Invecchiamento e welfare – Anziani, perché è un problema (soprattutto) italiano
In primo pianoPoliticaSocietàI recenti dati Istat sulla spesa per gli anziani, di cui si è ampiamente parlato nei giorni scorsi, pongono certamente un problema di equità territoriale: la spesa è squilibrata non solo fra nord, centro e sud (a danno del sud e a favore del nord), ma anche fra zone urbanizzate e piccoli centri delle zone interne. E tuttavia, se guardiamo le cose in prospettiva, quello degli squilibri territoriali è il problema minore, quanto meno nel senso che è risolvibile: si tratta “solo” (si fa per dire) di ripartire meglio le scarse risorse disponibili.
Il vero problema, che darà filo da torcere alle prossime generazioni, è il rapidissimo processo di invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati, europei ed extra-europei. Un fenomeno in atto da decenni, che ha due determinanti fondamentali: il crollo delle nascite, in buona misura dovuto alle scelte esistenziali dei cittadini dei paesi ricchi, e l’allungamento della speranza di vita, in buona misura dovuto ai progressi della medicina.
Le conseguenze del rapido invecchiamento della popolazione sono note. Una quota elevata di anziani mette in crisi il sistema pensionistico, ponendo la politica di fronte al dilemma: pensioni più basse o maggiori prelievi contributivi su chi lavora? Una durata maggiore della vita, infatti, fa lievitare i costi del sistema sanitario, che non dipendono solo da quanti vecchi ha in carico, ma anche da quanto è lunga la loro vita residua.
Quello su cui forse non riflettiamo abbastanza, però, è quanto differenti siano le situazioni dei vari paesi, anche all’interno della comune famiglia europea, e quanto particolare (per non dire drammatica) sia la situazione dell’Italia.
Nel nostro paese, infatti, si cumulano tutti i fattori che rendono esplosivo il problema degli anziani. Tanto per cominciare, il tasso di fecondità (numero di figli per donna in età fertile) è fra i più bassi del mondo: fra le società avanzate, solo Singapore, Malta e Spagna fanno meno figli di noi. Di qui un inevitabile squilibrio fra la popolazione in età da lavoro e la popolazione anziana, le cui pensioni – specie in un sistema a ripartizione come il nostro – dipendono dai contributi versati dagli occupati. Uno squilibrio, questo, aggravato dal fatto che in Italia non hanno mai decollato i sistemi pensionistici complementari (secondo e terzo pilastro della previdenza).
Questo squilibrio è aggravato dal fatto che il nostro tasso di occupazione, a dispetto dei notevoli progressi degli ultimi anni (il milione di nuovi occupati vantato da Giorgia Meloni), resta uno dei più bassi dell’occidente. E meno lavoratori occupati significa meno contributi previdenziali, che a loro volta significano meno risorse per le pensioni degli anziani.
Infine, non si può non menzionare un fattore per tanti versi ultra-positivo, ma che aggrava il problema: l’aspettativa di vita è una delle più alte al mondo, con conseguente pressione sui costi del sistema sanitario.
In breve, in Italia si concentrano i tre fattori che rendono esplosivo il problema dell’invecchiamento della popolazione: meno nascite, meno occupati, più speranza di vita. Con un unico risvolto positivo: l’esercito dei nonni, finché sono in salute, fornisce un contributo fondamentale all’educazione (e alla felicità) dei ragazzi, e di fatto costituisce un pilastro fondamentale del nostro welfare, in questo diversissimo dal sistema che vige nei paesi scandinavi, dove i vecchi sono tenuti lontani dai familiari e abbandonati a sé stessi.
Si possono contrastare queste derive?
Per certi versi no: il crollo della fecondità è un processo planetario, che in Italia è solo più avanti che altrove, e tutt’al più potrebbe essere rallentato.
Per altri versi sì: portare il tasso di occupazione vicino a quello dei paesi nordici si può fare, e in parte si sta già facendo.
Per altri versi ancora, invece, non è proprio il caso: l’allungamento della speranza di vita è una conquista, e sarebbe stolto invidiare i paesi in cui guerre, malattie e modi di vivere dissennati accorciano la vita. Quello che è certo, però, è che le risorse per rendere vivibili (e dignitosi) gli ultimi anni sono, oltreché mal distribuite, gravemente insufficienti. E per renderle adeguate le vie sono solo due: rendere territorialmente meno squilibrata la spesa pro capite, ovviamente, e aumentare la quota di Pil dedicata alla sanità e all’assistenza, compresi i necessari investimenti in ricerca, infrastrutture, edilizia.
Il problema è che – a parte la consueta, ignorata e non decisiva via della spending review – tale aumento di spesa può essere realizzato solo in due modi: sottraendo risorse ad altri impieghi (ma quali? scuola, trasporti, infrastrutture, armi…), o permettendo all’economia di crescere e creare nuovi posti di lavoro. Che sono l’unica polizza di assicurazione per il futuro del nostro stato sociale.
[articolo uscito sul Messaggero il 27 settembre 2025]