendere l’idea: anche a destra ci sono differenze importanti  sull’immigrazione, con Salvini che punta sulla chiusura dei porti, e Meloni sul blocco delle partenze, ma sono differenze che impallidiscono a fronte di quelle che separano Renzi e Minniti da Bonelli e Fratoianni. Queste ultime sono percepite come enormi e inconciliabili perché, complice l’atavico complesso di superiorità della sinistra, le si tratta come contrapposizioni morali, anziché come scelte fra opzioni politiche tutte legittime. Il fatto è che, su molti temi non secondari – l’immigrazione, il precariato, la guerra – le differenze di opinione a destra restano semplici differenze di opinione, a sinistra diventano irriducibili differenze etiche (detto per inciso: è per questo che Renzi e Calenda sono indigeribili per la sinistra, ma compatibili con la destra).

C’è anche una seconda ragione, però, che rende ardua – a sinistra – la costruzione di un campo largo vincente. Una ragione che definirei “idraulica”, in quanto ha a che fare con la dinamica dei flussi di voto. In breve: se il campo largo si presenta con un profilo riformista, una parte dell’elettorato Cinque Stelle non va a votare, ma se il profilo è massimalista (come attualmente) una parte dell’elettorato riformista si rifugia a destra.

Detto in altre parole: a destra la circolazione dei voti resta all’interno del perimetro della coalizione, a sinistra coinvolge anche i flussi verso astensione e coalizione avversa.

Perché funziona così?

Un po’ perché il maggior partito della sinistra non ha mai compiuto una vera scelta fra riformismo e massimalismo. Ma un po’, anche, per una ragione per così dire antropologica: dall’avvento di Berlusconi in poi, la tendenza a porre le questioni politiche in termini etici si è profondamente radicata nella psicologia dell’elettorato progressista. Il problema è che, alla lunga, l’eticizzazione del conflitto politico finisce per ritorcersi contro chi la promuove.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 marzo 2024]

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