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Il marxismo è morto ma c’è poco da rallegrarsene

6 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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«È in corso – ha scritto Mario Sechi nell’editoriale del 29 ottobre u.s. – una saldatura tra l’ideologia socialista e l’islamismo, tra il neo-marxismo e l’antisemitismo». Mi trovo spesso d’accordo con i commenti politici del direttore di «Libero», ma questa volta credo che sbagli. Come sbagliano, del resto autorevoli opinionisti francesi inventori dell’ossimoro islamo-marxismo. Da sempre lontano dalla filosofia di Karl Marx e di Friedrich Engels, credo che la tragedia intellettuale della sinistra contemporanea, in Italia come in Europa, consista proprio nell’aver messo in soffitta i due dioscuri del materialismo storico. Quest’ultimo, si insegnava una volta, si fondava su tre pilastri: l’economia classica inglese (da Adam Smith a David Ricardo); la dialettica hegeliana (il divenire storico come passaggio dalla tesi all’antitesi e alla sintesi) e, infine, l’illuminismo francese. Ne aggiungerei un quarto, che, a mio avviso, ha eroso gradualmente i primi tre: la critica controrivoluzionaria della società borghese subentrata all’ancien régime. Il motivo antiborghese era estraneo sia al pensiero economico anglo-scozzese (ovviamente) sia alla filosofia hegeliana, sia, soprattutto, al filone classico dell’illuminismo francese (v. Voltaire che nella Borsa di Londra vedeva il tempio laico dell’età della ragione). Furono i tradizionalisti, come Bonald, de Maistre, Donoso Cortes a riversare sulla società moderna una pioggia implacabile di critiche per il suo individualismo libertino, che riduceva tutte le relazioni sociali a uno scambio di utilità, privatizzava la religione e delegittimava ogni autorità in cielo come in terra. Lo spirito antiborghese sarà trasmesso dai tradizionalisti ai liberalconservatori come Alexis de Tocqueville, ma influenzerà, in modo sotterraneo, lo stesso Marx. Soprattutto nella Questione ebraica e nella Sacra famiglia la critica dei diritti universali dell’uomo e del cittadino non può non far pensare al ‘realismo politico’ dei tradizionalisti che, con de Maistre, avevano incontrato francesi e inglesi, spagnoli e italiani, ma da nessuna parte l’Uomo. «Chi è l’homme distinto dal citoyen?—si legge nella Questione ebraica 1843– Nient’altro che il membro della società civile. […] I cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme come distinti dai droits du citoyen, non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. […] Il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso. L’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata». Se non fosse stato per il diritto di proprietà, i tradizionalisti avrebbero sottoscritto parola per parola: è lo ‘sradicamento’ il peccato mortale dell’universalismo illuminista.

Sennonché, il quarto pilastro del materialismo storico rimase a lungo soffocato dagli altri tre. Marx ed Engels morirono quando nel vecchio continente si stava affermando il positivismo – una filosofia, a mio avviso sottovalutata, ma ricca di innegabili potenzialità civili. In questa età, vennero, soprattutto, evidenziati il pilastro economico e quello illuministico del marxismo e decisamente meno quello dialettico-hegeliano. Nella cultura del socialismo riformistico, che in Europa ha contribuito non poco al rafforzamento della democrazia e dello Stato di diritto – si pensi a ‘marxisti’ come Filippo Turati o Jean Jaurès –, la dialettica trascolorava in ‘evoluzione’ e il concetto di rivoluzione veniva sempre meno legato a una rottura traumatica col vecchio ordine borghese. Basta leggere le pagine di un grande pensatore come Rodolfo Mondolfo – anima filosofica di «Critica Sociale» – per rendersi conto che il suo costante richiamo a Marx rinviava a una visione del socialismo come l’erede effettivo della società borghese. I diritti sociali, in questa ottica, integravano quelli civili e politici ma non li ‘superavano’. Non a caso Mondolfo – come il suo amico, filosofo del diritto, Alessandro Levi – furono strenui difensori della democrazia liberale in anni in cui molti esponenti della cultura liberale esprimevano forti dubbi sul ‘governo del popolo’.

Fu la rivoluzione bolscevica ad assestare un durissimo colpo all’interpretazione ottocentesca e liberaldemocratica del marxismo. Il capitalismo che aveva unificato il mondo andava combattuto nei suoi ‘anelli deboli’, anche ricorrendo ai mezzi più violenti possibili: le istituzioni liberali (stato di diritto, rappresentanza politica, governo della maggioranza, neutralità della scienza e della cultura) andavano considerate mere ‘sovrastrutture’, lussi che il movimento operaio non poteva più permettersi. Anche nella versione comunista – leninista e terzomondista –, tuttavia, il marxismo non perse del tutto il senso della realtà: l’industria, il capitalismo (la ‘gallina dalle uova d’oro’), il progresso scientifico continuarono a far parte integrante della sua cultura politica e a ispirare un senso di responsabilità che impediva alle rivendicazioni operaie e contadine di superare un certo limite (v. certe grandi figure di sindacalisti come Giuseppe Di Vittorio). La stella polare della modernità continuò, in qualche modo, ad essere la sua guida.

Che cosa è cambiato nel frattempo? Il fenomeno nuovo e cruciale che abbiamo dinanzi può essere sintetizzato in poche parole: il prevalere dell’anticapitalismo antiborghese (di lontane ascendenze tradizionalistiche e controrivoluzionarie) sull’anticapitalismo socialista e positivista. Se il secondo voleva essere l’erede della civiltà borghese – di cui si proponeva di conservare le più alte conquiste – il primo assumeva, progressivamente, i tratti di una ‘guerra di civiltà’ volta a cancellare il passato borghese e i suoi simboli e pronta ad allearsi con i nemici più spietati dell’Occidente liberaldemocratico, sostituendo ad Antonio Labriola e a Karl Kautsky, Lenin, Franz Fanon, Herbert Marcuse. Non meraviglia che l’odio per il mondo borghese abbia condotto naturaliter a giustificare il suo antagonista più implacabile: l’islamismo radicale, senza dar troppo peso al suo misconoscimento assoluto dei diritti civili (a cominciare da quelli delle donne). Non escludo che, per una buona parte degli irriducibili antioccidentali, l’URSS sia caduta perché minata alla base dagli elementi illuministici che aveva ancora conservato nel suo DNA. Di qui la necessità di un’operazione chirurgica che liberi definitivamente il pianeta dal male prodotto dallo ‘sradicamento’ e che aveva contagiato lo stesso marxismo, con il suo richiamo ai ‘lumi’ e la sua esaltazione delle forze dissolventi del capitalismo («La borghesia ha creato ben altre meraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate»).

[articolo uscito su Paradoxa-Forum il 3 novembre 2025]

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Dino Cofrancesco
Dino Cofrancesco
Arce (FR), 15 novembre 1942 Laurea in Filosofia Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università degli Studi di Genova.
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