A proposito di Pasolini – Sinistra e nostalgia
In primo pianoPoliticaSocietàPasolini era un conservatore? Pasolini non era di sinistra? Pasolini era di destra?
È probabile che, dell’edizione di Atreju che si conclude oggi, saranno queste le domande che più a lungo ci accompagneranno. Domande interessanti, su cui in tanti si sono interrogati. C’è chi ha risposto sì, c’è chi ha negato risolutamente, c’è chi ha concluso che Pasolini è inclassificabile.
Forse, però, la domanda giusta è un’altra. Dopotutto, su chi fosse veramente Pasolini non ci sono grandi dubbi o divergenze. Più che chiederci se era un conservatore, dovremmo chiederci che cosa davvero significhi essere un conservatore e, in secondo luogo, se si possa – al tempo stesso – essere conservatori e di sinistra.
Sul fatto che nel pensiero di Pasolini si possano rintracciare elementi di conservatorismo credo non vi possano essere dubbi. Nella sua critica del mito dello sviluppo, nel suo rimpianto per il mondo di ieri (meravigliosamente descritta con la metafora della “scomparsa delle lucciole”), nella sua ostilità alla legge sull’aborto vista come sottomissione al potere dei consumi (il “nuovo fascismo”), echeggiano sicuramente motivi conservatori, per non dire retrogradi o reazionari. Dunque, alla domanda se Pasolini fosse un conservatore tenderei a rispondere: di più, Pasolini era un “indietrista”, che guardava in modo romantico all’Italia povera e contadina, e pensava che lo “sviluppo”, con la dilatazione dei consumi delle masse e la liberazione sessuale, non fosse progresso. Perché, per lui, il vero progresso era anche, se non innanzitutto, liberazione dall’alienazione consumistica, rinuncia al superfluo.
Ma Pasolini era di sinistra, o perlomeno si sentiva tale, e tale era considerato dai più. Eccoci quindi al vero interrogativo: che cosa significa essere di sinistra? si può essere di sinistra e conservatori? la nostalgia per il passato è un’esclusiva della destra?
Ebbene, se sono queste le domande, tutto diventa più chiaro e semplice. Perché una sinistra conservatrice, anti-borghese, ostile al consumismo, anti-individualista, sensibile alle istanze comunitarie, critica verso l’ideologia dei diritti umani, è sempre esistita, almeno dai tempi di Marx. Anzi il suo capostipite è Marx stesso, che soprattutto ne La questione ebraica (1844), pone con forza, e sorprendente crudezza, il problema delle basi del legame sociale. Basi che, a suo parere, dovrebbero essere solidaristiche e perciò stesso diffidenti verso “i cosiddetti diritti dell’uomo”. I quali, per Marx, “non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su sé stessa”.
Questa linea di pensiero, che potremmo chiamare sinistra antica, stigmatizza ora i consumi superflui (Marcuse), ora l’industria culturale (Adorno, Horkheimer), ora la crescita (Latouche), ora il cosmopolitismo e l’ideologia dei diritti umani (Michéa, Žižek), ora l’individualismo e l’atomismo della modernità (Bauman). E scorre come un fiume carsico sotto il cammino della sinistra ufficiale. La cui storia può anche essere descritta come un lento congedo dalla visione collettivistico-solidaristica del legame sociale (tipica dell’Ottocento e cara a Marx), verso una concezione individualistica, per cui il cemento della società è un contratto sociale fondato su principi universali (il “patriottismo costituzionale”, teorizzato da Jürgen Habermas). Il nucleo del progresso diventa quindi la crescita della libertà individuale, fatta di consumi crescenti e espansione dei diritti dell’individuo, non importa quanto isolato e separato dagli altri individui. Un ideale che in occidente ha avuto nella Svezia socialdemocratica la sua più avanzata, esemplare, e pure discutibile realizzazione.
È questo tipo di sinistra, allora nascente, da cui Pasolini prendeva le distanze, senza per questo diventare un intellettuale di destra. Non gli occorreva cambiare campo, non tanto perché la destra di allora era essenzialmente la Dc, ma perché in quel tempo esisteva e contava ancora una sinistra comunitaria, rispettosa della tradizione, radicata nel “mondo di sotto”, non ancora imborghesita e ostaggio della cultura dei diritti. Pasolini probabilmente sentiva che, sotto la pressione del movimento studentesco e del femminismo, quella sinistra antica avrebbe presto cambiato pelle. Per questo non fu mai tenero con gli studenti, visti come figli di papà, né con le aspirazioni delle donne, viste come avanguardie di una borghesissima rivoluzione del costume.
Ma quando il cambio di pelle si produsse effettivamente?
Credo si possa dire che quel tipo di sinistra, che proprio perché antica pensava ancora in termini di doveri e di sacrifici, si inabissò in un arco di tempo preciso, fra il 1977 e il 1984. Esisteva ancora nel triennio 1977-1979, quando Berlinguer e Lama, in nome dell’interesse collettivo, lanciarono e difesero la linea dell’austerità a dispetto dei sacrifici che comportava per i lavoratori. Ma non c’era già più nel 1984, quando la morte di Berlinguer sottrasse al maggiore partito della sinistra l’unico dirigente capace di mantenere un legame forte con i ceti popolari. Dopo la morte di Berlinguer la sinistra antica, orgogliosamente comunitaria e anti-individualista, sopravvive solo a livello culturale (nel pensiero di molti filosofi) e in piccole formazioni politiche, radicali e minoritarie.
Pasolini non visse abbastanza per assistere all’inabissamento della sinistra antica e al trionfo della “vita facilitata”, così ben descritta dal sociologo Gian Paolo Ceserani in un suo libro del 1977. Non possiamo sapere con certezza come Pasolini avrebbe raccontato il paese che allora stava prendendo forma, ma sappiamo come vedeva l’Italia pochi anni prima di morire: “Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze. Quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro”.
Se questa non è nostalgia, che cosa è?
[articolo uscito sul Messaggero il 14 dicembre 2025]


