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Hate speech

4 Novembre 2019 - di Luca Ricolfi

PoliticaSocietà

Ha suscitato qualche inquietudine, anche fra alcuni parlamentari dell’opposizione di destra, il fatto che 98 senatori (tutti di centro-destra) non abbiano votato a favore della “Commissione Segre”, ovvero di una Commissione straordinaria “per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo, e dell’istigazione all’odio e alla violenza”. Anch’io mi sono stupito un po’, conoscendo la passione dei parlamentari per le commissioni, e trovando strano che ci si debba dividere persino su principi così generali e ovvi. Possibile che ci siano senatori che difendono l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, l’istigazione all’odio e alla violenza?
Poi però mi sono ricordato di una cosa: il titolo di una legge, come il titolo di un articolo di giornale, spesso non corrisponde a quel che c’è scritto dentro. Meglio leggere tutto prima di esprimere un’opinione.
Allora ho letto il testo istitutivo della Commissione, e il mio stupore è aumentato, ma capovolto di segno. Ora sono stupito che sia stato possibile mettere al voto un testo simile. Attenzione: ho detto mettere al voto, non approvare. Perché si può essere d’accordo o contrari a una proposta, ma si dovrebbe pretendere che la proposta sia chiara, ossia ben formulata nei suoi presupposti, nei suoi propositi e nei suoi limiti (e magari anche scritta in un buon italiano, come la nostra Costituzionale).
Ebbene, questi requisiti sono drammaticamente assenti, quindi la proposta è ingiudicabile nel merito. Può essere usata come arma di lotta politica, ma non valutata polititicamente. Provo a spiegare perché.
I presupposti. Un presupposto (noto, ma non dichiarato nel testo) è costituito dai messaggi d’odio, presumibilmente a sfondo antisemita, indirizzati quotidianamente alla senatrice Segre, come a decine di altri personaggio pubblici. Un secondo presupposto è la convinzione degli estensori del testo che “il fenomeno denunciato” (i messaggi d’odio sul web, sembra di capire) “è purtroppo in crescita in tutte le società avanzate”. Questo secondo presupposto è perlomeno mal definito, e a mia conoscenza non è supportato dal alcuno studio empirico condotto sistematicamente nel tempo “in tutte le società avanzate”. Quel che è verosimile, semmai, è che un po’ tutti i generi di messaggi siano in crescita sul web per la ovvia ragione che aumenta molto velocemente il numero di utenti del web. Quando dico tutti i generi di messaggi intendo quelli di odio e quelli di solidarietà, quelli ostili agli ebrei e quelli ostili all’occidente, quelli che fanno l’apologia del fascismo e quelli che fanno l’apologia dello Stato islamico. Quanto ai personaggi pubblici, credo ve ne siano parecchi, a destra (Matteo Salvini), a sinistra (Laura Boldrini), e persino al centro (Elsa Fornero), che hanno ricevuto, e continuano a ricevere, dosi non certo omeopatiche di ingiurie, specie se sono attivi sul web.
I propositi. Che cosa dovrebbe fare la Commissione straordinaria? Non è chiarissimo. A parte studi, viaggi, scambi di informazioni, missioni all’estero, report annuali, la commissione ha “compiti di iniziativa per l’indirizzo e il controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” (fino alla richiesta di rimozione dal web di contenuti che la Commissione giudica manifestazioni di odio, intolleranza o discriminazione).
I limiti. Il problema è che nel testo non vengono mai circoscritti e definiti in modo chiaro i comportamenti che si ritengono inammissibili, e dunque potenzialmente segnalabili, stigmatizzabili, sanzionabili, o addirittura perseguibili penalmente. Se si legge attentamente tutto il testo, si scopre un’incredibile insalata di comportamenti che la Commissione sembra far rientrare nel proprio campo di interesse e di sorveglianza. In alcuni punti, sembra che il bersaglio sia l’odio in quanto tale, a prescindere dal suo contenuto ideologico o politico, fino a includere il cyberbullismo nelle scuole. In altri punti del testo nel mirino finisce “l’istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali” ma limitatamente al caso in cui l’odio è “sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre condizioni fisiche o psichiche”. Altrove il testo si allarga ancora un po’ e parla di hate speech e di “tutte le manifestazioni di odio nei confronti di singoli o comunità”. Infine, per quanto riguarda le ideologie, il bersaglio è molto ampio, con qualche omissione: rientrano il razzismo, l’antisemitismo, l’antigitanismo, l’antislamismo, il “nazionalismo aggressivo” (chi stabilirà se il nazionalismo è aggressivo o mite?) e persino l’etnocentrismo; ma non rientrano l’anticristianesimo e l’antioccidentalismo, topoi tipici della propaganda islamica radicale. Lo stesso strabismo riguarda la denuncia del negazionismo: giustamente stigmatizzato quando è negazione della Shoah, dei genocidi, dei crimini di guerra o contro l’umanità, ma sorprendentemente mai riferito ai Gulag e alle altre tragedie del comunismo (una dimenticanza particolarmente grave in un testo che si sforza di avere un respiro europeo, in un’Europa nella quale i crimini del comunismo sono ancora vivi nella memoria di tanti popoli).
Le perle. Parlando di hate speech, e poggiando sull’autorità del “Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa”, si arriva a includere nel raggio di azione della commissione “gli abusi, le molestie, gli epiteti, gli stereotipi e le ingiurie che stigmatizzano e insultano”. Gli stereotipi? Chi stabilirà che un’etichetta appioppata a qualcuno è uno stereotipo, e come tale perseguibile o stigmatizzabile? Non sanno gli estensori del testo che la vita sociale si nutre di stereotipi, e che moltissimi stereotipi sono semplicemente la cristallizzazione di esperienze individuali e collettive?
Che dire, alla fine?
Siamo di fronte a un testo le cui sacrosante e condivisibili intenzioni, combattere l’odio e l’istigazione alla violenza, convivono con due limiti che, almeno nella tradizione liberale, appaiono difficili da accettare. Il primo è la completa mancanza di consapevolezza di quanto delicato sia l’equilibrio fra il diritto a non essere insultati e offesi, e il diritto alla libera manifestazione delle opinioni, specie in campo politico. Il secondo limite è l’incapacità di vedere che, ove si decida di percorrere la rischiosa strada di tutto monitorare, controllare, sorvegliare e punire, anche nei casi in cui l’aggressività è confinata al piano verbale, allora occorre essere veramente neutrali, imparziali, universali: il diritto della Boldrini di non subire una campagna d’odio sul web vale quanto l’analogo diritto di Salvini, che di insulti – presumibilmente – ne riceve anche di più, e di assai più organizzati.
Qualcuno ha dimenticato la copertina dell’Espresso (Uomini e no) in cui il leader della Lega veniva presentato come un non-uomo? Se è impossibile, nell’era di internet, impedire a legioni di imbecilli frustrati di sfogare il loro odio e le loro antipatie sul web, potremmo almeno cercare, come sistema dei media, di accordare a tutti il diritto di essere trattati come esseri umani.

Pubblicato il 2 novembre su Il Messaggero
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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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