Le democrazie limitate
In primo pianoPoliticaSocietàChe cos’è una democrazia? Che cos’è una dittatura? Fino a qualche decennio fa questo genere di interrogativi non sollevava grandi difficoltà concettuali. È vero, accanto alle democrazie e alle dittature vere e proprie si affiancavano regimi intermedi o ibridi, non direttamente incasellabili nei due idealtipi di regime politico. Gli enti che si occupano di monitorare lo stato della democrazia hanno spesso previsto casi intermedi, misti o ibridi. Gli studiosi di politica sono spesso ricorsi a neologismi e termini composti per individuare i regimi che, in quanto miscele dei due tipi puri, non possono essere considerati né pienamente democratici né pienamente dittatoriali. Per i regimi come la Russia dopo la caduta del muro di Berlino, ad esempio, è stato talora usato il termine democratura, che evidenzia la coesistenza fra dittatorialità (pieni poteri dell’esecutivo) ed elezioni periodiche del parlamento e del capo di governo. Qualcuno, in passato, si è anche spinto a coniare il termine speculare, dictablanda, per evidenziare che un governo autocratico, senza alternanza al potere, può nondimeno ammettere alcune libertà civili di base (l’archetipo di questo regime è il Messico dopo la crisi del ’29, dove il Partito Rivoluzionario Istituzionale governò per ben 71 anni, senza sopprimere tutte le libertà civili).
Ma il caso che, come europei, ci riguarda più da vicino è quello delle democrazie illiberali, contrapposte alle democrazie vere e proprie, o liberal-democrazie. Con l’espressione democrazie illiberali, usata quasi sempre con connotazione negativa, si intendono quei regimi in cui la sovranità popolare, attuata mediante periodiche e libere elezioni, dà luogo a governi dotati di un potere eccessivo e/o mal esercitato. Dove il deficit di liberalismo può manifestarsi in modi alquanto diversi: subordinazione della magistratura al potere politico, assenza o debolezza dei contropoteri, leggi restrittive in materia di libertà di stampa, associazione, manifestazione del pensiero, mancato riconoscimento dei diritti delle minoranze, eccetera. Sotto questa critica sono caduti, in Europa, soprattutto tre paesi: l’Ungheria di Viktor Orbán, la Polonia di Mateusz Morawiecki, l’Austria di Jörg Haider. In tutti e tre i casi, secondo le autorità europee, il potere politico – a dispetto della sua investitura democratica – sarebbe andato al di là delle sue legittime prerogative, sottraendosi ai limiti imposti dallo stato di diritto.
Questa, per grandissime linee, era la situazione fino a qualche mese fa. Ora non più. Oggi, se vogliamo dare una descrizione minimamente accurata dei regimi politici e istituzionali possibili, dobbiamo tenere conto di una nuova possibilità. In ben tre paesi europei – Germania, Francia, Romania – si sta profilando una eventualità che, in certo senso, capovolge il caso delle democrazie illiberali: quella di una democrazia in cui il rispetto (vero o presunto) dello stato di diritto comporta una drammatica limitazione della democrazia.
Questa possibilità si è presentata in Francia, con una sentenza della magistratura che ha sancito l’ineleggibilità di Marine Le Pen, ossia della leader del principale partito francese, candidata favorita alla presidenza della Repubblica. Si è presentata in Germania, con un’indagine dei servizi segreti sul maggiore partito tedesco (la AfD, Alternative für Deutschland), che ne ha messo in dubbio il diritto a ricevere fondi pubblici e, forse, persino a concorrere nella competizione elettorale. E si è presentata pure in Romania, dove un’elezione presidenziale è stata annullata perché la Corte costituzionale ha ritenuto che i consensi a un candidato fossero stati gonfiati dalla propaganda russa (le elezioni che si svolgono oggi in Romania sono la ripetizione di quell’elezione annullata). In tutti e tre i casi le forze politiche penalizzate sono di destra, più o meno estrema e più o meno nostalgica, e in tutti e tre i casi a interferire con il voto sono stati organismi preposti a tutela della legge (Magistratura, Corte costituzionale, Servizi di intelligence interni).
Qui non voglio discutere della opportunità di escludere dalla competizione elettorale determinati partiti o candidati in quanto giudicati antidemocratici. Questione complicatissima, che inevitabilmente scalda gli animi. Quel che vorrei far notare, però, è che – sul piano logico – questa eventualità è l’esatto opposto di quello delle democrazie illiberali. In quel caso si trattava di democrazie imperfette in quanto sacrificavano lo stato diritto. Qui, se certe forze politiche vengono messe al bando, è lo stato di diritto che prevarica la democrazia.
Come chiamare questo nuovo tipo di democrazie?
A me il termine appropriato pare “democrazie limitate”, perché – nel momento in cui si esclude la forza politica che ha i maggiori consensi, è precisamente l’essenza della democrazia, ovvero il principio della sovranità popolare, che viene intaccato alla radice.
Su quale sia il male maggiore, la democrazia illiberale o la democrazia limitata, ognuno la pensa a modo proprio. Quel che vorrei far notare è soltanto un punto: ove il principio di escludere le forze politiche giudicate come “antidemocratiche” dovesse affermarsi dove già si è affacciato (in Germania, Francia, Romania), in paesi “a democrazia limitata” si verrebbero a trovare quasi 200 milioni di cittadini, poco meno della metà di quelli dell’intera Unione Europea. Non proprio un bel biglietto da visita per un’istituzione che ama sentirsi faro di libertà e democrazia.
[Articolo uscito sul Messaggero il 18 maggio 2025]