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Il rebus demografico

28 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Facciamo sempre meno figli, è vero. E non siamo solo noi italiani a farne sempre di meno. Ma sul perché ciò accada le opinioni divergono, anche fra gli specialisti. Anzi, soprattutto fra gli specialisti. Nel mio lavoro di sociologo, raramente mi è capitato di incontrare un fenomeno per spiegare il quale ci fossero opinioni così numerose e divergenti (per la precisione, mi è capitato una sola volta, con l’enigma tuttora insoluto del crollo degli omicidi in America dopo il 1990).

Il punto su cui quasi tutti concordano è quello ricordato da Prodi nel suo articolo di ieri su questo giornale: la tendenza è generale, coinvolge paesi ricchi e paesi poveri, classi alte e classi basse, città e campagne. Ebbene, già questo primo punto di partenza ammette eccezioni significative. Fra i paesi principali del mondo (popolosi almeno come l’Islanda) ve ne sono ben 15 in cui nell’ultimo decennio il tasso di fecondità totale (numero di figli per donna in età fertile) anziché diminuire è aumentato. E di questi 15 paesi “anomali” ben 8 sono nell’Unione Europea, altri 4 sono ex membri della Jugoslavia, mentre gli altri 3 facevano parte dell’Unione sovietica. Degli 8 paesi UE 3 sono occidentali (Portogallo, Grecia, Cipro), gli altri 5 sono ex comunisti (Romania, Bulgaria, Ungheria, Croazia, Slovacchia). Insomma, pare che l’Europa sia l’unica parte del mondo in cui è in atto una controtendenza significativa.

Ma veniamo all’Italia, il cui tasso di fecondità totale è circa 1.2 (solo 4 paesi UE hanno un tasso di fecondità minore). Perché è più basso di quello della maggior parte dei paesi europei?

La diagnosi che si ascolta più di frequente chiama in causa i cosiddetti fattori strutturali: reddito pro capite insufficiente, tasso di occupazione femminile bassissimo, mancanza di asili nido. Di qui la terapia: se si vuole invertire la tendenza occorre moltiplicare i benefit a favore delle famiglie che desiderano avere figli ma non se lo possono permettere. Il ragionamento filerebbe, se non vi fosse un’obiezione grande come una casa: se la ragione della bassa natalità italiana sono le condizioni strutturali delle famiglie, come si spiega il fatto che il tasso di natalità sia altrettanto basso in paesi come il Lussemburgo o la Finlandia, dove il reddito pro capite è più alto, gli asili nido non mancano e le donne lavorano?

Un’obiezione che viene rafforzata da un’altra osservazione: se guardiamo alle tendenze degli ultimi 10 anni, il calo che si osserva in Italia è alquanto minore di quello che si osserva in Francia, il paese invariabilmente additato a modello da imitare. Di qui la domanda: se non ci riesce la Francia che ha tutte le carte in regola, come può sperare l’Italia di fermare il calo delle nascite?

È a questo punto che, in molte discussioni sul problema demografico, si affaccia la diagnosi alternativa: è la cultura che fa la differenza. Il tasso di fecondità scenderebbe soprattutto perché i modelli culturali cambiano. Individualismo, narcisismo, fluidità dei rapporti, primato dell’autorealizzazione, renderebbero sempre più problematico il progetto di costruire una famiglia stabile e allevare dei figli: se quando eravamo più poveri facevamo più bambini non è solo perché non c’erano gli anticoncezionali ma è perché eravamo meno centrati su noi stessi.

Il punto forte di questa spiegazione è la sua autoevidenza (chiunque si rende conto che viviamo in un mondo molto più individualista di quello di ieri). Il punto debole è che nessuno è in grado di individuare con precisione le culture che competono nel mondo e, anche quando si prova a farlo, si trova sempre che le differenze fra paesi all’interno della medesima area culturale sono molto grandi, comunque più ampie di quelle fra macro-aree culturali (Europa occidentale, paesi europei ex comunisti, paesi islamici, paesi cattolici, eccetera). Fra le società avanzate (ricche e democratiche), ad esempio, si va dal caso di Israele, che ha un tasso di fecondità prossimo a 3, a quello della Corea del Sud che ha un tasso di 0.72. Ma anche restringendo l’analisi alle società europee di tradizione occidentale si va dal minimo di Malta (1.06) al massimo della Francia (1.66). Insomma, sicuramente essere una società occidentale moderna conta, ma le particolarità nazionali sembrano ancora più influenti.

Che fare, dunque, se si vuole invertire il trend demografico?

Difficile dirlo, perché il rebus demografico è tutt’altro che risolto. E finché non ne saremo venuti a capo sarà difficile valutare costi e benefici di qualsiasi politica.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 luglio 2025]

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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