A proposito dell’inizio dell’anno scolastico – Ciao maschio

15 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Niente telefonini a scuola, anche nei licei. Chi fa scena muta all’esame di maturità sarà bocciato. Il voto in condotta peserà di più. Chi verrà sospeso per più di due giorni non potrà cavarsela stando a casa, ma dovrà svolgere attività di “cittadinanza solidale” presso strutture convenzionate. Quanto ai programmi, ci sono dei cambiamenti ma decorreranno solo 2026-27.

Queste le principali novità dell’anno scolastico che sta iniziando. Novità che, a ben vedere, sono semplicemente una rivincita del senso comune. Tardiva ma necessaria, al limite dell’ovvietà. La domanda, semmai, è come sia stato possibile, per anni, consentire l’uso dei cellulari nella scuola secondaria superiore, o elargire promozioni a dispetto di gravi violazioni di elementari norme di comportamento.

Bene, siamo tornati alla normalità. Ma di che cosa è fatta la normalità della scuola italiana?

Di tante cose. Alcune note, se non conclamate: il divario nord-sud nei livelli di apprendimento, la difficile integrazione degli studenti stranieri, il bassissimo numero di laureati. Altre eternamente discusse, ma senza pervenire a una diagnosi condivisa: disagio giovanile, bullismo, baby gang, studenti che aggrediscono gli insegnanti, genitori che difendono i figli a oltranza. C’è una cosa, però, che stranamente non entra mai nel dibattitto sulla scuola: lo svantaggio sistematico di un particolare gruppo sociale.

C’è un determinato gruppo sociale (dirò fra poco quale) che, da oltre 30 anni, si laurea molto di meno del resto della popolazione. Che, in terza media, ha voti più bassi in tutte le materie. Che, negli ultimi anni, ha beneficiato meno dell’aumento occupazionale. Insomma: un disastro su tutta la linea.

Chi sono costoro?

Un piccolo gruppo di emarginati, svantaggiati, disabili? O di stranieri, immigrati, provenienti da qualche paese lontano? O sono gli abitanti di una regione o provincia italiana particolarmente povera?

Niente di tutto questo. Il gruppo di cui mai si parla mettendone in rilievo lo svantaggio sono i giovani maschi. È dal 1991 che si laureano meno delle ragazze: oggi il divario è salito al 50% (per ogni 15 ragazze che si laureano vi sono solo 10 laureati maschi). Nella scuola media inferiore, già al terzo anno le ragazze hanno voti migliori dei ragazzi, in tutte le materie, compresa la matematica. E le differenze si riproducono sul mercato del lavoro: nell’ultimo triennio il tasso di occupazione dei maschi è aumentato meno del 6%, quello delle donne di oltre il 12%, più del doppio.

Perché tutto questo?

È abbastanza semplice: i ragazzi studiano di meno delle ragazze, e proprio perché studiano di meno accumulano difficoltà crescenti nel percorso scolastico. Non studiare alle elementari non ha effetti immediati, tutti vengono promossi a prescindere. Ma man mano che si va avanti i deficit di preparazione costano sempre più cari: per quanto permissivo e di manica larga sia il sistema dell’istruzione, gli è impossibile promuovere tutti dalla licenza elementare alla laurea. È come in una corsa ad ostacoli: per chi studia poco gli ostacoli diventano sempre più alti man mano che si procede nei vari gradi (o “scalini”) del percorso di studi. Il risultato è una selezione spietata dei giovani maschi, che pagano il deficit di preparazione uscendo anzitempo dal percorso degli studi. Non a caso, nel confronto europeo, l’Italia non è messa affatto male se si comparano i tassi di conseguimento della laurea delle ragazze, ma occupa una posizione sconfortante se si comparano quelli dei ragazzi: le ragazze laureate sono il 37%, vicine all’obiettivo europeo del 45% entro il 2030, i ragazzi sono fermi al 24%, poco più della metà dell’obiettivo europeo.

Se questo è quel che raccontano i dati, ci si potrebbe chiedere perché se ne parla così poco. Qualsiasi gruppo sociale che presentasse numeri come quelli dei giovani maschi diventerebbe immediatamente oggetto di attenzione, di pensosi dibattiti, di proposte e iniziative per colmare il divario. Per i maschi invece no, questa attenzione non c’è quasi mai.

La ragione è semplice, e la dice molto lunga sul tipo di cultura in cui siamo immersi: dei maschi non si parla perché sono sì un gruppo svantaggiato, ma lo sono per responsabilità propria. Non possono rivendicare lo status di vittima. Non c’è una condizione sociale, un trauma, una tara psicologica o mentale che ne giustifichi il ritardo nella corsa della vita.

Di qui il silenzio. Un silenzio che, per una volta, si potrebbe provare a interrompere. Almeno nei giorni in cui per tutti, giovani ragazzi e ragazze, comincia l’avventura degli studi.

[articolo uscito sul Messaggero il 14 settembre 2025]