A proposito di lotta ai femminicidi – Sul sessismo dei media

18 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Se si vuole combattere un fenomeno negativo, è più utile darne una descrizione esatta, o deformarlo in base alle proprie esigenze politico-narrative?

Come sociologo e analista dei dati la mia risposta è netta: meglio raccontare le cose in modo esatto, e quindi avalutativo. È questa, del resto, una delle lezioni della grande sociologia europea, da Max Weber (difensore della avalutatività) e di Norbert Elias (per il quale non si può capire la realtà se si è coinvolti politicamente).

Di questa lezione, purtroppo, buona parte dei media se ne fanno un baffo. I fenomeni che si deprecano e che si vuole (o si finge di volere) debellare sono sistematicamente deformati, qualche volta addirittura capovolti, a fini politici. Ne abbiamo avuto un esempio recente con i resoconti delle audizioni della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) sulla Legge finanziaria, resoconti che hanno messo in bocca alle due autorevoli istituzioni diagnosi e critiche che non erano mai state pronunciate. Ma l’esempio che più mi colpisce sono i titoli con cui viene presentato il fenomeno dei femminicidi. Faccio tre esempi, fra i tantissimi che potrei richiamare.

Primo esempio. Qualche settimana fa sul sito del Tgcom24 leggo il seguente titolo “non si ferma la violenza nei confronti del genere femminile: il numero delle vittime continua a salire”. Poi vado a leggere, e scopro che l’articolo spiega dettagliatamente come sia le uccisioni di donne in generale, sia le uccisioni di donne per mano del partner o dell’ex partner siano crollate fra il 2° e il 3° trimetre del 2025. In breve: la notizia è che le uccisioni di donne sono in netto calo, ma il titolo dell’articolo dice esattamente il contrario: “il numero delle vittime continua a salire”. Perché? Poiché non ho motivo di pensare che il titolista sia in malafede, non posso che concludere che il titolo drammatizzante sia dovuto a una combinazione di sciatteria (faccio il titolo senza leggere l’articolo) e di conformismo (mi hanno così tanto riempito la testa con l’aumento “esponenziale” dei femminicidi che non riesco a concepire che possano essere in diminuzione).

Secondo esempio. Qualche giorno fa sul quotidiano La Stampa, in una pagina volta a convincere i lettori dell’assoluta necessità di introdurre l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, viene riportata con grande evidenza una dichiarazione di una esponente del Pd che afferma: “Ciò che dovrebbe far paura è la mattanza di donne che vediamo quotidianamente”. Di nuovo: perché deformare il fenomeno con l’uso di una espressione ‘mattanza quotidiana’ che non lo descrive ma lo deforma? Il termine ‘mattanza’ rimanda alla fase finale della pesca del tonno, con centinaia di esemplari confinati e crudelmente uccisi. Potrebbe andar bene – forse – per descrivere eccidi che hanno come vittime decine o centinaia di donne, e che si ripetono giorno dopo giorno (come può accadere in una guerra). Ma nelle società come la nostra. Fortunatamente, le uccisioni di donne non sono di gruppo, e non sono quotidiane (in 2 giorni su 3 non viene uccisa alcuna donna).

Perché dunque usare un’espressione, “mattanza quotidiana”, del tutto inappropriata? Chi la usa teme che, se non lo facesse, la nostra indignazione di lettori non traboccherebbe con sufficiente impeto? Ci considera così poco umani, così poco intelligenti, da doverci educare con fiumi di retorica e indignazione?

Terzo esempio: le foto in prima pagina. Ma come è possibile che i quotidiani (e i siti internet) ritengano degni di attenzione, esecrazione, pensose riflessioni solo i casi in cui la vittima è giovane e carina?

La ragione – ci viene risposto – è che sono proprio le ragazze le principali vittime dei femminicidi. Ed è l’incapacità del giovane maschio ad accettare un rifiuto la causa delle uccisioni. Ecco perché dobbiamo introdurre l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole: per insegnare ai giovani virgulti a rispettare le decisioni delle loro partner.

Peccato che un quadro del genere, ripetuto ossessivamente da quasi tutti i principali media,

sia del tutto falso. La maggior parte dei femminicidi non riguarda ragazze, e nemmeno giovani donne. L’età media delle vittime si aggira sui 55 anni. Più di metà dei casi ha 50 o più anni. Molte sono sopra i 60 o sopra i 70. Però, di norma, non sono sufficientemente fotogeniche ed evocative per il lavoro dei media. Non permettono di raccontare la solita fiaba-horror stereotipata: lui era possessivo e immaturo, lei lo ha lasciato, lui non ha sopportato l’affronto.

Ancora una volta: a che pro deformare la realtà? Possibile che i media non abbiano alcun interesse a capire il fenomeno, posto che proclamano di volerlo combattere? Che cosa fa loro pensare che darne una rappresentazione parziale e gravemente deformata aiuti a sconfiggerlo? Che cosa li autorizza a trascurare le vittime mature o anziane? Come possono combattere sessismo e ageismo se sono le loro stesse pratiche a discriminare chi non è sufficientemente giovane e bella?

Eppure, se davvero vogliamo combattere contro le uccisioni di donne, dovremmo prima di tutto capire a fondo il fenomeno, anziché accontentarci di esecrarlo. Dovremmo, ad esempio, provare a rispondere a queste due domande:

1 – perché, in Europa, tutti i paesi che hanno introdotto l’educazione sessuale nelle scuole hanno più femminicidi dell’Italia, che invece non la ha ancora introdotta?

2 – perché, fra i paesi occidentali, l’Italia è quello con il numero di femminicidi per abitante più basso?

[articolo uscito sulla Ragione il 17 novembre 2025]