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DIRITTO, DIRITTI, OMOFOBIA

14 Luglio 2025 - di Secondo Giacobbi

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L’istituzione del reato di “omofobia” inaugurerà una fase assolutamente inedita della storia del Diritto in Italia. Non solo perché introduce nel Codice Penale un nuovo reato, e un reato che riguarda una dimensione sensibile e nevralgica della vita individuale e sociale, ma anche perché introduce un criterio assolutamente nuovo di codificazione penale. Riflettiamo sul termine “omofobia”. L’espressione fa parte del lessico clinico-psicologico e, più propriamente, psicoanalitico. Il variegatissimo mondo delle fobie viene ricondotto a dinamiche intrapsichiche inconsce e a processi simbolici, a loro volta inconsci, che proiettano sulla situazione o sull’oggetto fobici profonde angosce persecutorie o evacuative, relative ad un oggetto interno temuto e demonizzato, oppure a parti del Sé, rifiutate dall’Io e proiettate sull’oggetto fobico. Il reato di omofobia ( che viene ampliato, nel progetto di legge, nella dizione “omotransfobia”) intende colpire, e scoraggiare, comportamenti verbali, fisici e sociali di aggressione e discriminazione nei confronti di omo e transessuali. In questo senso stigmatizzare l’omofobia non è diverso dallo stigmatizzare l’antisemitismo o il razzismo. C’è però di diverso che il termine omofobia, in quanto acquisito dal linguaggio giuridico, rende tale linguaggio tributario nei confronti della psicologia clinica e quindi, implicitamente, avalla e apre la strada, potenzialmente, ad una ibridazione tra normative giudiziarie e categorie cliniche. E’ pur vero che nessuna legislazione penale è esclusivamente tecnico-giuridica, essendo il Diritto una disciplina non separata né autosufficiente. Il Diritto penale contiene infatti impliciti rimandi a valori di provenienza etico-filosofica o addirittura religiosa. Di nuovo c’è che il reato di omofobia è una costruzione che coniuga ufficialmente ed esplicitamente, in modo potenzialmente confusivo, logica giuridica e psicopatologia. Va da sé, lo ripetiamo,  che l’intenzione del legislatore è appunto di proteggere omosessuali e transessuali da comportamenti lesivi nei loro confronti. In questo senso il legislatore si pone in un’ottica di difesa, rispetto e salvaguardia delle minoranze. Il problema però è che non è chiaro, ed è questo che è davvero preoccupante, fino a dove si spinga la portata applicativa, dal punto di vista oggettivo, della nuova normativa proposta, e quindi quali possano essere concretamente le condotte meritevoli di sanzione penale. Ad esempio l’espressione di opinioni psicologiche, cliniche e culturali sul tema dell’omosessualità e della omogenitorialità può configurare, e quando e in che modo, una fattispecie penalmente rilevante ai fini dell’applicazione della suddetta normativa? Qual è il confine tra l’offesa e l’espressione di un’opinione, di per sé non offensiva, ma che possa essere considerata lesiva dei diritti delle minoranze?

Faccio un esempio molto concreto: esprimere l’opinione, magari da parte di uno psicologo clinico, che i bambini hanno bisogno di una mamma e di un papà, e  quindi di una coppia genitoriale eterosessuale, può essere considerato lesivo ed espressione di omofobia? Il progetto di legge, dichiarano i suoi estensori, non intende reprimere la libertà di opinione. Sta di fatto, però, che un noto psicoanalista milanese, che, nel corso di un dibattito in TV, fece proprio quella dichiarazione, è stato “denunciato” all’Ordine degli Psicologi con l’accusa di omofobia e, persino, di incompetenza professionale e mancato aggiornamento scientifico. L’Ordine ha avviato una lunga procedura di accertamento, alla fine della quale il collega è stato prosciolto. E’ evidente come la felice, per quanto tribolata, conclusione della vicenda non può non indurre, soprattutto gli psicologi clinici, ad una grande cautela quando si tratta di esprimere opinioni su di un terreno così insidioso. E l’istituzione di un reato di omofobia, pur con tutte le rassicurazioni degli estensori, avrebbe l’effetto di indurre cautele ancor più timorose. Certo, agli intellettuali, agli uomini di cultura e di accademia, agli psicoanalisti dovremmo tutti chiedere la libertà di pensiero e il coraggio intellettuale di esprimerlo anche pubblicamente. Non è però facile sfidare la disapprovazione dell’establishment e l’emarginazione, proprio quella emarginazione da cui si vuole proteggere il mondo omosessuale.

Sta di fatto  che, nei nostri ambienti, è facile constatare l’adesione, spesso acritica, a opinioni e tesi conformi a quelle sostenute da LGBT e da quanti le avallano e fanno proprie. Faccio un esempio al riguardo. E’ diventato senso comune ritenere e dichiarare, anche da parte di colleghi, che le ricerche comproverebbero che i figli delle cosiddette “famiglie arcobaleno” non subirebbero “danno” dalla loro particolare condizione di filiazione e di vita.  In realtà ci sono anche ricerche che, invece, comproverebbero tale “danno”. Il fatto è che non sono quasi mai citate in letteratura dove invece abbondano citazioni e fonti che negano il danno.

La faccenda dell’ipotetico “danno” è palesemente centrale e decisiva. A differenza di altri “diritti” dell’individuo, la cui affermazione è di per sé un postulato incontestabile (e tra questi diritti, non dimentichiamolo, c’è il diritto alla libertà di opinione), il “diritto alla genitorialità” deve essere invece sottoposto al vaglio, nel caso tale diritto venisse estrinsecato, dell’assenza di danno a terzi. La cultura della post-modernità sembra, infatti aver generato una nuova filosofia del diritto, che si basa su di una concezione soggettivistica del diritto stesso, inteso come garante del soddisfacimento dei bisogni dell’individuo nel qui e ora della loro esigibiltà. In questa logica il movimento omosessuale parla di “diritto alla genitorialità” sostanzialmente per chiunque e comunque. Ho segnalato altrove come una simile concezione nasca da una operazione di concettualizzazione in cui il “desiderio” è assunto come “bisogno” incontestabile e quindi come “diritto” da garantire. In relazione alla rivendicazione della cosiddetta “omogenitorialità” si pone però il problema, appunto, del possibile danno a terzi. In questo caso per i figli nati dalle varie forme di genitorialità assistita o surrogata che la scienza medica è in grado di offrire. Ecco perché screditare o ignorare ricerche che segnalino il “danno” diventa per alcuni una inderogabile necessità “scientifica” e politica.

Non entro qui nel merito di chi possa avere ragione. Dichiaro però che tutte le opinioni, specie se suffragate da riscontri ( della cui serietà e oggettività si può comunque sempre discutere) hanno diritto ad una uguale visibilità e ad un uguale beneficio del dubbio.

Un altro esempio. Amazon, su pressione di LGBT, ha ritirato dal commercio i libri di J. Nicolosi, noto per aver sostenuto la possibilità di una terapia “riparativa” dell’omosessualità. E’ una tesi discutibile e infatti è stata ed è contestata. Ma destinare al macero, con solerte zelo, i libri per le teorie che vi sono espresse assomiglia molto ai roghi dei libri proibiti di infausta memoria.

Visto poi che in questo mio intervento si parla di Diritto e di diritti, voglio ricordare quelle che sono tuttora le posizioni espresse dalla legge italiana sulla questione omogenitoriale. Ricordo che in Italia la cosiddetta “maternità surrogata” o “gestazione per altri” (GPA) è tuttora vietata (Legge n ° 40/2004), come peraltro la stessa fecondazione eterologa, che viene  negata alle coppie dello stesso sesso, oltrechè a quelle composte da soggetti non coniugati e non conviventi. In tale ambito, tra l’altro, la Corte Costituzionale, nella sentenza n 272/20017, è arrivata ad affermare che la surrogazione di maternità “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Sulla questione la discussione rimane aperta e l’azione sociale delle associazioni  LGBT e dei gruppi omogenitoriali è incessantemente volta a sollecitare prese di posizione e iniziative istituzionali (da parte di sindaci, soprattutto, o di rappresentanti del mondo della magistratura) volte a riconoscere e regolarizzare situazioni di omogenitorialità.

E’ altrettanto incessante lo sforzo di riqualificare agli occhi dell’opinione pubblica le pratiche dirette a conseguire  la genitorialità attraverso supporti esterni ( donazione di sperma e gestazione per altri). Tali pratiche vengono presentate all’opinione pubblica come manifestazioni di solidarietà umana, per cui i donatori di sperma sarebbero appunti dei “donatori” e le donne che offrono l’utero ne farebbero a loro volta “dono”. L’aspetto di mercato e compravendita viene così lasciato in ombra e il tutto risulta ammantato dentro un’aureola di generosa donatività. E’ una vera e propria retorica  del dono, che si aggiunge a quella retorica dell’amore, che riconduce e riduce l’esperienza della genitorialità a una questione soprattutto di amore. Assistiamo dunque, anche in questo caso, ad una riorganizzazione semantica del linguaggio e del senso comune, che va di pari passo con le trasformazioni del costume.

Naturalmente comprendiamo, e con rispetto, sentimenti, desideri, aspirazioni, che animano il mondo dell’omosessualità e dell’omogenitorialità, ma non possiamo non ricordare che l’amore è un sentimento profondamente ambivalente, e che, specie nel rapporto dei genitori con i figli, di amore ce ne può essere anche troppo e non solo troppo poco. E comunque non possiamo non ricordare che, come recita un vecchio libro di psicoanalisi, “l’amore non basta”.

BIBLIOGRAFIA

Bergamaschi L, (a cura di), Omosessualità, perversione, attacchi di panico. Il contributo di Franco De masi, Franco Angeli, MI, 2007

Bettelheim B, L’amore non basta, Ferro ed, MI, 1981

Corsa R, Oltre il limite. Mutazioni somatopsichiche nelle protesi e nei trapianti, Alpes, Roma 2015

Canzi E. Omogenitorialità, filiazione e dintorni. Una analisi critica delle ricerche, Vita e Pensiero, MI, 2019

Fornari F, I sogni delle madri in gravidanza. Le strutture affettive del Codice Materno, Unicopli, MI, 1979

Giacobbi S, Omogenitorialità. Ideologie, pratiche, interrogativi, Mimesis, MI, 2019

Jonas H, Il principio di responsabilità.Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, TO, 1979

Lingiardi V, La famiglia “inconcepibile”, in “Infanzia e Adolescenza, n 12 (2), 2013

Marion P, Il disagio del desiderio. Sessualità e procreazione nel tempo delle biotecnologie, Donzelli, Roma, 2017

Scotto Di Fasano D, Pensare l’impensabile: forme attuallità della genitorialità in “Rivista di psicoanalisi”, n LVII (1), 2011

Sentenza della Corte Costituzionale n° 272/2017

Vessella S, Sulla maternità surrogata, in “La Stampa” 11/04/2017

Sul problema delle carceri – Umanità e sicurezza

7 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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I mali delle carceri italiane sono ben noti: mancanza di personale e di servizi,  sovraffollamento, condizioni degradate di molte celle, suicidi 20 o 25 volte più frequenti che nel resto della popolazione. La situazione italiana non è mai stata quella di un paese civile, ma si è fortemente aggravata a partire dal 2018, anche per il progressivo venir meno degli effetti dell’indulto varato nel 2016. Periodicamente sentiamo lanciare appelli e proposte per alleggerire la situazione: nuovi indulti e amnistie, depenalizzazione di determinati reati, pene alternative al carcere, assunzione di nuovo personale specializzato, costruzione di nuove carceri.

Anche a me, più di una volta, è capitato di denunciare – cifre alla mano – la situazione disumana delle carceri italiane. Con il passare del tempo, tuttavia, mi sono formato la convinzione che, se davvero vogliamo affrontare il problema, dobbiamo – prima di tutto – liberarci di alcuni pregiudizi.

Il primo pregiudizio è l’idea che, in Italia, vi sia un ricorso eccessivo alla carcerazione. I dati, in realtà, indicano l’esatto contrario. Il nostro tasso di incarcerazione (circa 106 detenuti ogni 100 mila abitanti) è più basso di quello medio delle società avanzate, e pure di quello medio dell’Unione europea. E questo a dispetto del fatto che, con la rilevante eccezione degli omicidi, il nostro tasso medio di criminalità è maggiore sia di quello medio europeo, sia di quello medio delle società avanzate. Stante il numero di crimini commessi, ci aspetteremmo più e non meno detenuti.

Il sovraffollamento delle carceri non dipende dalla durezza della repressione penale, ma dal fatto che in Italia si finisce in carcere di meno nonostante si delinqua di più: se il numero di carcerati fosse commisurato al tasso di criminalità, il numero di detenuti sarebbe ancor maggiore.

Il secondo pregiudizio è che si possa far fronte al dramma dei suicidi in carcere semplicemente riducendo l’affollamento attraverso nuove carceri (che richiedono tempi lunghi) o mediante nuovi indulti (che esauriscono rapidamente i loro effetti). I suicidi non dipendono solo dai metri quadri per detenuto, ma dalla condizione spesso drammatica delle celle, dalla carenza di personale specializzato (medici, psicologi, sociologi), dalla possibilità di lavorare, studiare o essere coinvolti in attività dentro e fuori del carcere. Se si vogliono ridurre i suicidi, la costruzione di nuove carceri è meno importante (e probabilmente più costosa) della ristrutturazione e riorganizzazione di quelle esistenti.

Il terzo pregiudizio è che i detenuti stranieri debbano tutti scontare la pena in carceri italiane. Il percorso sarà lungo, ma non si può escludere che, in futuro, una frazione crescente di detenuti stranieri possa scontare la pena nei paesi di origine, o in paesi terzi che hanno sottoscritto accordi con l’Italia (in questa direzione si sono già mossi, negli ultimi anni, la Danimarca e il Regno Unito). Così come non possiamo escludere che il timore di essere espulsi o trasferiti abbia un effetto deterrente, con conseguente abbassamento del tasso di criminalità e alleggerimento delle carceri. Giusto per dare un ordine di grandezza: se il tasso di criminalità degli stranieri scendesse al livello di quello degli italiani si libererebbero circa 16 mila posti in carcere. E anche se risultasse 2 o 3 volte superiore a quello degli italiani (anziché 6-7 volte come oggi), si libererebbero comunque 8-10 mila posti. Più o meno quelli che, attualmente, occorrerebbe creare ex novo per neutralizzare il sovraffollamento.

C’è, infine, un’ultima considerazione. Quando si affronta il tema delle carceri, è inevitabile che si scontrino visioni liberali e garantiste da una parte e istanze securitarie dall’altra. Generalmente, quel che la politica è chiamata a fare è di riequilibrare un sistema che si è sbilanciato in una direzione o nell’altra, o perché ha dimenticato i diritti dei detenuti a un trattamento umano, o perché ha dimenticando i diritti dei cittadini a un accettabile livello di sicurezza. Il guaio del nostro sistema è che, ormai, si è sbilanciato in entrambe le direzioni: è troppo repressivo dentro le carceri, ma al tempo stesso è troppo remissivo al di fuori.

La “missione impossibile” della politica è di rimettere in equilibrio le cose: restituendo dignità ai detenuti, ma anche sicurezza ai comuni cittadini.

[articolo uscito sul Messaggero il 6 luglio 2025]

L’Italia è un paese sicuro?

26 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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L’Italia è un paese sicuro?

La domanda riceve risposte perentorie solo da chi è schierato in modo ideologico. Se prendete un politico di destra, ad esempio Salvini, vi sentirete rispondere che l’Italia non è un paese sicuro, e che occorre un giro di vite. Se prendete un intellettuale di sinistra, ad esempio Gianrico Carofiglio, vi può capitare di sentir dire che l’Europa è uno dei posti più sicuri del mondo, e che noi italiani “stiamo vivendo nell’epoca in assoluto più sicura della nostra storia”. Se poi parlate con una militante femminista, vi inonderà di indignazione per i femminicidi, descritti come una mattanza, uno sterminio, un’ecatombe.

Il tutto, non di rado, condito da dati statistici: ad esempio i tassi di criminalità degli immigrati, che sembrano dare ragione a Salvini, i tassi di omicidio, che sembrano dare ragione a Carofiglio, il numero di donne uccise dal partner, che sembrano dare ragione alla femminista.

Se vogliamo capire come stanno le cose, la prima cosa da fare è evitare quello che gli inglesi chiamano cherry picking (selezionare ciliegie), ovvero usare solo i dati che fanno comodo alla tesi cui siamo affezionati. E allora proviamoci, nei limiti di spazio di un articolo.

Punto numero uno: effettivamente, se consideriamo i comportamenti violenti, e in particolare quelli contro la donna (femminicidi e stupri), l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Però attenzione, c’è una importante differenza: gli omicidi, sia di uomini sia di donne, sono relativamente pochi, e abbastanza stazionari negli ultimi anni, ma le violenze sessuali sono in forte aumento, sia nel breve periodo (ultimi anni) sia nel lungo (rispetto agli anni ’50 e 60). Difficile, senza prove, rassicurarsi ipotizzando che il loro aumento nel tempo rifletta solo un aumento del tasso di denuncia.

Anche sugli omicidi in generale occorre andarci piano. Usando il cherry picking possiamo auto-rassicurarci dicendo che, rispetto al picco del 1991 (in cui c’erano stati quasi 2000 omicidi) le cose vanno benissimo (nel 2024 sono sati solo 319). Ma quel che invariabilmente si dimentica, quando ci compiacciamo della spettacolare riduzione del numero di omicidi dal 1991 a oggi, è il fatto che il 1991 è un anno specialissimo, che conclude una altrettanto spettacolare ascesa degli omicidi iniziata subito dopo il ’68, allorché gli omicidi erano ancora sotto quota 400, dunque non molto lontano dal livello cui sono oggi.

In breve: se parliamo di violenza, è vero che in Italia ce n’è meno che in Europa, ma non si può dire che sia minore di com’era negli anni ’60. Il vero crollo degli omicidi è avvenuto fra gli anni dell’immediato dopoguerra, in cui erano diverse migliaia all’anno, e la metà degli anni ’60, in cui erano scesi sotto i 400: una diminuzione di un fattore 10.

Ma la insicurezza non è fatta solo di esposizione alla violenza. È fatta anche, forse soprattutto, di esposizione a reati più comuni e diffusi, come quelli che attentano alla proprietà privata (furti, rapine, truffe).

Ebbene, se diamo un’occhiata alle statistiche disponibili per i paesi avanzati (Oecd o UE) scopriamo che, in generale, l’Italia si situa nel gruppo dei paesi in cui la proprietà è esposta a maggiori pericoli. E, sorpresa, in tale gruppo – oltre all’Italia – troviamo paesi considerati civilissimi come Svezia, Norvegia, Svizzera, Danimarca, Canada, Francia. Mentre nel gruppo dei paesi in cui i crimini predatori sono più diffusi troviamo soprattutto i paesi dell’Est europeo, tendenzialmente meno ricchi, meno democratici, meno avanzati sul piano dei diritti, meno aperti all’immigrazione.

Conclusione. Quando parliamo di sicurezza, dobbiamo distinguere nettamente fra attacchi alle persone fisiche (omicidi e violenze sessuali) e attacchi alla proprietà. Chi cerca di rassicurarci ha ragione se parliamo di attacchi alla persona e il termine di paragone sono le altre società avanzate. Ma ha torto se il termine di paragone è il passato remoto del nostro paese (l’Italia non è più sicura che negli anni ’60 del Novecento), o se parliamo di attacchi alla proprietà (l’Italia è meno e non più sicura delle altre società avanzate).

[articolo uscito sulla Ragione il 24 giugno 2025]

Criminalità – La paura e il rimpianto

24 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Anche se ogni tanto qualcuno a sinistra ci prova, il tema della sicurezza non riesce proprio a far breccia nella mente dell’establishment progressista. A neutralizzare questa eventualità provvede un racconto standard, terribilmente ripetitivo, che più o meno suona così.

Viviamo nell’epoca più sicura della storia, l’Europa è una delle aree più sicure del pianeta, l’Italia è uno di paesi più sicuri d’Europa. I crimini violenti, e in particolare gli omicidi, sono in calo vertiginoso dall’Ottocento, se qualche tipo di reato (ad esempio stupri ed estorsioni) è in crescita in realtà è un bene, perché vuol dire che la gente denuncia di più. Gli immigrati non sono il problema, non delinquono più degli italiani. La paura non è razionale, perché ad alimentarla provvedono i media e gli “imprenditori della paura”, non certo l’aumento effettivo dei crimini commessi. La buona politica deve impegnarsi a mostrare ai cittadini l’infondatezza delle loro paure.

Questo racconto è basato su un buon numero di errori statistici e logici, e pure su qualche piccola furbizia. Ad esempio usare come termine di paragone il 1991, anno in cui i crimini hanno toccato il picco, o concentrarsi sugli omicidi, ossia su uno dei pochissimi crimini su cui effettivamente l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Ma il difetto principale del racconto rassicurante è di fraintendere radicalmente lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Oggi la preoccupazione per il crimine, i vissuti di insicurezza, l’ostilità verso gli immigrati non poggiano, come in passato, sulla sensazione, più o meno fondata, di un recente più o meno improvviso aumento dei reati. La loro base è molto più ampia e profonda, perché affonda le radici in un cambiamento più generale della nostra percezione della realtà in cui viviamo.

Dopo i quattro grandi shock degli ultimi anni – Covid, guerra in Ucraina, guerra Israele-Hamas, attacco all’Iran – la sensazione di vivere in un mondo profondamente insicuro e sempre più a rischio di catastrofi globali (pandemie, disastri climatici, guerra nucleare), è diventata pane quotidiano delle nostre coscienze. Ma questo ha anche modificato il modo di vivere la preoccupazione per il crimine. Se ieri potevamo essere turbati da ondate, vere o presunte, di comportamenti criminali, oggi quello che si fa strada nella mente di molti è un sospetto molto più radicale: che il progresso non sia progresso, che il mondo di ieri fosse ben più sicuro e vivibile di quello di oggi. Detto in altre parole, la gente, specie se ha vissuto parte della sua vita nel Novecento, non si chiede se l’Italia sia più sicura di 5 anni fa, ma semmai se lo sia rispetto a decine di anni fa.

Ma come stanno le cose?

Difficile, con l’informazione statistica disponibile, formulare una risposta rigorosa, ma una approssimativa invece la possiamo dare. Fatto 1 il livello dei vari crimini a metà degli anni ’60, possiamo dire che oggi le lesioni dolose sono salite a livello 3, i furti a livello 5, le violenze sessuali e le estorsioni a livello 6, le frodi e le truffe a livello 7, le rapine a livello 12, la produzione e commercializzazione di stupefacenti oltre livello 100. In breve: la gente ha ragione, oggi la criminalità è più forte, molto più forte di ieri. E sono diversi i reati (ad esempio furti e frodi) per cui l’Italia è meno e non più sicura della maggior parte degli altri paesi europei.

C’è una sola eccezione importante, che non a caso è sistematicamente invocata da chi nega o cerca di sminuire il problema della sicurezza: gli omicidi.

Effettivamente è vero che il tasso di omicidio in Italia è fra i più bassi d’Europa. Ed effettivamente è vero che negli ultimi 30 anni il numero di omicidi è crollato. E infine è vero che, nel lunghissimo periodo, con la modernizzazione e la crescita del benessere, il numero di omicidi volontari tende a diminuire. Negli ultimi decenni dell’Ottocento erano circa 4000 (su una popolazione di 30 milioni di abitanti), mentre oggi sono poco più di 300 (su una popolazione di 58 milioni di abitanti).

Quello che sempre si dimentica, tuttavia, è di specificare che il grosso del tracollo degli omicidi è avvenuto nei primi 100 anni della nostra storia nazionale, fra gli anni ’60 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento, e che negli ultimi 60 anni la diminuzione è stata modestissima, dai circa 400 del 1965 ai circa 300 di oggi. L’impressione di un crollo del numero di omicidi è dovuta a un rozzo trucco statistico: per dare l’impressione di un inarrestabile progredire della civiltà si usa come termine di paragone il 1991 (quasi 2000 omicidi), ossia l’anno terminale di una drammatica galoppata degli omicidi, enormemente cresciuti dopo il ’68. Se il paragone, anziché con il 1991, si facesse con il dato del 1965, dovremmo amaramente ammettere che – in quasi 60 anni – gli omicidi sono scesi da circa 400 a circa 300, un ben misero risultato considerata la lunghezza del periodo.

Ecco perché, oggi, parlare semplicemente di paura è riduttivo. Quello che si sta facendo strada nell’opinione pubblica è un sentimento assai più complesso, che ha più a che fare con il rimpianto che non con la paura. Rimpianto di un’epoca forse un po’ idealizzata, ma in cui i crimini erano molti di meno, e l’impunità era meno sistematica e legalizzata di oggi. Un’epoca in cui non era vivo quanto oggi il sentimento generale di ingiustizia che ogni crimine impunito suscita nelle vittime e nei comuni cittadini.

Possiamo deplorare la nostalgia per il passato, e sforzarci di elencare le innumerevoli cose che vanno meglio oggi di ieri. Ma non possiamo non vedere che il futuro non è più costellato di speranze come lo si pensava nel secolo scorso, e la nostalgia ha le sue buone ragioni.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 giugno 2025]

Sorpasso? – Il circolo vizioso dell’economia italiana

28 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Qualcuno, nei giorni scorsi, si è entusiasmato per i dati appena rilasciati dalla Commissione Europea sulle varie economie del continente. Soprattutto i media che si occupano di economia non si sono fatti mancare i titoli più roboanti: “Pil pro capite, l’Italia raggiunge la Francia; “Pil pro capite, l’Italia cresce e raggiunge la Francia”; “l’Italia raggiunge la Francia per ricchezza pro capite”, “balzo del Pil pro capite italiano che raggiunge quello francese”, “il Pil pro capite dell’Italia ha raggiunto la Francia e superato Giappone e Regno Unito”.

La notizia non è del tutto falsa ma, parafrasando Mark Twain, è un tantino esagerata. Intanto va detto che quello di cui si parla non è il Pil dell’Italia (che è molto inferiore a quello della Francia), e neppure il Pil pro capite (che è un po’ inferiore), ma il Pil pro capite a parità di potere di acquisto (ossia tenendo conto del livello dei prezzi, che sono un po’ più bassi in Italia), che è la migliore misura del benessere economico raggiunto da un paese.

Questo indicatore effettivamente si avvicina a quello francese, ma – secondo le principali fonti statistiche – nel 2024 resta tuttora un po’ al di sotto. L’eventuale aggancio o sorpasso è semplicemente una previsione, o una speranza, che riguarda l’anno in corso, che non è ancora neppure arrivato a metà.

Poco male, si dirà. L’importante è la tendenza, se non succederà quest’anno sarà l’anno prossimo che finalmente scavalcheremo i cugini d’oltralpe. In effetti, può darsi benissimo che accada. E tuttavia il punto è che questa contabilità non sembra tenere nel debito conto il meccanismo complessivo che alimenta la nostra rincorsa.

Ed ecco il meccanismo. Da 10 anni, ovvero dal 2014, l’Italia perde popolazione, perché l’immigrazione non basta a bilanciare il calo demografico. La Francia, invece, continua ad aumentare la sua popolazione (anche grazie ai sussidi economici alle nascite). Questo significa che, mentre il Pil francese si spalma su una popolazione sempre più grande, con conseguente rallentamento del Pil pro capite, il Pil italiano si spalma su una popolazione sempre più piccola, con conseguente accelerazione del Pil pro capite. In 10 anni, dal 2014 ad oggi, l’Italia ha perso quasi 1 milione e mezzo di abitanti, la Francia ne ha guadagnati 2 milioni e mezzo. In breve: in Italia la demografia sostiene la crescita del Pil pro capite, in Francia la rallenta.

Ma a noi che ce ne importa? si potrebbe obiettare. Dopo tutto quello che conta non è il volume del Pil, ma il Pil per abitante. La prosperità di un paese si misura sul tenore di vita del cittadino medio, non sulla grandezza del prodotto interno lordo. Paesi come l’Islanda, il Lussemburgo, la Svizzera se la passano benissimo anche con un Pil (complessivo) relativamente piccolo.

Questo è vero, ma non fa i conti con un dettaglio cruciale: il rapporto debito pubblico/Pil, che è basso in Islanda, Lussemburgo e Svizzera, ma è altissimo in Italia. Un paese che punti, come sembra fare l’Italia, non sulla crescita del volume del Pil ma solo sul Pil pro capite, può permettersi una strategia del genere se ha un debito pubblico modesto, ma non se quest’ultimo è alto. Perché, ai fini della tenuta di conti pubblici, quel che conta non è il benessere del cittadino medio, ma la massa economica complessiva del paese, che è l’unico serbatoio da cui attingere per pagare gli interessi sul debito pubblico.

Detto in altre parole: un paese indebitato che perde popolazione si troverà via via più in difficoltà a ripagare il suo debito pubblico perché i debiti contratti quando aveva tanti abitanti dovranno essere saldati da una popolazione di discendenti sempre meno numerosa.

E non è tutto. Il circolo vizioso dell’economia italiana non è puramente demografico ma anche, per così dire, produttivo. I modesti incrementi del Pil degli ultimi anni sono ottenuti mediante una formula alquanto problematica: una produttività calante compensata da cospicui incrementi occupazionali o, se preferite, cospicui incrementi occupazionali vanificati da una produttività calante. In breve: il calo demografico e l’aumento dell’occupazione assicurano una certa tenuta del benessere, di cui il Pil pro capite a parità di potere di acquisto è l’indicatore sintetico; ma la crescita del Pil è frenata dal ristagno della produttività, che rende sempre più difficile pagare il debito pubblico accumulato in decenni di finanza allegra.

[articolo uscito sulla Ragione il 27 maggio 2025]

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