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Intervista a Luca Ricolfi

25 Marzo 2024 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà

  1. Lei ha insegnato quasi tutta la vita all’Università di Torino. E’  la  prima volta che si verifica un  simile condizionamento da parte dei collettivi universitari?

No, purtroppo. Nella nostra università, ma più in generale nella città di Torino, piegarsi alle richieste (e talora alle intimidazioni) dei collettivi studenteschi è una lunga tradizione Ricordo, per fare un esempio remoto, quando – più di venti anni fa – a Marcello Veneziani fu impedito di parlare a Palazzo Nuovo, ma anche vari atti di intolleranza al Salone del libro, da ultimo quello verso il ministro Eugenia Roccella.

Quel che è inquietante è che, nella maggior parte dei casi, queste manifestazioni di intolleranza e prevaricazione, sono condotte in nome dell’antifascismo.

  1. Secondo lei si sarebbe potuto dire di no alla mozione scritta da alcuni docenti e poi condivisa dagli studenti?

Certo, si sarebbe dovuto dire no.

  1. Una fetta di accademici parla di “Rettorato debole”. Lo fanno anche attraverso una lettera aperta condivisa (ormai) da un’ottantina di professori.  Che ne pensa?

Meno male che c’è una reazione, sono rimasto sconvolto quando ho appreso che in Senato accademico solo la professoressa Susanna Terracini aveva votato contro la decisione anti-Israele. Ho appena letto la mozione, molto chiara e coraggiosa. La condivido bit per bit, anzi ne approfitto per aggiungere il mio nome.

Ho solo due piccoli dubbi.

  1. Quali?

Innanzitutto, mi chiedo se il Rettore non dovrebbe dimettersi. E poi mi stupisco di quanti colleghi che conosco benissimo (almeno un centinaio) NON siano presenti fra i firmatari: spero che sia solo una questione di tempo, e che domani l’elenco sarà molto più lungo.

  1. Non crede che il retropensiero della questa mozione del Senato accademico possa essere una forma di antisemitismo strisciante?

Io parlerei di antisemitismo conclamato, più che strisciante. Anche se, a mio parere, quello cui siamo di fronte non è semplicemente antisemitismo, ma una forma inedita di razzismo, che perseguita – o invita a perseguitare – le persone non per gli atti di cui sono responsabili, ma per i loro caratteri ascritti: etnia, nazionalità, sesso. E’ la fine della civiltà liberale, che era basata sulla tolleranza, e sul principio di responsabilità personale.

  1. C’è una saldatura inedita tra Me Too e antisemitismo?

Certo, ma non completamente inedita. Le manifestazioni dell’8 marzo scorso, silenti sulle donne israeliane uccise da Hamas, anzi ostili alla ragazza che coraggiosamente cercava di ricordarle, sono un precedente agghiacciante.

  1. Al di là dei fatti di Torino, che cosa sta accadendo, professore, nelle università italiane?

Quel che accade da 60 anni, ma ora con frequenza inquietante: si impedisce di parlare a chi la pensa in modo non gradito ai collettivi studenteschi.

  1. C’è un collegamento con la cultura woke, che dilaga negli States?

Eccome se c’è. Per la cultura woke la missione principale delle università non è più è la ricerca scientifica, l’indagine obiettiva e disinteressata, l’avanzamento della conoscenza, bensì il perseguimento della Social Justice, un concetto vago e pervasivo cui tutto il resto viene subordinato. Un cambiamento epocale, che in diversi atenei americani ha portato addirittura a cambiarne gli statuti. Noi ci stiamo arrivando, senza bisogno di cambiare gli statuti: ci basta un senato accademico sottomesso.

  1.  Possiamo dire che si sta cercando di politicizzare la scienza? E’ giusto farlo?

Non solo la scienza. Si sta politicizzando tutto, dai rapporti interpersonali ai codici etici delle imprese e delle istituzioni. La faziosità e la politica stanno invadendo quelle che, a mio parere, dovrebbero semprerestare zone franche sacre: la ricerca scientifica, la letteratura,  l’arte, la musica, il teatro, lo sport. Ma ci rendiamo conto che, un paio di anni fa, l’università di Milano è arrivata a sopprimere il corso di Paolo Nori su Dostoevskij perché Dostoevskij è russo? E che, sempre due anni fa, gli atleti disabili sono stati esclusi dalle Paralimpiadi in quanto russi o bielorussi?

  1. L’Università dovrebbe essere un luogo di scambio di esperienze e di contaminazione: escludendo qualcuno o qualcosa non si rischia di perdere per strada valori e conoscenze?

Certo, si perde tantissimo sul piano scientifico-culturale. Ma si perde molto anche sul piano politico-diplomatico. Peccherò forse di ingenuità, o di idealismo, ma sono convinto che, se avessimo avuto il coraggio di mantenere zone franche, le vie del dialogo sarebbero oggi meno impervie.

E poi c’è un’altra ragione, per cui credo nelle zone franche.

  1. Quale?

Per spiegarla devo fare una premessa. A mio parere, il tratto fondamentale del nostro tempo è il rifiuto di riconoscere l’umanità dell’altro, un rifiuto che in questo momento colpisce i russi in quanto russi, gli israeliani in quanto israeliani, le donne israeliane a dispetto del loro essere donne. L’esistenza di zone franche, in cui le persone si incontrano come scienziati, scrittori, atleti, musicisti, sarebbe un prezioso contro-veleno rispetto al dilagare dell’odio neo-razzista.

  1. L’attacco alla professoressa Chiara Saraceno, costretta a intervenire e difendere la sua storia accademica e di femminista, che cosa rappresenta?

E’ la rappresentazione plastica dell’imbarbarimento di una componente significativa del femminismo, che ormai ha assunto tratti neo-razzisti.

Chiara Saraceno, che è stata mia direttrice quando ero al Dipartimento di Scienze Sociali, è una grande studiosa, femminista coerente, donna coraggiosa. Che le ragazze di oggi siano arrivate al punto di contestare Chiara Saraceno, la dice lunga sul livello di faziosità e intolleranza cui si è arrivati.

Le esprimo tutta la mia solidarietà. Ma vorrei metterle una pulce nell’orecchio: siamo sicuri che l’indulgenza del mondo progressista verso la mentalità woke, la timidezza nel condannare i tanti episodi di squadrismo “antifascista”, la iper-politicizzazione delle nostre discipline sociali, la costante demonizzazione degli avversari, non abbiano contribuito a chiudere gli spazi del dialogo e della tolleranza?

[intervista uscita su La Stampa, 22 marzo 2024]

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L. Ricolfi e staff Hume
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