Sul problema delle carceri – Umanità e sicurezza
In primo pianoPoliticaSocietàI mali delle carceri italiane sono ben noti: mancanza di personale e di servizi, sovraffollamento, condizioni degradate di molte celle, suicidi 20 o 25 volte più frequenti che nel resto della popolazione. La situazione italiana non è mai stata quella di un paese civile, ma si è fortemente aggravata a partire dal 2018, anche per il progressivo venir meno degli effetti dell’indulto varato nel 2016. Periodicamente sentiamo lanciare appelli e proposte per alleggerire la situazione: nuovi indulti e amnistie, depenalizzazione di determinati reati, pene alternative al carcere, assunzione di nuovo personale specializzato, costruzione di nuove carceri.
Anche a me, più di una volta, è capitato di denunciare – cifre alla mano – la situazione disumana delle carceri italiane. Con il passare del tempo, tuttavia, mi sono formato la convinzione che, se davvero vogliamo affrontare il problema, dobbiamo – prima di tutto – liberarci di alcuni pregiudizi.
Il primo pregiudizio è l’idea che, in Italia, vi sia un ricorso eccessivo alla carcerazione. I dati, in realtà, indicano l’esatto contrario. Il nostro tasso di incarcerazione (circa 106 detenuti ogni 100 mila abitanti) è più basso di quello medio delle società avanzate, e pure di quello medio dell’Unione europea. E questo a dispetto del fatto che, con la rilevante eccezione degli omicidi, il nostro tasso medio di criminalità è maggiore sia di quello medio europeo, sia di quello medio delle società avanzate. Stante il numero di crimini commessi, ci aspetteremmo più e non meno detenuti.
Il sovraffollamento delle carceri non dipende dalla durezza della repressione penale, ma dal fatto che in Italia si finisce in carcere di meno nonostante si delinqua di più: se il numero di carcerati fosse commisurato al tasso di criminalità, il numero di detenuti sarebbe ancor maggiore.
Il secondo pregiudizio è che si possa far fronte al dramma dei suicidi in carcere semplicemente riducendo l’affollamento attraverso nuove carceri (che richiedono tempi lunghi) o mediante nuovi indulti (che esauriscono rapidamente i loro effetti). I suicidi non dipendono solo dai metri quadri per detenuto, ma dalla condizione spesso drammatica delle celle, dalla carenza di personale specializzato (medici, psicologi, sociologi), dalla possibilità di lavorare, studiare o essere coinvolti in attività dentro e fuori del carcere. Se si vogliono ridurre i suicidi, la costruzione di nuove carceri è meno importante (e probabilmente più costosa) della ristrutturazione e riorganizzazione di quelle esistenti.
Il terzo pregiudizio è che i detenuti stranieri debbano tutti scontare la pena in carceri italiane. Il percorso sarà lungo, ma non si può escludere che, in futuro, una frazione crescente di detenuti stranieri possa scontare la pena nei paesi di origine, o in paesi terzi che hanno sottoscritto accordi con l’Italia (in questa direzione si sono già mossi, negli ultimi anni, la Danimarca e il Regno Unito). Così come non possiamo escludere che il timore di essere espulsi o trasferiti abbia un effetto deterrente, con conseguente abbassamento del tasso di criminalità e alleggerimento delle carceri. Giusto per dare un ordine di grandezza: se il tasso di criminalità degli stranieri scendesse al livello di quello degli italiani si libererebbero circa 16 mila posti in carcere. E anche se risultasse 2 o 3 volte superiore a quello degli italiani (anziché 6-7 volte come oggi), si libererebbero comunque 8-10 mila posti. Più o meno quelli che, attualmente, occorrerebbe creare ex novo per neutralizzare il sovraffollamento.
C’è, infine, un’ultima considerazione. Quando si affronta il tema delle carceri, è inevitabile che si scontrino visioni liberali e garantiste da una parte e istanze securitarie dall’altra. Generalmente, quel che la politica è chiamata a fare è di riequilibrare un sistema che si è sbilanciato in una direzione o nell’altra, o perché ha dimenticato i diritti dei detenuti a un trattamento umano, o perché ha dimenticando i diritti dei cittadini a un accettabile livello di sicurezza. Il guaio del nostro sistema è che, ormai, si è sbilanciato in entrambe le direzioni: è troppo repressivo dentro le carceri, ma al tempo stesso è troppo remissivo al di fuori.
La “missione impossibile” della politica è di rimettere in equilibrio le cose: restituendo dignità ai detenuti, ma anche sicurezza ai comuni cittadini.
[articolo uscito sul Messaggero il 6 luglio 2025]