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Dimenticare i problemi strutturali

17 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Per anni ho ritagliato gli articoli di giornale più interessanti in materia economico-sociale, distribuendoli in centinaia di cartelline a seconda del periodo e dell’argomento. Nei giorni scorsi, finalmente, mi sono deciso a fare pulizia: ho buttato quasi tutto. Non alla cieca, però: prima di buttare, ogni tanto davo una sbirciata. Così, per curiosità.

Ebbene, è stata un’esperienza sorprendente, e molto istruttiva. La cosa che più mi è saltata all’occhio è la differenza fra ciò di cui si parla oggi e ciò di cui si parlava 10, 15, 20 anni fa. La metterei così: allora il dibattito pubblico era governato da lunghe, lunghissime, insistenti discussioni sui grandi problemi strutturali dell’Italia e sui modi di affrontarli, oggi quasi tutto lo spazio è occupato da questioni contingenti e molto delimitate, nonché dalle opposte prese di posizione delle forze politiche.

Di che cosa si parlava allora?

Un elenco minimale include: spesa pubblica, spending review, sprechi, riforma federalista, pressione fiscale, debito pubblico, efficienza della giustizia, riforma della scuola, riforma dell’università, meritocrazia, spread, globalizzazione, crescita, produttività, mercato del lavoro, crisi del sistema pensionistico. Gli interventi su questi temi erano quotidiani, le posizioni contrastanti ma ben delineate. Oggi non è che non se ne parli mai, qualche articolo prima o poi compare, ma manca la convinzione condivisa che certi nodi siano ineludibili, e che sia urgente discuterne per fermare il declino dell’Italia.

Oggi a me pare che l’unico nodo strutturale in grado di attirare un’attenzione mediatico-politica costante sia quello del calo demografico: ci sposiamo di meno, facciamo meno figli, siamo preoccupati per le conseguenze economiche e sociali di questo “inverno demografico”.

Ma tutto il resto? Possibile che nessuna delle questioni che un tempo ci appassionavano (e su cui spesso ci dilaniavamo) sia ancora importante?

Per certe questioni la nostra attuale disattenzione è comprensibile. Nel caso del debito pubblico, ad esempio, è il buon andamento dello spread che ci induce a non vedere il problema. Nel caso del federalismo, sono stati 25 anni di chiacchiere impotenti che hanno fatto evaporare il tema (ma non il problema degli squilibri territoriali, da cui il sogno federalista aveva preso le mosse).

Per tutto il resto, però, la nostra disattenzione non è giustificata. Possiamo dire che la spesa pubblica è finalmente efficiente, o che la sanità nel Mezzogiorno ha prestazioni comparabili a quelle del Nord? Evidentemente no.

Possiamo dire che il merito è adeguatamente premiato, come prevede l’articolo 34 della Costituzione (“i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”)? Evidentemente no.

Possiamo dire di aver disboscato la selva di adempimenti, lacci e lacciuoli che frenano l’economia? Evidentemente no.

Possiamo dire che la giustizia civile è diventata più veloce, e quella penale commette meno errori? Evidentemente no.

Possiamo dire che la lotta all’evasione ha permesso di ridurre la pressione fiscale e abbassare le aliquote per chi paga le tasse? Evidentemente no.

Possiamo dire che, finalmente, la produttività è tornata a crescere, con benefici per le imprese (più investimenti) e per i lavoratori (più potere di acquisto)? Evidentemente no.

Possiamo dire che finalmente i nostri giovani si sono rimboccati le maniche, e non siamo più il paese dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano)? Ancora una volta, evidentemente no. Dove tutti i nostri “evidentemente” non rimandano a percezioni ma a dati statistici, che implacabilmente testimoniano il perdurare dei nostri maggiori problemi strutturali.

Ma, si potrebbe obiettare, negli ultimi cinque anni (con Draghi e Meloni) abbiamo avuto uno straordinario aumento dell’occupazione: circa 2 milioni di posti di lavoro in più. È vero, tuttavia il problema è che gli aumenti occupazionali non si sono accompagnati a incrementi del Pil abbastanza sostenuti da far crescere la produttività, che ha continuato a ristagnare come fa da circa un trentennio. Quanto agli aumenti occupazionali, sono dovuti più alla permanenza al lavoro di adulti e anziani che non all’immissione di nuove leve. Anzi, diversi indizi suggeriscono che, anche negli ultimi anni, si è rafforzata la tendenza di parti del sistema-Italia a vivere di rendita, o meglio e più precisamente, a “vivere senza lavorare”, come testimoniano tanti fenomeni apparentemente scollegati: lo sfruttamento intensivo delle abitazioni (esplosione degli Airbnb), le donazioni patrimoniali (un flusso annuo di denaro pari a 10 Finanziarie), l’attrattiva delle carriere da influencer, l’aumento del gioco d’azzardo e del trading on line. Tutte attività che assicurano (o promettono di assicurare) un reddito senza la fatica e l’impegno di un vero lavoro.

Colpa della politica? Colpa di questo governo? Colpa di quelli che l’hanno preceduto?

Difficile distribuire meriti e colpe, ma il fatto che dei problemi strutturali del paese si parli poco, comunque molto di meno di dieci o venti anni fa, suggerisce un’ipotesi amara: forse non sono solo i politici, ossessionati dalla ricerca del consenso immediato, ma siamo noi stessi – in quanto cittadini, studiosi, operatori dell’informazione – che ci siamo distratti. Poco per volta la fiducia nella possibilità di cambiare le cose ha lasciato il posto a una visione più scettica e disincantata, per cui le cose non vanno così male da esortarci all’azione, e il costo di affrontare i problemi ci appare superiore ai benefici che potremmo attenderci da riforme radicali.

O non è così?

[articolo uscito sul Messaggero il 15 novembre 2025]

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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