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Infanticidi contro femminicidi?

6 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Non mi è piaciuto per niente, qualche sera fa in tv, il discorso che ho sentito fare da Vittorio Feltri sugli infanticidi, quando – in una discussione che aveva per oggetto i femminicidi – ha voluto ricordare che “le femministe italiane non parlano mai di infanticidi”, che pure sono “abbastanza numerosi” e tutti commessi da donne. Non mi è piaciuto perché trovo macabro (e del tutto improprio) contrapporre a una tragedia, quella dei femminicidi, una tragedia a prima vista di segno contrario, quella degli infanticidi: come se l’una potesse neutralizzare l’altra, o come se le malefatte delle donne potessero attenuare quelle degli uomini.

L’uscita di Feltri, provocatoria come nel suo stile, non mi è piaciuta anche per ragioni più tecniche. Intanto non è esatto che tutti gli infanticidi siano commessi da donne, come non è esatto che tutte le uccisioni di donne siano commesse da uomini: ci sono infanti uccisi da uomini, e maschi uccisi da donne.

Ma il vero motivo per cui non mi è piaciuto il discorso di Feltri, né mi piace il dibattito attuale sui femminicidi, è che entrambi mancano quello che, a mio parere, è il punto fondamentale di entrambi i fenomeni, e cioè che i loro numeri sono esigui, estremamente esigui (avvertenza per i lettori più ideologizzati: sto esprimendo un giudizio statistico, non una valutazione morale). Il che ha conseguenze sulla loro interpretazione.

Vediamoli, questi numeri. Secondo un recente rapporto Eures, i figlicidi sono poco più di 20 l’anno, di cui circa 3 infanticidi. Quanto ai femminicidi, dipende dalla definizione: secondo quella prevalente (uccisioni di donne in ambito affettivo o familiare), nel 2023 sono state finora 83, di cui 58 da parte del partner/marito (o ex), a loro volta suddivise fra 20 anziane (over 60), 18 nella fascia 40-59, 20 nella fascia 10-39 anni, la stessa di Giulia Cecchettin (ricavo i dati da un database meritoriamente costruito dall’associazione Non Una Di Meno).

Perché è importante il fatto che i numeri siano piccolissimi?

È semplice: perché rende quasi superfluo il lavoro dei sociologi come me. Quando un fatto drammatico ed estremo, generato da un comportamento umano, si presenta con una frequenza così bassa, tutte le nostre spiegazioni standard vacillano. È inutile, al limite del ridicolo, invocare le solite possibili determinanti: povertà, disoccupazione, emarginazione, bassa istruzione, territori degradati. Perché se fossero queste le fonti primarie di quei comportamenti, avremmo legioni di donne e infanti uccisi. E noteremmo, fra gli autori di tali gesti estremi, una netta sovra-rappresentazione di determinate condizioni sociali, eventualità che si presenta invece assai raramente (con un’unica, parziale, eccezione: quella degli stranieri).

Quello cui dobbiamo rivolgerci, semmai, è l’esperienza degli psichiatri, dei romanzieri, dei drammaturghi. Quando i comportamenti sono estremi e rarissimi, alla base c’è quasi sempre una catastrofe esistenziale, ossia una concatenazione di storie familiari drammatiche, eventi singolari più o meno accidentali, esperienze personali in qualche modo irreplicabili: insomma, il tragico che fa irruzione nella vita dell’individuo e lo acceca.

Lo testimoniano, in modo indiretto ma difficilmente controvertibile, i dati delle principali ricerche effettuate su questo genere di comportamenti sia all’estero sia in Italia. Da esse risulta, ad esempio, che 3 autrici di figlicidi su 4 sono affette da gravi disturbi psicologici, e dopo il delitto spesso finiscono in ospedali psichiatrici giudiziari. E che metà degli autori di femminicidi si suicidano o comunque provengono da condizioni di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, eccetera).

Ecco perché è ingenuo cercare cause sociali generalizzate, in particolare per i femminicidi. Rimuovere o attenuare determinate fonti di violenza, prima fra tutte la drammatica incompetenza sentimentale di tanti giovani e meno giovani, può essere importantissimo, perché – verosimilmente – permetterà di ridurre stupri e violenze sessuali (decine di migliaia di casi ogni anno!), ma difficilmente porterà molto più prossimi a zero i numeri dei delitti estremi. È, del resto, la consueta lezione della sociologia, da Merton in poi: le conseguenze dell’agire umano raramente sono quelle che gli uomini si aspettano.

Femminicidi, un problema degli anziani?

4 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

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A mia memoria, non era mai successo che un problema sociale attirasse un’attenzione così enorme come quella suscitata dal dramma di Giulia Cecchettin, e al tempo stesso fosse così poco studiato, almeno in Italia. Il fatto che quasi tutti abbiano un’opinione sulle cause e sui rimedi, non deve ingannarci: in realtà non sappiamo quasi nulla, se per “sapere” intendiamo conoscere chi sono le vittime, quali sono le cause, quali possono essere i rimedi efficaci.

Finora, quasi tutte le analisi del fenomeno si sono basate su dati molto aggregati, senza riuscire a scendere nel dettaglio – caso per caso, individuo per individuo – come sarebbe necessario se vogliamo cominciare a capire. Per questo meritano una speciale riconoscenza le donne dell’associazione Non Una Di Meno (NUDM), che da alcuni anni raccolgono in un database tutte le informazioni disponibili su ogni evento in cui una donna viene uccisa, indipendentemente dal fatto che l’omicidio possa essere classificato come femminicidio oppure no (al momento non esiste una definizione statistica condivisa e facile da applicare).

Sono andato a curiosare nel database, che descrive i 110 casi del 2023, e ho provato a fare alcuni calcoli, confrontando i profili di tre insiemi: le donne uccise, i loro uccisori, la popolazione italiana di almeno 10 anni. Ed ecco alcuni risultati.

Cominciamo da quella che considero la maggiore sorpresa: l’età media. Come la maggior parte delle persone che – a titolo di curiosità – ho interrogato in questi giorni, pensavo che le fasce di età a maggiore rischio fossero quelle intorno ai 20-30 anni, o tutt’al più fino ai 40. Ebbene, niente di più sbagliato. Nella fascia 20-40 anni rientra solo 1 donna uccisa su 4. La fascia a maggiore rischio è la fascia delle donne con almeno 60 anni, e il rischio aumenta passando alla fascia delle ultra-70enni. E infatti l’età media di tutte le donne uccise è 53 anni, e quella dei loro assassini (quasi tutti maschi) è 54 anni, entrambe maggiori dell’età media degli italiani  che è di 46 anni (50 se escludiamo i bambini).

In concreto, questo significa che il rischio di essere uccisa di una donna anziana è maggiore di quello di una donna giovane o adulta. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che, nelle uccisioni di donne, rientrano anche i casi che non configurano un femminicidio. Ma ripetendo il calcolo per i soli femminicidi in base a due definizioni e a due dataset diversi (è stato pubblicato anche un secondo dataset, molto meno ricco), il risultato non cambia, anzi si rafforza: il rischio di essere uccisa di una anziana di almeno 60 anni è del 46% più alto di quello di una donna sotto i 60, e quello di una donna di almeno 70 anni è del 69% più alto di quello di una donna sotto i 70. In breve: il caso di Giulia non è in nessun modo tipico.

Ma questa non è l’unica sorpresa. Nel database di NUDM ci sono molte altre informazioni che, in teoria, potrebbero aiutarci a costruire un profilo tipico delle vittime e dei loro assassini. Ebbene, quel che si scopre facendo i confronti con la popolazione, è che un tale profilo non c’è, anche se – su alcune variabili – emerge una qualche specificità del campione dei femminicidi (lo chiamo così per brevità). I 108 casi registrati sono avvenuti in quasi tutte le regioni; in comuni piccoli, medi e grandi; gli autori del delitto sono operai, impiegati, dirigenti, commercianti, pensionati, disoccupati, tutti in proporzioni comparabili a quelle della popolazione maschile generale.

Solo su alcuni particolari aspetti, è possibile rintracciare scostamenti – talora grandi, talora al limite della significatività statistica – fra il campione e la popolazione. Uno scostamento macroscopico, ma forse non sorprendente, è che metà degli aggressori o si suicida (oltre 1 su 3) o è comunque in una condizione di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, vagabondaggio, eccetera). Un secondo scostamento riguarda la nazionalità delle vittime e degli aggressori. In entrambi i casi sono sovrarappresentate le persone di nazionalità straniera, ma con una importante asimmetria: nel campione il rischio che una donna italiana sia uccisa da uno straniero è quasi 7 volte più alto del rischio opposto, ossia che una donna straniera sia uccisa da un italiano.

Prendere spunto da questi dati per fare affermazioni generali sulle radici dei femminicidi sarebbe una mossa avventata. Però, forse, una piccola considerazione possiamo farla: la visione che abbiamo dei femminicidi è molto stereotipata. Il caso della giovane donna vittima di un partner possessivo, ma per il resto “normale”, è decisamente minoritario. Le donne di meno di 40 anni uccise dal partner o dall’ex sono 20 su 110, e scendono a 16 se trascuriamo i casi in cui l’aggressore è un deviante o si suicida. In altre parole: i casi analoghi a quelli di Giulia e Filippo, anche a voler considerare tutta la fascia di età fino ai 40 anni, riguardano circa il 15% delle uccisioni di donne. E tutto il resto?

Sul resto dobbiamo indagare e riflettere, sapendo però che – al centro – ci sono le donne che attraversano “il terzo tempo” della loro vita, come lo ha chiamato Lidia Ravera in un suo libro recente sulla vecchiaia. Un gruppo sociale al quale, notava fin dagli anni ’80 un’altra scrittrice – Natalia Ginzburg – la nostra società riserva una sola, ipocrita, cortesia, quella di chiamarle anziane anziché vecchie.

Il singhiozzo dell’uomo maschio – A proposito di violenza sulle donne

25 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Era il 1983, giusto 40 anni fa, quando Pascal Bruckner pubblicava il suo libro più famoso, Il singhiozzo dell’uomo bianco, in cui descriveva gli impulsi di autoflagellazione della cultura occidentale, già allora in via di autoliquidazione.

Ma oggi siamo ben oltre. Quello cui ci tocca assistere, dopo la orribile, tristissima vicenda di Giulia Cecchettin, è il singhiozzo dell’uomo maschio: il bisogno di tanti maschi di dire che sì, si sentono anche loro responsabili, si vergognano di essere maschi, insomma la responsabilità di quel che è accaduto alla povera Giulia sarebbe anche loro.

La cosa interessante è che questo moto di autodenuncia, che per lo più scopiazza le più ardite (e indimostrate) teorie del movimento woke d’oltre oceano, non tocca minimamente la gente comune, che con difficoltà più o meno grandi, continua a condurre la sua vita ordinaria. Difficile ascoltare un operaio che si sente corresponsabile del femminicidio di Giulia, ma facilissimo leggere le riflessioni di un intellettuale, di uno studioso, di un giornalista, di un politico, che mettono in scena esercizi più o meno sofisticati di autoaccusa e rincrescimento.

Perché questa differenza?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due, del tutto diverse l’una dall’altra. La prima è che chi occupa posizioni di prestigio nella sfera pubblica corre oggi un grandissimo rischio: quello di entrare nel mirino delle attiviste che conducono la crociata conto il maschio, il maschilismo, il cosiddetto patriarcato. Improvvisamente, ci si rende conto che, solo se ci si schiera “dalla parte giusta”, si ha qualche possibilità di salvarsi dalla valanga di accuse dell’attivismo woke, tradizionalmente debole in Italia ma improvvisamente sdoganato dal (sacrosanto) moto di indignazione per la morte di Giulia Cecchettin. Può accadere così che, nella schiera dei maschi pensosi, mi capiti di trovare Ignazio La Russa (quello certo dell’innocenza del figlio, sotto indagine per stupro) che propone una manifestazione bipartisan di soli maschi, ma anche alcuni dei miei giornalisti e intellettuali preferiti. Mattia Feltri, sulla Stampa, per far sentire “tutti noi” corresponsabili di quel che è accaduto a Giulia, scomoda nientemeno che il concetto di “responsabilità collettiva” di Hannah Arendt. Francesco Piccolo, su Repubblica, non esita a stigmatizzare – quasi fossero comportamenti orribili, propedeutici ai peggiori crimini – comunissimi comportamenti della vita quotidiana di maschi e femmine: “urlare sopra, non far parlare, pretendere di parlare per primi, spiegare come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere”. Una mia amica, madre di tre figli, ha commentato divertita: è esattamente quel che faccio io quando sono esasperata con mio figlio adolescente!

Ma c’è anche un’altra ragione per cui il “singhiozzo dell’uomo maschio” ha tanto spazio sui media, ma lascia indifferente la gente comune. Ed è che, nel dibattito pubblico, da tempo hanno trovato un enorme spazio le opinioni astruse, o antiscientifiche, o contrarie al senso comune. Se un’idea strampalata, o semplicemente priva di basi scientifiche, è affermata in nome di una buona causa, i media tendono a presentarla come vera. Nel mondo dell’attivismo woke, ma soprattutto in quello di una parte (solo una parte, per fortuna) dell’attivismo femminista, negli ultimi anni hanno preso piede diverse idee indimostrate. Ad esempio, che la biologia non conti nulla, e tutto dipenda dalla cultura. Che alle radici dell’aggressività maschile vi siano gli stereotipi di genere e la sopravvivenza del patriarcato. Che il linguaggio sia il medium fondamentale della violenza. Che esista una precisa catena causale che dalla battuta sessista conduce alla prevaricazione, alla violenza, allo stupro, quando non al femminicidio. Che sterilizzare il linguaggio sia la via maestra per fermare la violenza. Che l’azione preventiva più efficace sia l’introduzione precoce di corsi di educazione sessuale e sentimentale nelle scuole.

Nessuna di queste credenze è palesemente falsa, ma nessuna è sostenuta da prove scientifiche robuste. Alcune sono, almeno a prima vista, incompatibili con i dati. Quasi tutte sono in contrasto con il senso comune. Il quale senso comune, a differenza degli intellettuali e dei politici, è umile, empirista, e non pretende di imporsi agli altri in nome un’ideologia. Perché di questo si tratta, purtroppo: il modo in cui si parla del dramma di Giulia non ha nulla di scientifico, e tutto della solita pretesa di imporre il proprio punto di vista e di aver ragione dell’avversario politico.

In questo, è paradossale doverlo osservare, molte donne oggi impegnate nella giusta battaglia contro i femminicidi, mostrano un’inquietante somiglianza con i maschi che mettono sotto accusa: forse l’unico segno inequivocabile dell’ubiquità del maschio che è in tutti noi.

Patriarcato? – Alle radici dei femminicidi

22 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

Intervento del Prof. Ricolfi a Quarta Repubblica (Min. 29)

Esaurite le lacrime e le indignazioni, chiuso il ciclo degli innumerevoli esercizi retorici che hanno provato a dire il nostro sgomento, sarà il caso – prima o poi – di riflettere anche sui dati che descrivono la violenza sulle donne. Non ce ne sono abbastanza per formulare una diagnosi inattaccabile, ma quei pochi che ci sono bastano a sollevare interrogativi importanti.

Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere?

Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani.

Come mai?

Qualcuno ipotizza che alla base possa esservi un maggiore consumo di alcol. Altri che il problema possa essere la presenza di immigrati, o di stranieri di fede islamica. Ma i dati non sembrano facilmente conciliabili con queste ipotesi. Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove.

Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere che i paesi scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito? O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?

Del resto è il caso stesso dell’Italia a mettere in dubbio la teoria del patriarcato. Diversi dati, dagli stupri ai femminicidi, suggeriscono che la violenza sulle donne sia maggiore nel Centro-nord che nel Sud. Se ne deve dedurre che il patriarcato è in via di estinzione nelle regioni del Mezzogiorno, mentre prospera in quelle centro-settentrionali?

Quando si è affezionati a una teoria, si trova sempre un modo di salvarla, anche contro le evidenze empiriche. Il caso della teoria del patriarcato non sfugge alla regola. Quando si è scoperto che gli stupri dilagavano in Svezia, qualcuno ha provato a spiegare le cose così: proprio il fatto di avere reso il paese molto più civile con riforme dall’alto precoci ha provocato la reazione degli uomini, che non erano pronti ad accettare tanta libertà per le donne. Di qui una sorta di contraccolpo (backlash): la violenza sulle donne sarebbe una sorta di reazione del maschio, spiazzato dalla libertà e intraprendenza femminile dopo le riforme illuminate degli anni ’70 e ’80.

Se si accetta questa lettura, si dovrebbe anche ipotizzare una straordinaria lentezza del maschio del Nord: possibile che cinquant’anni non gli siano bastati per assorbire lo shock della liberazione della donna? Mah…

Eppure esiste anche una spiegazione più semplice, per quanto più difficile da accettare. Una delle radici della violenza sulle donne nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate. Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti, troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la cultura dei diritti. E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti, bensì conquistepossibili, spesso costose in termini di sforzi, e sempre esposte al rischio di fallimento.

In breve, e detto brutalmente: nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi, quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di protezione familiare è fuori gioco.

Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti, istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia.

Così come non stupisce l’inquietante sincronismo con cui, negli ultimissimi anni, sono aumentati sia il numero di donne uccise (quasi + 20% fra l’era pre-Covid e oggi) sia il numero di denunce e arresti di minorenni per omicidi, violenze sessuali, lesioni, percosse, danneggiamenti, risse, rapine in strada, minacce, solo per citare alcuni esempi da un recente rapporto della Polizia criminale.

La mia è solo un’ipotesi, naturalmente, ma non mi sento di escludere che, sotto questi repentini cambiamenti, non vi sia solo un deficit di consapevolezza dei diritti e del valore delle donne (un guaio cui la scuola può tentare di porre rimedio), ma una degenerazione della cultura dei diritti, che ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il rischio di fallire.

L’illusione fiscale

18 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo piano

C’è un ritornello, che sento da almeno trent’anni, più o meno da quando finì la prima Repubblica e l’Italia smise di crescere più della media delle economie avanzate. Il ritornello dice: se la (sacrosanta) lotta all’evasione fiscale avesse successo, e tutti pagassero le tasse dovute, l’Italia risolverebbe d’incanto tutti i suoi maggior problemi; con quei 100 miliardi di gettito addizionale, infatti, potremmo abbattere le liste d’attesa negli ospedali, costruire asili nido, pagare di più gli insegnanti, combattere la povertà.

Sembra un discorso ineccepibile, ma è del tutto sbagliato. Far pagare le tasse agli evasori è opportuno, oltreché giusto, ma le conseguenze di un fisco implacabile non sarebbero quelle attese, per vari motivi.

Intanto, perché una parte dell’evasione è “di sopravvivenza” (copyright: Stefano Fassina, economista e politico di sinistra). Ci sono operatori economici che semplicemente chiuderebbero, se dovessero pagare le tasse fino all’ultimo centesimo. Farli fallire è senz’altro una buona cosa in un’ottica liberista e schumpeteriana, per cui l’uscita dal mercato delle imprese inefficienti è il prezzo per alzare la produttività media (si chiama “distruzione creatrice”), ma si deve sapere che l’effetto immediato sarebbe la distruzione di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Ma c’è anche un altro motivo di riflessione. Anche ammesso che nessuna attività economica sia costretta a chiudere, l’effetto aggregato di un azzeramento dell’evasione sarebbe uno spaventoso aumento della pressione fiscale, già oggi una delle più alte fra le società avanzate. Oggi è circa il 43%, ma sfiorerebbe il 50% se al gettito attuale si dovesse aggiungere quello mancato a causa dell’evasione. Ma nessuna società avanzata raggiunge o sfiora il 50% di pressione fiscale, perché se ciò accadesse si arresterebbe completamente la crescita.

Dobbiamo dunque rinunciare a combattere l’evasione fiscale?

Assolutamente no. Quello cui dobbiamo rinunciare è l’illusione che la lotta all’evasione possa finanziare altra spesa pubblica. L’unica destinazione ragionevole delle maggiori entrate è l’abbassamento delle aliquote a chi già paga le tasse, a partire dalle imprese, che oggi hanno una tassazione globale (tasse + contributi sociali) che sfiora il 60%, superata solo da quella della Francia.

E i problemi del nostro stato sociale? Se il gettito recuperato non può essere destinato a rinforzare il welfare, come se ne esce?

Se vogliamo essere realisti, temo che dobbiamo rassegnarci ad alcune verità amare, presumibilmente indigeribili per qualsiasi leader politico. La prima è che la spesa pubblica corrente non può aumentare più del Pil, e quindi – falliti quasi tutti i tentativi di spending review – la via maestra per rafforzare lo stato sociale è tornare a crescere a un ritmo apprezzabile (cosa impensabile senza un drastico abbassamento della pressione fiscale sulle imprese). L’altra verità, documentata già un quarto di secolo fa dal rapporto Onofri (febbraio 1997), è che il male primario del nostro stato sociale è il suo squilibrio: la spesa previdenziale (pensioni) fa la parte del leone, soffocando tutto il resto. Se la spesa per le pensioni fosse allineata alla media europea, potremmo permetterci migliori ospedali, migliori scuole, migliori università, migliori servizi ai cittadini.

Ma questo è un altro, difficile, discorso: la demagogia in materia di pensioni, e la connessa rinuncia a puntare sulla previdenza complementare, è fra le colpe maggiori delle nostre classi dirigenti, fin dai tempi della prima Repubblica (ricordate gli insegnanti in pensione a 40 anni?). Un male aggravato dall’invecchiamento della popolazione, e da un tasso di occupazione che, nonostante i recenti progressi, resta il più basso dell’occidente.

Sarà un caso che, fra le società avanzate, siamo – contemporaneamente – quella con il tasso di occupazione più basso e quella che più si accanisce su chi produce?

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