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A proposito di Pasolini – Sinistra e nostalgia

15 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Pasolini era un conservatore? Pasolini non era di sinistra? Pasolini era di destra?

È probabile che, dell’edizione di Atreju che si conclude oggi, saranno queste le domande che più a lungo ci accompagneranno. Domande interessanti, su cui in tanti si sono interrogati. C’è chi ha risposto sì, c’è chi ha negato risolutamente, c’è chi ha concluso che Pasolini è inclassificabile.

Forse, però, la domanda giusta è un’altra. Dopotutto, su chi fosse veramente Pasolini non ci sono grandi dubbi o divergenze. Più che chiederci se era un conservatore, dovremmo chiederci che cosa davvero significhi essere un conservatore e, in secondo luogo, se si possa – al tempo stesso – essere conservatori e di sinistra.

Sul fatto che nel pensiero di Pasolini si possano rintracciare elementi di conservatorismo credo non vi possano essere dubbi. Nella sua critica del mito dello sviluppo, nel suo rimpianto per il mondo di ieri (meravigliosamente descritta con la metafora della “scomparsa delle lucciole”), nella sua ostilità alla legge sull’aborto vista come sottomissione al potere dei consumi (il “nuovo fascismo”), echeggiano sicuramente motivi conservatori, per non dire retrogradi o reazionari. Dunque, alla domanda se Pasolini fosse un conservatore tenderei a rispondere: di più, Pasolini era un “indietrista”, che guardava in modo romantico all’Italia povera e contadina, e pensava che lo “sviluppo”, con la dilatazione dei consumi delle masse e la liberazione sessuale, non fosse progresso. Perché, per lui, il vero progresso era anche, se non innanzitutto, liberazione dall’alienazione consumistica, rinuncia al superfluo.

Ma Pasolini era di sinistra, o perlomeno si sentiva tale, e tale era considerato dai più. Eccoci quindi al vero interrogativo: che cosa significa essere di sinistra? si può essere di sinistra e conservatori? la nostalgia per il passato è un’esclusiva della destra?

Ebbene, se sono queste le domande, tutto diventa più chiaro e semplice. Perché una sinistra conservatrice, anti-borghese, ostile al consumismo, anti-individualista,  sensibile alle istanze comunitarie, critica verso l’ideologia dei diritti umani, è sempre esistita, almeno dai tempi di Marx. Anzi il suo capostipite è Marx stesso, che soprattutto ne La questione ebraica (1844), pone con forza, e sorprendente crudezza, il problema delle basi del legame sociale. Basi che, a suo parere, dovrebbero essere solidaristiche e perciò stesso diffidenti verso “i cosiddetti diritti dell’uomo”. I quali, per Marx, “non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su sé stessa”.

Questa linea di pensiero, che potremmo chiamare sinistra antica, stigmatizza ora i consumi superflui (Marcuse), ora l’industria culturale (Adorno, Horkheimer), ora la crescita (Latouche), ora il cosmopolitismo e l’ideologia dei diritti umani (Michéa, Žižek), ora l’individualismo e l’atomismo della modernità (Bauman). E scorre come un fiume carsico sotto il cammino della sinistra ufficiale. La cui storia può anche essere descritta come un lento congedo dalla visione  collettivistico-solidaristica del legame sociale (tipica dell’Ottocento e cara a Marx), verso una concezione individualistica, per cui il cemento della società è un contratto sociale fondato su principi universali (il “patriottismo costituzionale”, teorizzato da Jürgen Habermas). Il nucleo del progresso diventa quindi la crescita della libertà individuale, fatta di consumi crescenti e espansione dei diritti dell’individuo, non importa quanto isolato e separato dagli altri individui. Un ideale che in occidente ha avuto nella Svezia socialdemocratica la sua più avanzata, esemplare, e pure discutibile realizzazione.

È questo tipo di sinistra, allora nascente, da cui Pasolini prendeva le distanze, senza per questo diventare un intellettuale di destra. Non gli occorreva cambiare campo, non tanto perché la destra di allora era essenzialmente la Dc, ma perché in quel tempo esisteva e contava ancora una sinistra comunitaria, rispettosa della tradizione, radicata nel “mondo di sotto”, non ancora imborghesita e ostaggio della cultura dei diritti. Pasolini probabilmente sentiva che, sotto la pressione del movimento studentesco e del femminismo, quella sinistra antica avrebbe presto cambiato pelle. Per questo non fu mai tenero con gli studenti, visti come figli di papà, né con le aspirazioni delle donne, viste come avanguardie di una borghesissima rivoluzione del costume.

Ma quando il cambio di pelle si produsse effettivamente?

Credo si possa dire che quel tipo di sinistra, che proprio perché antica pensava ancora in termini di doveri e di sacrifici, si inabissò in un arco di tempo preciso, fra il 1977 e il 1984. Esisteva ancora nel triennio 1977-1979, quando Berlinguer e Lama, in nome dell’interesse collettivo, lanciarono e difesero la linea dell’austerità a dispetto dei sacrifici che comportava per i lavoratori. Ma non c’era già più nel 1984, quando la morte di Berlinguer sottrasse al maggiore partito della sinistra l’unico dirigente capace di mantenere un legame forte con i ceti popolari. Dopo la morte di Berlinguer la sinistra antica, orgogliosamente comunitaria e anti-individualista, sopravvive solo a livello culturale (nel pensiero di molti filosofi) e in piccole formazioni politiche, radicali e minoritarie.

Pasolini non visse abbastanza per assistere all’inabissamento della sinistra antica e al trionfo della “vita facilitata”, così ben descritta dal sociologo Gian Paolo Ceserani in un suo libro del 1977. Non possiamo sapere con certezza come Pasolini avrebbe raccontato il paese che allora stava prendendo forma, ma sappiamo come vedeva l’Italia pochi anni prima di morire: “Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze. Quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro”.

Se questa non è nostalgia, che cosa è?

[articolo uscito sul Messaggero il 14 dicembre 2025]

Come nel ’68? Riflessioni sulla competizione vittimaria

15 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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La nostalgia del passato è un sentimento potente, che si accentua con la vecchiaia.
Poco male, in fondo. Quando però si fa un lavoro intellettuale – come giornalista, studioso, scrittore – il cocktail nostalgia + vecchiaia può diventare pericoloso. Leggere la realtà di oggi con le lenti di ieri, può indebolire la nostra capacità di comprensione dell’oggi. È quel che, mi pare, sta capitando a tanti membri della mia generazione, estasiati dal dilagare – in tutto l’Occidente – delle proteste studentesche, specie nelle università.

Il vissuto dei cosiddetti baby boomers (nati nel periodo del boom demografico: 1946-1964) si può riassumere così: abbiamo passato anni a denigrare i giovani delle ultime generazioni descrivendoli come fragili, sdraiati, bamboccioni, pigri, disimpegnati ma ora – finalmente – le manifestazioni contro il “genocidio” che Israele sta perpetrando a Gaza mostrano che quella diagnosi è sbagliata. I giovani dell’occidente sono tornati a essere idealisti, proprio come lo eravamo noi sessantottini quando ci battevamo contro la guerra in Vietnam, lo sfruttamento in fabbrica, il baronato, l’autoritarismo, la repressione, eccetera: un caso da manuale di “proiezione”, direbbe forse uno psicanalista incaricato di esaminare la mente di noi ex sessantottini.

Il parallelo fra gioventù di oggi e gioventù di ieri, però, non regge a un’analisi disincantata.

Cominciamo dai numeri. Giornali e tv riportano con grande evidenza episodi di contestazione-dissenso-scontro, compresi casi del tutto marginali e minoritari come l’assalto alle transenne del Salone del libro di sabato scorso, ma quando si va a vedere chi e quanti erano i contestatori si scopre quasi sempre che si trattava di poche centinaia di persone, inclusi adulti infiltrati, o giovani chiamati a raccolta da altre regioni. In breve: siamo di due ordini di grandezza (ossia di un fattore 100) al di sotto delle mobilitazioni studentesche del decennio 1967-1977.

Quanto al consenso verso le proteste, i pochi sondaggi disponibili rivelano (specie negli Stati Uniti) che il sostegno alle occupazioni delle università è estremamente ridotto, e l’opinione pubblica è molto divisa nell’attribuzione delle responsabilità del
conflitto (in un recentissimo sondaggio americano la responsabilità è attribuita dal 34% ad Hamas, e solo dal 19% a Netanyahu). Stranamente i media, che fanno sondaggi su tutto, non sembrano nutrire il minimo interesse per quel che pensano i cittadini, e in particolare gli altri studenti, che non manifestano né partecipano a occupazioni (oltre il 99% degli studenti).

Ma non sono solo i numeri ad essere differenti rispetto a quelli degli anni della contestazione. La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi la competizione vittimaria è l’essenza dello scontro ideologico in atto.

Che cos’è la “competizione vittimaria”, un concetto da tempo all’attenzione di studiosi e filosofi? Fondamentalmente è quel che succede quando entrambe le parti del conflitto hanno ragioni solide, e perfettamente visibili, per autopercepirsi come vittime di oppressione, violenze, gravissimi soprusi. E utilizzano questa loro condizione per negare l’analoga condizione vissuta dalla parte avversa. Questa doppia o speculare condizione di vittime, nel ’68 semplicemente non c’era. Oggi è il nucleo del conflitto, perché sia i palestinesi sia gli israeliani hanno robuste e incontestabili ragioni per sentirsi vittime. Di qui una conseguenza logica: chi scende in piazza a sostegno di una delle due parti, e lo fa ignorando completamente le ragioni dell’altra, si macchia di disumanità. Disumano è il silenzio senza pietas dei pro-Israele sulle sofferenze inflitte ai palestinesi con l’invasione di Gaza, disumano è il silenzio senza pietas dei pro-Palestina sulle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre.

Ecco perché vedere nella protesta di oggi pro-Gaza una riedizione del più o meno ingenuo (e più o meno fazioso) idealismo di ieri è sostanzialmente errato. Ai tempi del Vietnam non c’erano due “vittime assolute” in competizione fra loro per il sostegno delle opinioni pubbliche. C’era una guerra, e si poteva plausibilmente prendere posizione pro o contro l’intervento americano, così come si può, ai giorni nostri, prendere posizione pro o contro il sostegno all’Ucraina. Oggi è diverso. Il dramma di entrambi i popoli che si contendono la terra di Palestina è così vasto e profondo che diventa immorale difendere le ragioni dell’uno senza vedere quelle dell’altro. Non è l’idealismo, ma il venir meno di ogni senso di umanità, che pervade le manifestazioni che vedono solo vittime innocenti da una parte, e solo brutali oppressori dall’altra.

[articolo uscito su La Ragione il 14 maggio 2024]

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