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Criminalità – La paura e il rimpianto

24 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Anche se ogni tanto qualcuno a sinistra ci prova, il tema della sicurezza non riesce proprio a far breccia nella mente dell’establishment progressista. A neutralizzare questa eventualità provvede un racconto standard, terribilmente ripetitivo, che più o meno suona così.

Viviamo nell’epoca più sicura della storia, l’Europa è una delle aree più sicure del pianeta, l’Italia è uno di paesi più sicuri d’Europa. I crimini violenti, e in particolare gli omicidi, sono in calo vertiginoso dall’Ottocento, se qualche tipo di reato (ad esempio stupri ed estorsioni) è in crescita in realtà è un bene, perché vuol dire che la gente denuncia di più. Gli immigrati non sono il problema, non delinquono più degli italiani. La paura non è razionale, perché ad alimentarla provvedono i media e gli “imprenditori della paura”, non certo l’aumento effettivo dei crimini commessi. La buona politica deve impegnarsi a mostrare ai cittadini l’infondatezza delle loro paure.

Questo racconto è basato su un buon numero di errori statistici e logici, e pure su qualche piccola furbizia. Ad esempio usare come termine di paragone il 1991, anno in cui i crimini hanno toccato il picco, o concentrarsi sugli omicidi, ossia su uno dei pochissimi crimini su cui effettivamente l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Ma il difetto principale del racconto rassicurante è di fraintendere radicalmente lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Oggi la preoccupazione per il crimine, i vissuti di insicurezza, l’ostilità verso gli immigrati non poggiano, come in passato, sulla sensazione, più o meno fondata, di un recente più o meno improvviso aumento dei reati. La loro base è molto più ampia e profonda, perché affonda le radici in un cambiamento più generale della nostra percezione della realtà in cui viviamo.

Dopo i quattro grandi shock degli ultimi anni – Covid, guerra in Ucraina, guerra Israele-Hamas, attacco all’Iran – la sensazione di vivere in un mondo profondamente insicuro e sempre più a rischio di catastrofi globali (pandemie, disastri climatici, guerra nucleare), è diventata pane quotidiano delle nostre coscienze. Ma questo ha anche modificato il modo di vivere la preoccupazione per il crimine. Se ieri potevamo essere turbati da ondate, vere o presunte, di comportamenti criminali, oggi quello che si fa strada nella mente di molti è un sospetto molto più radicale: che il progresso non sia progresso, che il mondo di ieri fosse ben più sicuro e vivibile di quello di oggi. Detto in altre parole, la gente, specie se ha vissuto parte della sua vita nel Novecento, non si chiede se l’Italia sia più sicura di 5 anni fa, ma semmai se lo sia rispetto a decine di anni fa.

Ma come stanno le cose?

Difficile, con l’informazione statistica disponibile, formulare una risposta rigorosa, ma una approssimativa invece la possiamo dare. Fatto 1 il livello dei vari crimini a metà degli anni ’60, possiamo dire che oggi le lesioni dolose sono salite a livello 3, i furti a livello 5, le violenze sessuali e le estorsioni a livello 6, le frodi e le truffe a livello 7, le rapine a livello 12, la produzione e commercializzazione di stupefacenti oltre livello 100. In breve: la gente ha ragione, oggi la criminalità è più forte, molto più forte di ieri. E sono diversi i reati (ad esempio furti e frodi) per cui l’Italia è meno e non più sicura della maggior parte degli altri paesi europei.

C’è una sola eccezione importante, che non a caso è sistematicamente invocata da chi nega o cerca di sminuire il problema della sicurezza: gli omicidi.

Effettivamente è vero che il tasso di omicidio in Italia è fra i più bassi d’Europa. Ed effettivamente è vero che negli ultimi 30 anni il numero di omicidi è crollato. E infine è vero che, nel lunghissimo periodo, con la modernizzazione e la crescita del benessere, il numero di omicidi volontari tende a diminuire. Negli ultimi decenni dell’Ottocento erano circa 4000 (su una popolazione di 30 milioni di abitanti), mentre oggi sono poco più di 300 (su una popolazione di 58 milioni di abitanti).

Quello che sempre si dimentica, tuttavia, è di specificare che il grosso del tracollo degli omicidi è avvenuto nei primi 100 anni della nostra storia nazionale, fra gli anni ’60 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento, e che negli ultimi 60 anni la diminuzione è stata modestissima, dai circa 400 del 1965 ai circa 300 di oggi. L’impressione di un crollo del numero di omicidi è dovuta a un rozzo trucco statistico: per dare l’impressione di un inarrestabile progredire della civiltà si usa come termine di paragone il 1991 (quasi 2000 omicidi), ossia l’anno terminale di una drammatica galoppata degli omicidi, enormemente cresciuti dopo il ’68. Se il paragone, anziché con il 1991, si facesse con il dato del 1965, dovremmo amaramente ammettere che – in quasi 60 anni – gli omicidi sono scesi da circa 400 a circa 300, un ben misero risultato considerata la lunghezza del periodo.

Ecco perché, oggi, parlare semplicemente di paura è riduttivo. Quello che si sta facendo strada nell’opinione pubblica è un sentimento assai più complesso, che ha più a che fare con il rimpianto che non con la paura. Rimpianto di un’epoca forse un po’ idealizzata, ma in cui i crimini erano molti di meno, e l’impunità era meno sistematica e legalizzata di oggi. Un’epoca in cui non era vivo quanto oggi il sentimento generale di ingiustizia che ogni crimine impunito suscita nelle vittime e nei comuni cittadini.

Possiamo deplorare la nostalgia per il passato, e sforzarci di elencare le innumerevoli cose che vanno meglio oggi di ieri. Ma non possiamo non vedere che il futuro non è più costellato di speranze come lo si pensava nel secolo scorso, e la nostalgia ha le sue buone ragioni.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 giugno 2025]

Le due facce della generazione Z

3 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Non si erano ancora spenti gli echi della visita di Giorgia Meloni a Caivano per l’inaugurazione del nuovo centro sportivo, con tanto di polemiche per la sarcastica stretta di mano al governatore De Luca (quello che l’aveva definita “quella stronza
della Meloni”), e già la realtà presentava il conto, con la notizia secondo cui, a Comiso (Catania), un ragazzo tunisino di 16 anni, ospite di una comunità per minorenni stranieri non accompagnati, aveva violentato una donna 33enne nella villa comunale. Il fatto sarebbe avvenuto dieci giorni fa, ma la notizia è stata diffusa solo ieri, a poche ore dal blitz del premier a Caivano.

L’accostamento fra le due notizie non potrebbe essere più emblematico. Da un lato i primi passi per garantire la presenza dello Stato nei territori più degradati, dall’altro le crude verità della cronaca. Sullo sfondo, l’eterno dibattito sulla funzione del
carcere, che dovrebbe mirare alla rieducazione e al reinserimento sociale degli autori di reati, ma non sempre si dimostra all’altezza. Il tutto inasprito dalle polemiche sul decreto Caivano, che – secondo i critici – sarebbe all’origine di un allarmante
aumento del numero di minori detenuti.

La materia è scottante, e tocca temi su cui nessuno è disposto a cambiare idea.
Proprio per questo, però, vale forse la pena fare il punto sui dati obiettivi, da cui qualsiasi proposta non può prescindere.

In Italia il ricorso alla reclusione nei confronti dei minori è estremamente limitato.
Secondo i dati più recenti, i minori detenuti negli IPM (Istituti Penali per Minori) sono 312 (più 211 “giovani adulti”), a fronte di un numero di reati commessi da minori ogni anno circa 100 volte superiore (più di 30 mila). Anche ammettendo che gli autori siano la metà (perché alcuni commettono più di un reato), ne deriva che in carcere entrano meno di 1 ragazzo o ragazza ogni 50 autori di reati. Dove finiscono gli altri?

La maggior parte non entra nel circuito penale, o se vi entra viene inserito in uno dei molti percorsi alternativi alla detenzione, fra i quali il più promettente è probabilmente quello della “messa alla prova” (che contribuisce a tener basso il numero di recidive). Se sommiamo i numeri dei principali percorsi alternativi alla detenzione risulta che i minori e giovani adulti inseriti in tali percorsi sono almeno 7 volte più numerosi dei minori e giovani adulti reclusi.

In breve: il nostro sistema penale è sicuramente criticabile, ma non sembra che la sua principale pecca possa essere il ricorso eccessivo alle misure detentive. Ma, viene talora obiettato, il problema è che stiamo osservando un drammatico aumento del ricorso alla detenzione, che è causato dalle misure del decreto Caivano. Anche qui, meglio riflettere sui dati prima di trarre conclusioni.

Se consideriamo il triennio 2019-2022 (l’unico per cui abbiamo dati completi e consolidati) quel che salta all’occhio non è l’aumento degli ingressi in carcere (+15.8% per i minorenni, ma -19% per i giovani adulti), bensì l’esplosione dei reati più violenti e aggressivi commessi da minorenni, italiani e soprattutto stranieri (che pur essendo molto meno numerosi degli italiani contribuiscono a più di metà dei reati).

Rapine: +33% quelle degli italiani (stranieri: +109.2%). Risse: +51.9% (stranieri: + 128.5%). Percosse: + 34.9% (stranieri: +121.7%). Lesioni dolose: +12.6% (stranieri:+ 62,7%). Minacce: +8.4% (stranieri: +59.5%). Violenza sessuale: + 3.9% (stranieri:
+ 59.0%). Solo nel caso degli omicidi tentati o consumati i minori italiani fanno peggio degli stranieri: +111.1% contro +12.1%.

Se c’è una cosa di cui stupirsi, non è il numero di minorenni in carcere, ma che all’esplosione del numero di reati violenti commessi da minori non sia seguita una paragonabile espansione del numero di detenuti negli IPM.

Vedremo fra qualche mese, quando saranno disponibili tutti i dati necessari, che cosa esattamente sia successo nell’ultimo anno sia sul versante dei reati che su quello degli ingressi in carcere (per ora sappiamo solo che gli ingressi totali negli IPM, compresi i
giovani adulti, sono aumentati dell’8.8% fra il 2022 e il 2023). Quello che però possiamo dire fin d’ora è che i dati della criminalità minorile degli ultimi anni mettono in crisi la descrizione standard della generazione Z, ossia delle ragazze e dei
ragazzi attualmente nella fascia 15-29 anni.

Spesso denominata snowflake generation (generazione fiocco di neve), sociologi e psicologi sociali l’hanno per lo più descritta nel registro della fragilità, afflitta da ansia, depressione, disturbi alimentari, autolesionismo, ritiro sociale, solitudine, tendenze suicidarie. I dati, in particolare quelli dei suicidi giovanili (in aumento da diversi anni), supportano pienamente questa descrizione, ma paiono non cogliere l’altra faccia della luna, ossia il fatto che la generazione Z è attraversata anche da spinte di natura opposta, di cui i comportamenti violenti sono solo la punta dell’iceberg.
Forse, è venuto il momento di prenderne atto: la generazione Z è una generazione bifronte. Chiunque voglia provare a capirla, non può guardarne una faccia soltanto.

[articolo uscito sul “Messaggero” il 30 maggio 2024]

 

A proposito della morte di Desirée: perché lo Stato è impotente

29 Ottobre 2018 - di Luca Ricolfi

Politica

Nell’ora della pietà, dello sconcerto, della rabbia per la morte di una ragazza sedicenne, stuprata e uccisa da un gruppo di immigrati irregolari in un quartiere degradato di Roma, ho provato a fare un passo di lato, lontano dalla cronaca. Una sorta di esercizio, o esperimento mentale. Mi sono chiesto: se fossi il ministro dell’Interno, se fossi al posto di un Salvini o di un Minniti, e avessi la ferma volontà di impedire il ripetersi di fatti del genere (il caso di Desirée è solo l’ultimo di una serie), che cosa potrei fare?   Leggi di più

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