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Ma guai se il festival vuole dividere tra buoni e cattivi

12 Febbraio 2020 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoSocietà

«Bellissimo» ha definito Amadeus il monologo di Rula Jebreal sul femminicidio, in cui – come si legge nell’articolo  sul “Dubbio” di Giulia Merlo – «racconta storie di donne, tra le quali quella di sua madre» vittime di stupri in tutto il mondo e «declama versi delle canzoni di uomini» meravigliandosi che sanno scrivere di donne in modo così rispettoso. Poi chiede che si parli di come lei era vestita a Sanremo, ma non di come era vestita una donna la notte in cui è stata stuprata. Che le donne vengano “lasciate essere” ciò che vogliono. Tutto giusto, lacrime tra il pubblico e anche negli occhi della Jebreal, standing ovation». Una battaglia civile, quella di Rula Jebreal, che condivido in toto, specie se penso alle domande di certi magistrati alle donne che hanno denunciato la violenza subita: le stesse degli anni in cui Pietro Germi girava uno dei suoi capolavori, Sedotta e abbandonata (1964). Altrettanto civile ritengo l’impegno dell’Associazione Luca Coscioni a favore dei malati di SLA e del diritto alle disposizioni anticipate di trattamento che dovrebbe essere pienamente riconosciuto.

Tutto bene, quindi? No: alla stampa nazionale che esalta Amadeus e considera le performances di Rula Jebreal e di Maria Antonietta Farina Coscioni – che ha portato sul palcoscenico dell’Ariston un ventunenne colpito dalla SLA, Paolo Palumbo – e parla di un “vero” successo, mi sento di rispondere, si licet magnis componere parva, come Giordano Bruno, nel celebre sonetto di Trilussa, «nun è vero un corno» (con la tranquilla sicurezza, però, di non fare «la fine dell’abbacchio ar forno”).

Sanremo, ha detto la Farina, non è solo le “canzonette” «spesso è anche “impegno”, nel senso più alto, più nobile, della parola. Un palcoscenico per comunicare, far sapere, rendere consapevoli». Sorvolo sul termine “canzonette” che fa pensare (impropriamente) a forme d’arte minori e plebee e vengo al punto. Ma è normale, mi chiedo, utilizzare, solo per questioni di audience, uno spettacolo musicale seguito da milioni di telespettatori, al fine di far conoscere all’opinione pubblica l’autentica passione civile che anima la bella giornalista palestinese e la matura signora italiana? Nel mondo, la fabbrica del dolore e della sofferenza è attiva in ogni continente e le cause degne di attenzione sono infinite. Chi sceglie quelle da portare all’attenzione del paese? E in base a quali criteri selettivi?

Sennonché anche se le cause grancassate a Sanremo trovassero concordi tutti i membri dell’ideale giuria preposta alla selezione, resta la domanda: ma che tipo di società stiamo costruendo? Vogliamo vivere in un paese in cui non ci sono domeniche per l’impegno civile, per la partecipazione alle battaglie ideali, per l’esenzione ad essere sempre vigili e memori? E non è questo l’ideale dei regimi (e dei partiti) totalitari? E’ un’ideologia di questo tipo che ha  sostituito alla satira politica l’ironia sarcastica di “Fratelli di Crozza”; che ha preteso che la scuola diventasse il luogo in cui indottrinare i giovani col catechismo repubblicano (altro non è l’“educazione civica” ricomparsa ora al posto del ben più utile insegnamento di “Elementi di diritto costituzionale italiano ed europeo”); che ha delegittimato tutti coloro che non si riconoscono nella retorica antifascista giacché credono che la democrazia liberale sia un valore più alto e più “universale” dell’antifascismo di marca azionista o comunista; che si riservano il diritto di criticare quanti, se dipendesse da loro, istituirebbero non uno ma cento, mille, giorni della memoria e vorrebbero che tutti ci cospargessimo il capo di cenere per delitti commessi quando non eravamo nemmeno nati.

Stiamo ben attenti. A Sanremo si è vista la politicizzazione (per altro non nuova) di un momento collettivo di svago, in cui il dolore del ricordo e la sofferenza del presente hanno – sia pure inconsapevolmente – segnato sulla grande lavagna repubblicana i nomi dei buoni e quelli dei cattivi.

A scanso di equivoci, riconosco a ogni essere umano il diritto all’autodeterminazione – come del resto ha raccontato Paolo, il ragazzo affetto da SLA che lotta ogni giorno per sopravvivere e realizzarsi, grazie all’aiuto della sua famiglia – ma non voglio vincere la partita per decisione dell’arbitro e prima ancora che le squadre rivali scendano in campo. Quando al liceo qualche professore, a lezione, infilava nel discorso le sue opinioni politiche mi sentivo a disagio: soprattutto se erano anche le mie!

Oggi si è parlato di stupri e di liberazione dei malati terminali dal carcere della vita, domani si potrebbe parlare dell’obbligo di accoglienza universale, degli orrori del capitalismo e del mercato, del diritto della magistratura a perseguire i reati con ogni mezzo. Tutte battaglie legittime (anche se non le condivido) ma che vanno combattute negli spazi ad esse assegnati da una società civile che nella separazione delle “sfere vitali” vede l’essenza dell’etica liberale.

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Dino Cofrancesco
Dino Cofrancesco
Arce (FR), 15 novembre 1942 Laurea in Filosofia Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università degli Studi di Genova.
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