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Eredità storiche. Il partito d’Azione e l’Italia di oggi

7 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia, parlar male del Partito d’Azione è, come si diceva un tempo, parlar male di Garibaldi. E se ne comprendono le ragioni. Gli azionisti —includendo nella categoria i seguaci  liberalcomunisti di Piero Gobetti e i socialisti liberali di Carlo Rosselli — tra il primo e il secondo dopoguerra hanno espresso una cultura politica di altissima cifra morale e intellettuale. Basti pensare a storici come Franco Venturi e Leo Valiani, a filosofi come Guido De Ruggiero, Norberto Bobbio, Guido Calogero, per non parlare dei politici, dei letterati e degli artisti che fecero parte di quella che fu una vera e propria ‘scuola di pensiero’. Si rifacevano tutti alla componente laica e democratica del Risorgimento anche se, al suo interno, si sentivano più vicini a Carlo Cattaneo che a Giuseppe Mazzini. Al centro delle loro riflessioni furono sempre le ‘illusioni perdute’ che la lotta per l’unità d’Italia aveva depositato negli animi dei suoi protagonisti.” Oh non per questo dal fatal di Quarto / Lido il naviglio dei mille salpò, / Né Rosolino Pilo aveva sparto / Suo gentil sangue che vantava Angiò”, avrebbero potuto ripetere col Giosuè Carducci de La consulta araldica (1869). Anche se il poeta maremmano non era particolarmente amato, giacché nel suo cuore c’erano l’Italia e la sua grandezza mentre gli azionisti, pensavano all’’Europa vivente’ alla quale si avrebbe dovuta ricongiungere l’Italia. L’insoddisfazione per l’Italietta umbertina a giolittiana, però, li accomunava a larga parte del ceto intellettuale prefascista, nel quale era raro trovare voci liberali– specialmente nella repubblica delle lettere. Per loro il paese, malgovernato da secoli, assoggettato ai preti, oggetto di invasioni e occupazioni straniere, era un vasto campo che andava ‘bonificato’ e redento. Le sue carenze culturali erano antiche e nei settori in cui lo spirito moderno aveva fatto progredire l’Europa, facendone il centro e l’arbitro del mondo—l’economia, le istituzioni politiche, la scienza—venivano fuori tutta la miseria e l’arretratezza dello stivale. Si trattava di reazioni e di stati d’animo comprensibili anche se portavano a sottovalutare i pur rilevanti progressi che la Destra e la Sinistra storica avevano fatto compiere. E’ innegabile che il paese fosse segnato da un ‘ritardo’ che non era agevole superare e che le classi dirigenti non sempre fossero all’altezza dei loro compiti.

 E tuttavia la cultura azionista ha instillato in quanti erano sinceramente interessati alla politica modi di pensiero, a ben guardare, incompatibili con la democrazia liberale. A cominciare dalla divisione degli italiani tra una ristretta élite di persone dabbene solleciti della ‘rei publicae salus’ e una massa amorfa—sparsa soprattutto nelle campagne e nella provincia profonda— caratterizzata da familismo amorale e dal perseguimento del ‘particulare’ e, pertanto, portata a frenare ogni inno-vazione. In quest’ottica, la chiesa e, in seguito, i grandi partiti proletari venivano accusati di svolgere un’opera di diseducazione nel senso che delle masse assecondavano gli atavismi, i pregiudizi, i costumi premoderni—nel caso della chiesa—o favorivano le pulsioni demagogiche—nel caso dei partiti proletari.

 Gli azionisti, beninteso, rifuggivano dalla violenza giacobina ma del giacobinismo condividevano il pregiudizio che i costumi, i valori antichi, le credenze ereditate dal passato dovessero venir cancel-lati—soprattutto grazie a strategie scolastiche non poco esigenti—se si volevano far nascere gli ‘Italiani  nuovi’. Era, questo, uno ‘stile di pensiero’ quanto mai illiberale e potenzialmente tota-litario. Il governo degli uomini infatti non è assimilabile a un’opera di bonifica ma a un’arte combi-natoria, che si serve dell’esistente (e persino dei suoi pregiudizi) per avanzare sulle vie dell’avvenire, con meno traumi possibili. E’ la grande lezione di Vincenzo Cuoco, il primo liberale italiano,  ammiratore dei protagonisti della Repubblica partenopea, ma consapevole che la loro estraneità a un liberalismo, che oggi definiremmo ‘storicistico e comunitario’, li avrebbe portati alla rovina.

 Gli azionisti, non amavano gli Italiani ‘così come sono’. Non a caso furono i più implacabili avversari dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini—il movimento nato nel secondo dopoguerra per protestare conto l’indottrinamento antifascista   di massa—-e i più lontani dal ‘piccolo mondo’ di Giovannino Guareschi. Ripugnava ad essi l’atteggiamento bonario nei confronti della ‘gente meccanica e di piccolo affare’, così poco disposta a impegnarsi nella ‘riforma morale e intellettuale’ della nazione.

 Non meraviglia, quindi, che non pochi azionisti, in tutta onestà, avessero, sulle prime, simpatizzato col fascismo e che, nel secondo dopoguerra, avessero guardato con interesse alla sinistra comunista (con la speranza di guarirla dal materialismo storico e dalle utopie collettiviste ed egualitarie). In fondo, il fascismo e il comunismo non volevano, anch’essi,  in modi diversi, ‘bonificare’ gli italiani, sottoporli a una massiccia cura di idealismo, guarirli dai mali storici?<E’ l’Italia vera, su cui bisogna contare>, scriveva Giovanni Gentile:<di contro ad essa la borghesia degli avvocati, dei professori, degli impiegati, dei giornalisti, avventurieri, ciarlatani, dilettanti oziosi, cullanti la loro vanità nella pratica demolitrice di tutto e di tutti|…| Tutta l’Italia inferma, vecchia e tarlata, che dev’essere spazzata via dall’altra>.

 Di qui un altro veleno per una ‘democrazia a norma’: per riprendere la dicotomia di Francesco Alberoni, la legittimazione etica e politica dei movimenti rispetto alle istituzioni, la fiducia risposta in ciò che nasce spontaneamente dal basso per la sua (presunta) capacità di rigenerare ciò che sta in alto e che rischia di isterilirsi nella gestione dell’esistente. Forse è tempo, per fare un esempio significativo, di spiegare storicamente le fortissime simpatie mostrate dal Ferruccio Parri, direttore dell’’Astrolabio’, nei confronti  della contestazione sessantottesca, e di riportarle a una Welt-anschauung che ancora oggi seguita a ispirare giornali, case editrici, palinsesti televisivi.

Lettera 150, 1° Ottobre 2025

Sulla manifestazione del 15 marzo – Il manifesto di Ventotene, contro il pluralismo e la democrazia

21 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Di una cosa sono certo: la maggior parte di coloro che parlano del Manifesto di Ventotene non l’hanno letto. Lo dico a loro discolpa, perché se – anziché lodarlo acriticamente – l’avessero letto con la dovuta attenzione sarebbero da tempo impegnati in un difficile lavoro di reinterpretazione o, come si dice oggi, di “contestualizzazione”. In breve: si sforzerebbero di dimostrare che, nonostante le cose inquietanti che il manifesto indubbiamente dice, possiamo condividerne lo spirito, le finalità, le buone intenzioni (lo Stato federale europeo), e scordarci sia i fini concreti proclamati in quel manifesto sia i metodi invocati per imporre quei fini. E, venendo alla manifestazione di sabato scorso, anziché far circolare il sacro libretto preceduto da un’introduzione del tutto acritica, avrebbero avvertito i convenuti che – per non essere presi in castagna, come Giorgia Meloni ha provveduto a fare ieri – sarebbe stato bene non prendere troppo sul serio quel manifesto, in quanto molto datato e scritto in condizioni di isolamento.

Io invece lascio volentieri l’opera di contestualizzazione, depurazione, rilettura del Manifesto e vado dritto ai fini e ai mezzi esplicitamente dichiarati, perché prima di rileggere occorre leggere.

Ebbene, sui fini, il Manifesto dice chiaramente che l’assetto sociale da promuovere è di tipo socialista (anche se non comunista), con ampi espropri e severe limitazioni alla proprietà privata. Nessuna considerazione riceve l’eventualità che l’assetto possa essere liberale, o non socialista.

Quanto ai mezzi, il Manifesto immagina che il nuovo assetto possa essere instaurato attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, che imporrà la sua volontà alle masse, ancora incapaci di riconoscere i propri interessi, semplice “materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”. In una situazione di “ancora inesistente volontà popolare” il partito rivoluzionario, guidato da una élite illuminata, “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto” non già dal consenso popolare ma “dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna”.

E non è tutto. Chi avesse dei dubbi sulla visione politica del Manifesto dovrebbe riflettere sulle parole, sprezzanti e beffarde, rivolte ai “democratici”, ovvero a quanti pensano che il potere del governo debba poggiare su libere elezioni. I democratici sono gente che sogna “un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi”. Illusi, che non comprendono che nella crisi rivoluzionaria “la metodologia politica democratica sarà un peso morto”. Pavidi, che sono disposti a usare la violenza “solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità”.

Insomma, spiace dirlo ma il Manifesto di Ventotene è il più esplicito e conturbante ripudio del pluralismo, la più clamorosa deviazione dal percorso democratico e costituzionale (libere elezioni + Assemblea Costituente) che, molto saggiamente, l’Italia seguirà dopo la fine della seconda guerra mondale.

Possiamo almeno dire che una cosa buona – l’idea degli Stati Uniti d’Europa – il Manifesto di Ventotene l’ha partorita?

Per certi versi sì, perché effettivamente è nel Manifesto del 1941 che per la prima volta viene compiutamente formulata quell’idea. Ma per certi versi invece no, perché il modo di formularla fu elitario, giacobino e anti-democratico. Da questo punto di vista, forse, anziché ripetere meccanicamente che il meraviglioso ideale di Ventotene è stato tradito dalle classi dirigenti che ci hanno condotti all’Europa attuale, forse dovremmo domandarci se il progetto europeo non è fallito proprio perché a quell’ideale si è conformato fin troppo. L’Europa di oggi, governata da una élite burocratica e autoreferenziale, soffre del medesimo male – la costruzione dall’alto, senza coinvolgimento popolare – che affligge il Manifesto di Ventotene.

Si può essere euro-scettici o europeisti convinti, ma chi davvero sogna gli Stati Uniti d’Europa, s crede nel metodo democratico non può prendere a modello il Manifesto di Ventotene. Idolatrare quel modello è stata un’ingenuità, dettata dall’ideologia e dalla scarsa conoscenza. Possiamo fare molto di meglio, e dobbiamo provarci senza rinunciare al pluralismo e alla democrazia.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 marzo 2025]

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