Ma la crescita non è nemica del risanamento
EconomiaSe c’è un punto su cui tutte le forze politiche concordano, è quello dei nostri conti pubblici. Non già nel senso che esista un piano comune e condiviso per affrontare il problema del debito pubblico, ma per la ragione opposta: a nessun partito piace toccare il tema, meno che mai impegnarsi con cifre precise. E comunque, a giudicare dai discorsi con cui i leader cercano di attirare consensi, per nessuno, proprio per nessuno, la riduzione del debito è una priorità.
E’ questo, a mio parere, il più importante elemento di convergenza e di sostanziale unità del ceto politico italiano, al di là delle quotidiane scaramucce su tutto il resto. Alla maggior parte dei politici, che stiano al governo o stiano all’opposizione, piace raccontare le cose così: la nostra priorità è la crescita, ovvero l’aumento del reddito e dell’occupazione, e non possiamo certo comprometterla sottostando ai diktat dell’Europa (ma qualcuno semplifica: ai diktat della Merkel), che ci impongono l’austerità e così bloccano lo sviluppo.
Questo tipo di argomentazione ha due punti deboli, innanzitutto sul piano logico. Il primo è che non si può contrapporre fra loro un obiettivo (la crescita) e uno strumento di politica economica (l’austerità). Sarebbe come se, in un viaggio verso Parigi, con un’automobile che va ancora avanti ma fa fumo dal cofano, chi vuole portare l’automobile da un meccanico venisse accusato dagli altri passeggeri di non volerli portare a Parigi. Il secondo punto debole è che, a sua volta, l’austerità non è una politica ma è uno spettro di politiche possibili, accomunate soltanto dall’obiettivo di ridurre l’indebitamento pubblico di un paese. A un estremo le politiche che puntano tutte le loro carte sull’aumento delle tasse, all’altro le politiche che si concentrano sulla riduzione e la riqualificazione della spesa.
Il vero problema, quindi, non è di scegliere fra austerità e crescita, ma come conciliare crescita e risanamento dei conti pubblici. O, meglio ancora, come risanare i conti pubblici secondo modalità che favoriscano la crescita, evitando che il risanamento indebolisca il paziente anziché guarirlo. Il dilemma, in altre parole, non è fra crescita e austerità ma, semmai, fra austerità “buona” e austerità “cattiva”, per usare l’efficace terminologia dell’ultimo libro di Veronica De Romanis (L’austerità fa crescere, Marsilio 2017). Dove per austerità buona si intende una correzione dei conti pubblici che privilegia la riduzione della spesa corrente, anziché l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, cavalli di battaglia dell’austerità cattiva.
Ma a che punto si trova l’Italia, su questo percorso?
Piuttosto indietro, purtroppo. Nel periodo più acuto della crisi (2012-2013) la politica economica ha privilegiato l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, ossia precisamente i due caposaldi dell’austerità cattiva. Quanto agli ultimi anni, purtroppo, la tenuta dei conti pubblici è stata assicurata più dalla riduzione degli interessi sul debito (in gran parte imputabile alla politica della Bce) che da un aumento dell’avanzo primario, che è anzi un po’ peggiorato tra il 2013 e il 2016. E, anche se il peso delle tasse e delle spese rispetto al Pil si è ridotto di qualche decimale, il livello dell’interposizione pubblica resta molto alto, e non certo a causa di un rilancio degli investimenti.
Accanto a queste criticità, per fortuna, esiste anche qualche segnale confortante. L’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici (indice VS), elaborato dalla Fondazione David Hume per 40 paesi e 18 anni (dal 1999 a oggi), mostra sì un peggioramento dell’Italia fra il 2011 e il 2013, ma anche una stabilizzazione fra il 2014 e il 2016, e una tendenza al miglioramento nel corso del 2017. Inoltre, un confronto con le valutazioni delle Agenzie di rating (Fitch, Moody’s, Standard & Poor’s), suggerisce che il loro giudizio sia troppo severo nei confronti dei conti pubblici italiani, specie riguardo alla situazione dell’anno in corso.
E tuttavia sarebbe un grave errore prendere spunto da questi, pochi e limitati, elementi rassicuranti, per rimuovere per l’ennesima volta il risanamento dei conti pubblici dall’agenda politica. Questo per almeno due buoni motivi.
Il primo è che il miglioramento dell’indice VS (Vulnerabilità Strutturale) nel corso del 2017 è dovuto soprattutto alle previsioni di crescita del Pil e al ritorno dell’inflazione, non certo a una riduzione del rapporto debito/Pil. Il secondo è che l’indice non rivela soltanto che le Agenzie di rating sono (forse) troppo severe con noi, ma anche che i mercati sono stati (finora) troppo generosi, nel senso che hanno permesso all’Italia di indebitarsi a tassi più favorevoli di quelli che i mercati stessi fisserebbero in assenza di fattori più o meno contingenti (il Quantitative Easing della Bce, ad esempio). Una tendenza, quella a concederci tassi relativamente bassi, che si sta rapidamente esaurendo, e potrebbe persino cambiare di segno quando il Quantitative Easing volgerà alla fine.
Ma la vera ragione che suggerisce di non rinunciare a percorrere risolutamente la strada del risanamento è che esso non è essenziale solo per proteggerci da nuove tempeste finanziarie, ma anche per permettere un ritorno alla crescita che sia solido, duraturo e, soprattutto, abbastanza vivace da consentire un aumento significativo dell’occupazione. Il fatto che, sia pure lentamente e faticosamente, si stia tornando ai livelli occupazionali pre-crisi, non deve farci dimenticare che, in questi ultimi anni, l’Italia ha anche conquistato un triste primato, che prima non deteneva: siamo il paese con il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.