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Dopo l’assassinio di Kirk – Violenza e sicurezza, rebus insolubile

24 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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L’uccisione di Charlie Kirk, attivista conservatore schierato con Trump, ha riacceso le polemiche fra destra e sinistra sull’uso della violenza. Ma soprattutto sul nesso fra libertà di pensiero e istigazione all’odio dell’avversario politico. Che resta una questione irresolubile: la demonizzazione dell’avversario politico andrebbe repressa perché aumenta le probabilità che qualcuno prenda un’arma da fuoco e abbatta il demonio, ma la repressione per via legale delle manifestazioni di odio pone un grave limite alla libertà di espressione.

Forse anche per questo stallo politico-ideologico, ciclicamente a sinistra ci si ritorna a rifugiare in una vecchia idea dei democratici americani: limitare per legge il possesso di armi da fuoco. Se è vero – così si argomenta – che buona parte degli omicidi (circa 3 su 4) avvengono mediante un’arma da fuoco, perché non proibiamo l’uso di tali armi, o quantomeno restringiamo fortemente i casi in cui è ammesso possederne?

Apparentemente una soluzione di buon senso, per quanto contraria al 2° emendamento della Costituzione americana, che protegge il diritto dei cittadini di possedere e portare armi. L’idea è che, se gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidio così alto (uno dei più elevati delle società avanzate), è perché le armi da fuoco circolano troppo liberamente. Dunque, proibiamo le armi da fuoco e quel paese, come per miracolo, diventerà una società normale, con un tasso di omicidio – se non accettabile – quantomeno comparabile a quello delle altre società occidentali.

Purtroppo questo ragionamento contiene due gravi fallacie. La prima è l’ingenua credenza che, se le armi da fuoco fossero molto più difficili da detenere legalmente, i potenziali assassini rinuncerebbero a colpire le loro vittime. Ben più verosimili sono due altre eventualità: procurarsi un’arma da fuoco illegalmente, usare strumenti offensivi di altro tipo. Certo, è ragionevole ipotizzare che alcuni desisterebbero, o non riuscirebbero a portare a termine fino in fondo il loro proposito. E tuttavia è difficile pensare che 3 omicidi su 4 non avrebbero luogo solo perché è diventato più difficile procurarsi armi da fuoco.

Ma supponiamo, per un momento, che per miracolo proprio questo accada: tutti gli assassini intenzionati a uccidere con un’arma da fuoco desistono, e non uccidono più nessuno. Qui però incontriamo la seconda fallacia. Il tasso di omicidio degli Stati Uniti subirebbe una drastica potatura, ma resterebbe comunque anomalo. Giusto per dare un ordine di grandezza, il tasso di omicidio americano, che attualmente è di circa 6 uccisi ogni 100 mila abitanti (il valore più alto da 25 anni), scenderebbe a 1.5, che tuttavia è ben il triplo del tasso italiano (circa 0.5). Detto in altre parole, la società americana resterebbe comunque una società violenta, o per lo meno molto più violenta della nostra.

Hanno dunque ragione i conservatori, che invocano più repressione? Nemmeno questa conclusione è convincente. Chi invoca il giro di vite sul crimine dimentica che la società americana è già, almeno fra le società democratiche, una delle meno indulgenti. Non solo prevede ancora la pena di morte, ma ha il tasso di incarcerazione più alto delle società avanzate: 5 volte quello italiano, e 3 volte quello del paese europeo più repressivo (la Polonia).

Quello della sicurezza e della lotta alla violenza resta, da qualsiasi angolatura lo si guardi, un problema per cui non si conoscono soluzioni. Le limitazioni nell’uso delle armi potrebbero comportare una limatura dei tassi di omicidio, ma non cambierebbero drasticamente la situazione. I conservatori hanno ragione a denunciare l’aumento della violenza (negli ultimi anni il tasso di omicidio è cresciuto in 3 società avanzate su 4), ma i progressisti hanno a loro volta ragione nell’obiettare che l’aumento della repressione non garantisce la sicurezza.

È doloroso riconoscerlo, ma ci sono anche rebus che non ammettono soluzioni.

[articolo uscito sulla Ragione il 23 settembre 2025]

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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