Genocidio e pulizia etnica
In primo pianoPoliticaSocietàL’orrore suscitato dalle rovine di Gaza, che fanno pensare a Hiroshima e a Nagasaki, ha indotto politici, studiosi, cittadini comuni ad accusare il governo Netanyahu di genocidio. Capisco chi ritiene il premier israeliano un’criminale di guerra’ ma l’uso del termine ‘genocidio’ mi sembra del tutto inappropriato. La violenza cieca ed efferata nei confronti di chi occupa un territorio che l’aggressore considera destinatogli da Dio o dalla Storia o dal Progresso, è un fenomeno costante nella storia: si pensi solo alle stragi di indiani compiute in America o al massacro degli armeni per mano turca (e non furono i ministri retrogradi e reazionari della Sublime Porta a farlo ma i Giovani Turchi del partito Unione e Progresso!) In questi e in altri casi, l’imperativo è <non vogliamo gente estranea a casa nostra!>. Nella Democrazia in America del 1835, Tocqueville, inorridito dal trattamento riservato, nei civilissimi States, a indiani e ‘negri’, scriveva: «Non si direbbe, nel vedere ciò che avviene nel mondo, che l’europeo è per gli uomini delle altre razze quello che l’uomo stesso è per gli animali? ». Per i pionieri, in realtà, le immense praterie del Nord America, piene di laghi, di fiumi, di pascoli erano la Terra Promessa che Iddio aveva assegnato alla razza bianca anglosassone, in considerazione delle sue eccelse virtù, e non a caso il Vecchio Testamento ricorreva così frequentemente nei loro nomi e nei loro riti religiosi. Forse si dimentica che le giustificazioni ideologiche del colonialismo sono la missione religiosa e il dovere di espandere i lumi e la scienza in tutti gli angoli del mondo. Contro il richiamo ai lumi e all’esportazione della civiltà un repubblicano, come Georges Clemenceau, ammoniva, nel Discorso alla Camera del 30 luglio 1885, «Guardate la storia della conquista di questi popoli che chiamate barbari e vedrete la violenza, tutti i crimini scatenati, l’oppressione, il sangue che scorre a torrenti, i deboli oppressi, tiranneggiati dal vincitore! Questa è la storia della vostra civiltà! […] Quanti crimini atroci, spaventosi sono stati commessi in nome della giustizia e della civiltà ».
Lo ‘spirito di conquista e di usurpazione’ non è iscritto solo nel dna della destra (il monarchico Charles Maurras non era affatto favorevole alle conquiste coloniali) ma nasce da un progetto imperiale che lo stato nazionale nell’età dell’anarchia internazionale – gli ultimi decenni dell’Ottocento che vedono il dissolvimento dell’equilibrio europeo creato a Vienna dal Principe di Metternich – coltiva ma non produce. È il bisogno di spazio vitale, al di là delle motivazioni ideali, che porta ad allargare a dismisura i confini della comunità politica fino a snaturarla (giacché ne mette in crisi l’omogeneità culturale), al di là delle motivazioni ideali: si vuole ampliare la vecchia casa in modo da renderla più ricca economicamente e più sicura militarmente.
E tuttavia nell’agire dei governi manca la pretesa di agire, o di legiferare, per il genere umano. È qui la differenza cruciale tra la pulizia etnica e il genocidio. In quest’ultimo, definito nella ‘Enciclopedia Britannica’ come «deliberata e sistematica distruzione di un popolo per le sue caratteristiche etniche, nazionali, religiose o razziali», troviamo qualcosa di inedito: non il nazionalismo dilatato ma una sorta di universalismo nero che induce certi regimi politici a investirsi del compito di ripulire l’umanità da una razza infetta e inquinante. Per i pionieri del Far West, per gli israeliani, per i turchi, i pellirosse, i palestinesi e gli armeni non erano germi patogeni, destinati a infettare la razza umana ma minoranze detestate, in quanto suscettibili di ‘rovinare la festa’ ovvero l’idillio e l’omogeneità comunitaria. «Le comunità politiche evolute, come le antiche città-stato o i moderni stati-nazione—scriveva Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo— insistono così spesso sull’omogeneità etnica perché tendono a eliminare nella misura del possibile le differenze naturali, sempre presenti, che suscitano odio, diffidenza e discriminazione».
Con il nazismo si entrava in un altro ordine di idee: non si trattava più di eliminare una minoranza incomoda e indesiderata, ma di una gigantesca opera di bonifica planetaria che avrebbe segnato nella storia del genere umano una svolta epocale. Per i nazisti gli ebrei erano batteri pestilenziali da eliminare in tutte le regioni della Terra in cui avevano messo radici. Qui non si trattava più di razze inferiori o superiori: il pioniere non riteneva indiani e ‘negri’ appartenenti, come lui, al genere umano ma, se li incontrava al di là del Rio Grande, gli erano del tutto indifferenti. Se gli Israeliani invadessero il Libano non chiederebbero certo alla polizia e alle amministrazioni comunali l’elenco dei palestinesi per deportarli a Gaza e ivi seppellirli sotto i bombardamenti. Al contrario, quando i nazisti invasero la Polonia e si insediarono nelle due France, quella occupata e quella di Vichy, non riconobbero nessuna autorità allo stato nazionale: per loro, funzionari del Genere Umano (Ariano, s’intende), passaporti e cittadinanza erano irrilevanti e pertanto delle deportazioni nei Lager non dovevano render conto a nessun governo amico, alleato, nemico che fosse.
È questo che sconvolge in episodi tragici come il rastrellamento del ghetto di Roma: il fatto che le SS non si limitano ad allontanare gli ‘indesiderabili’, a costringerli a emigrare altrove ma che lo facciano in nome di un’Autorità Mondiale che impone lo sterminio delle razze impure.
La ‘pulizia etnica’ sicuramente si lega a pregiudizi e a gerarchie razziali ma, a motivare il ‘genocidio’ è il fatto che gli ebrei non erano considerati esseri inferiori come gli slavi o come i cani bastardi rispetto ai cani di razza: erano pantegane che apportavano la peste e minacciavano di distruggere l’umanità. Di qui la missione di liberarne il mondo, ispirata a un’ideologia –universalistica appunto – che non riconosceva frontiere e stati nazionali.
È un fatto nuovo e terrificante, che spiega perché gli ebrei non si sentano minoranze perseguitate come le altre. L’antisemitismo, non lo si ribadirà mai abbastanza, è un unicum nella storia, giacché non si limita a colpire una razza o una religione, con cui non si vogliono avere rapporti di alcun genere – v. l’odio per africani, asiatici, islamici: ‘se ne tornino a casa’, ‘non li vogliamo in mezzo a noi’, ‘non sono ospiti graditi’ – ma vuole tagliare per sempre un ramo della pianta uomo Questo spiega l’attaccamento degli ebrei israeliani alla Terra promessa e la spietatezza nella guerra contro chi vorrebbe condannarli a una nuova diaspora.
Occorre considerare che la diaspora nell’800 non faceva aderire tutti gli ebrei al progetto di un focolare nazionale in cui vivere finalmente al riparo dai pogrom. Nelle società più evolute dell’Occidente – e soprattutto in quelle anglosassoni – i figli di Israele avevano trovato possibilità concrete di elevarsi socialmente, di porsi alla guida di banche e di imprese industriali, di tenere cattedre universitarie, di dirigere giornali e case editrici. Molti si erano integrati a tal punto da aver quasi dimenticato le loro origini ebraiche – penso a sociologi come Raymond Aron, a storici come Marc Bloch – sicché il ritorno alla terra degli avi non era in cima ai loro pensieri. Fu la terribile esperienza dei Lager a riattualizzare drammaticamente il tema dell’Aliyá, del Ritorno.
Va detto che neppure i palestinesi pensano al genocidio del popolo ebraico: anch’essi, come i loro nemici mortali, vogliono la ‘pulizia etnica’ ovvero ributtare in mare gli intrusi israeliani. La situazione in Terra Santa è drammatica, per non dire tragica, ma tirare in ballo il genocidio non aiuta né a risolverla né a fare chiarezza.