Disegno di legge sul femminicidio – Più o meno padre?
In primo pianoPoliticaSocietàIl disegno di legge sul femminicidio torna a far parlare di sé, come già era successo qualche mese fa, al momento del suo annuncio. Con una novità: il ritorno di argomenti paleo-sessantottini contro l’uso del diritto penale come mezzo di contrasto di determinati delitti. Il ragionamento è sempre lo stesso: il fenomeno (in questo caso il femminicidio) è complesso, le sue cause sono sociali e culturali, le misure repressive sono inefficaci, dobbiamo prevenire, non reprimere (su questa linea, in particolare, si sono mosse un’ottantina di giuriste che hanno proclamato la loro contrarietà al disegno di legge).
Si tratta di un fatto nuovo perché, al momento della presentazione, il testo di legge aveva invece goduto di un sostegno bipartisan. L’8 marzo, a un convegno femminista cui ero stato invitato, mi era accaduto di ascoltare non pochi interventi a favore delle nuove norme (che non riguardano solo l’introduzione del reato di femminicidio) anche da parte progressista. Più in generale, la maggior parte delle critiche inizialmente formulate erano state di natura tecnica (difficoltà di stabilire quando una donna viene uccisa “in quanto donna”) o di tipo costruttivo (mancanza di risorse economiche adeguate). Ora non più. Forse per la concomitanza con il disegno di legge sicurezza, i toni si vanno facendo sempre più aspri. Il disegno di legge sul femminicidio, che peraltro – oltre alla definizione del nuovo reato – contiene numerose norme di contrasto alla violenza di genere, viene attaccato in quanto repressivo e perciò stesso inefficace. Nell’appello delle giuriste, ad esempio, con considerevole spregio delle regole delle scienze sociali, si afferma apoditticamente che “osservando la realtà, si può constatare come qualsiasi intervento repressivo svincolato da azioni di perequazione sociale ed economica e da strategie di prevenzione, di tipo innanzitutto culturale, risulti del tutto inefficace”. E da più parti si torna ad ascoltare il mantra dell’educazione sessuale/sentimentale nelle scuole, vista come via maestra per sradicare il patriarcato. Una strada che piace alla sinistra, ma non convince la destra, timorosa che i corsi di educazione sessuale/sentimentale si trasformino in strumenti di propaganda della cosiddetta “teoria gender” e dei diritti LGBTQ+.
Al di là delle polemiche di questi giorni, la realtà è che sulle radici dei femminicidi, e quindi sui mezzi per combatterli, vi sono idee di fondo molto diverse, e non sempre riducibili alla contrapposizione fra progressisti e conservatori. Per alcuni la radice del male è il carattere patriarcale della nostra società, e il canale di trasmissione è soprattutto l’educazione, o meglio la mancanza di educazione all’affettività e al rispetto. Di qui l’idea che, essendo impossibile imporre modelli educativi alle famiglie, sia innanzitutto la scuola che debba farsi carico del problema, fin dal ciclo primario. Dietro ogni femminicidio, vi sarebbe un maschio cui non è stato insegnato il rispetto della donna, della sua autonomia, libertà e dignità.
Per altri, invece, le cose stanno un po’ diversamente. Una parte dei femminicidi sarebbero quasi ineliminabili, in quanto riconducibili a condizioni psichiatriche o drammi esistenziali dei loro autori. Mentre la quota maggiore sarebbe frutto di autori apparentemente “normalissimi”, accomunati dalla incapacità di accettare un rifiuto oi sopportare le “pretese” di indipendenza della partner. Di qui l’idea che il punto cruciale non sia l’insegnamento del rispetto, bensì la capacità degli adulti (genitori e insegnanti innanzitutto) di comportarsi da adulti, esercitando l’autorità che il loro ruolo educativo comporta. Perché il problema del maschio che uccide la donna che dice di amare è che non è stato abituato a ricevere dei no, a rispettare dei limiti, ad accettare rinunce, a differire la gratificazione.
Anche se a prima vista possono sembrare due prospettive simili, o quantomeno compatibili, si tratta in realtà di due modi di vedere le cose opposti. Per gli uni il problema è che la nostra società, nonostante mezzo secolo di lotte e di conquiste delle donne, resta una società maschilista (ingenuamente e impropriamente definita patriarcale), per gli altri il problema è l’evaporazione della “funzione paterna”, espressione con la quale psicanalisti e psicologi sociali intendono l’esercizio dell’autorità e l’insegnamento del desiderio, lacanianamente incompatibile con il godimento immediato. Insomma: per i primi nella società c’è troppo padre, per i secondi ce n’è troppo poco.
Di qui la diversità di prescrizioni: per gli uni solo la scuola, con i corsi di educazione sentimentale, può sperare di raddrizzare il legno storto del maschilismo; per gli altri il compito della scuola è semmai di tornare a essere una cosa seria, e quello dei genitori di tornare a fare i genitori, anziché – come troppo spesso accade – i sindacalisti dei figli.
Chi ha ragione?
Sfortunatamente non vi sono abbastanza dati per confermare o confutare le due teorie, anche se qualche indizio empirico esiste. Ma è importante che dell’esistenza di queste due linee di pensiero si prenda atto, e sulle radici culturali del femminicidio si avvii una riflessione di ampio raggio, aperta e senza pregiudizi. Perché la posta in gioco è alta: se davvero vogliamo battere questo obbrobrio, dobbiamo capire qual è la strada che può dare più frutti.
[articolo uscito sul Messaggero il 31 maggio 2025]