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Maurizio Caverzan intervista Luca Ricolfi per Panorama

Professore, leggendo il suo libro si ha l’impressione che il vizio della sinistra ufficiale stia nell’ambizione originale del partito democratico di «rappresentare la parte migliore dell’Italia». È corretto?

Sì, anche se non è l’unico vizio. C’è anche, fin dai tempi del partito comunista, la incapacità di analizzare la realtà in modo scientifico, e quindi spregiudicato. Di qui la tendenza a chiedersi, di qualsiasi proposizione empirica, non se è vera o falsa, ma se è utile o dannosa alla causa. La conseguenza è stata una sorta di cecità progressiva, nel doppio senso della parola: crescente e progressista. Con un esito finale: la totale incapacità di guardare la realtà con lenti non ideologiche.

Questo complesso di superiorità ha reso più difficile per la sinistra rappresentare i ceti popolari. Cosa nasconde la convinzione che la destra parli alla pancia del Paese?

Nasconde uno strano modo di pensare: se abbiamo ragione, e il popolo non ci capisce, allora vuol dire che il popolo non usa la ragione.

Spesso i politici progressisti denunciano con disprezzo la crescita del populismo. Come va interpretato l’uso di questo termine?

Le rispondo con la definizione della parola ‘populista’ proposta da Jean Michel Naulot: “POPULISTA: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”. Una definizione interessante anche perché risale al 1996, quando pochi vedevano il problema del divorzio fra la sinistra ufficiale e i ceti popolari.

La sinistra ufficiale si accorgeva dello scambio delle basi sociali in atto fra i due schieramenti? Ha scelto consapevolmente l’establishment?

Alcuni studiosi avevano segnalato il problema fin dai primi anni ’90, quando in fabbrica fece la sua prima comparsa la doppia tessera: operai iscritti alla Cgil & militanti della Lega. Poi ci sono stati diversi studi che hanno mostrato che la base del Pci-Pds-Ds stava diventando sempre più borghese. Infine, le analisi dei flussi elettorali hanno evidenziato il paradosso della Ztl che vota a sinistra e delle periferie che votano a destra.

Ma la sinistra ufficiale ha preferito non vedere. Sapevano, ma non volevano prendere atto. Sempre per quel motivo che dicevo poco fa: l’incapacità di guardare la realtà con un atteggiamento scientifico, ossia il primato dell’utile sul vero.

Il fatto che Giorgia Meloni nel primo discorso in Parlamento si sia presentata come underdog che rappresenta gli sfavoriti è la certificazione di questo scambio?

In un certo senso sì, anche se il termine underdog, di solito, designa gli sfavoriti in una competizione elettorale, cosa che il partito di Giorgia Meloni e il suo partito sono stati in passato, ma certo non nell’ultimo anno. Io piuttosto noterei una cosa: la novità di Giorgia Meloni non è solo che è la prima donna premier, ma che è il primo premier di umili origini. Tutti i premier della seconda Repubblica, oltre ad essere maschi, erano di origine sociale elevata, talora elevatissima o nobiliare. Per trovare un premier di origini sociali modeste dobbiamo risalire al 1988, quando venne eletto Ciriaco De Mita, nato in un piccolo comune montano dell’avellinese (Nusco), con un padre sarto e portalettere, e una madre casalinga.

Credo che il carisma di Giorgia Meloni – oltre che alla sua bravura, alla sua integrità e alla sua passione – sia dovuto all’ampiezza dei segmenti sociali per i quali può risultare naturale specchiarsi in lei

Quali segmenti ha in mente?

Le donne, ovviamente, ma anche gli strati popolari, ossia le persone che non possono contare su una famiglia di origine ricca, benestante, protettiva.

Persa la rappresentanza dei ceti deboli, la sinistra si è concentrata sui diritti civili e le minoranze Lgbt che coinvolgono i ceti medio alti. Perché, contemporaneamente, è così intransigente nella difesa degli immigrati?

Proprio perché ha abbandonato i ceti popolari. La difesa degli immigrati è una sorta di polizza di assicurazione contro la perdita della propria identità. Grazie agli immigrati, la sinistra può ancora pensare sé stessa come paladina degli ultimi. E grazie alla difesa delle rivendicazioni LGBT+ può pensarsi come campionessa di inclusione.

Perché la sinistra liberal appare come una forza tendenzialmente individualista, mentre la destra mantiene una tiepida dimensione comunitaria?

Perché la sinistra liberal, ovvero la sinistra ufficiale, crede che l’aumento senza limiti dei diritti individuali sia l’essenza del progresso, mentre la destra (e una parte del mondo femminile) vede il lato oscuro del progresso, a partire dalla distruzione dei legami comunitari e familiari.

Perché oggi la sinistra ufficiale parla più di inclusione che di eguaglianza? E questo che conseguenze ha nel dibattito pubblico?

Lo spiegò Alessandro Pizzorno una trentina di anni fa: parlare di inclusione rende più facile conferire un valore morale alla scelta di essere di sinistra, e assegnare un disvalore all’essere di destra: noi buoni vogliamo includere, voi cattivi volete escludere…

Il giudizio di Enrico Letta sul risultato elettorale del Pd è che «non è riuscito a connettersi con chi non ce la fa». A suo giudizio, quanto tempo gli servirà per tornare a farlo?

Non è un problema di connessione con chi non ce la fa, è un problema di comprensione della realtà.

Prima che completi il processo di revisione, può perdere ancora consensi? E a vantaggio del Terzo polo o del M5s?

I consensi li sta già perdendo. Secondo i dati che ho potuto analizzare, l’emorragia è bilaterale, ma un po’ più grave verso i Cinque Stelle che verso il Terzo polo.

Il catechismo politicamente corretto e la cancellazione della cultura rendono la nostra società più illiberale?

Sì, nella nostra società vengono predicate tolleranza e inclusione, ma il dissenso verso il politicamente corretto non è tollerato.

Fino agli anni Settanta gli intellettuali erano compatti contro la censura e per la libertà di espressione. Come mai oggi sono in gran parte schierati a difesa dell’establishment?

Perché ne fanno parte, specie nelle istituzioni culturali e nel mondo dei media. Difendendo l’establishment difendono sé stessi.

In Italia la battaglia sul politicamente corretto si è applicata sul ddl Zan: perché nonostante il parere contrario di eminenti giuristi, di movimenti femministi e di intellettuali di area progressista il Pd ne ha fatto un simbolo intoccabile?

Per il solito motivo, l’incapacità di accettare la realtà quando la realtà va contro l’utile di partito. In questo caso: l’incapacità di ammettere il fatto che il ddl Zan limita la libertà di espressione.

Perché il dibattito sulle desinenze è divenuto così importante? 

Perché l’agenda dei media è fatta da persone che non devono fare i conti con le asprezze della vita.

Perché l’introduzione del merito tra le competenze del nuovo ministero della Pubblica istruzione ha destato scandalo?

Un po’ per il mero fatto che ne ha parlato la destra, un po’ perché nella mentalità della sinistra c’è l’idea che premiare il merito di qualcuno significa umiliare il non-merito di qualcun altro. E’ questa mentalità che, negli ultimi 50 anni, ha distrutto la scuola e l’università.

Nel Novecento cultura e istruzione erano considerate a sinistra uno strumento di elevazione sociale, oggi non è più così?

No, la trasmissione del patrimonio culturale, cara a Gramsci e a Togliatti, non interessa più.

Sta passando a destra anche l’idea di emancipazione dei deboli attraverso la cultura?

Più che a destra, sta passando nel partito di Giorgia Meloni, secondo cui “eguaglianza e merito sono fratelli”.

In questo contesto, che cosa può significare la nascita del primo governo di destra in Italia?

La fine dell’egemonia culturale assoluta della sinistra.

Se dovesse dare un solo consiglio non richiesto alla premier cosa le suggerirebbe?

Dica che vuole, finalmente, che venga applicato l’articolo 34 della Costituzione, e vari un grande piano di borse di studio per “i capaci e meritevoli” privi di mezzi.

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